Paxon Leah smise per un momento di tagliare la legna e lasciò vagare lo sguardo sulle nebbiose Terre Alte che circondavano la città di Leah. Anche le Terre Alte erano chiamate Leah, e questo a volte confondeva i forestieri, che si domandavano se la gente del posto usasse un unico nome per designare qualsiasi cosa. Nel caso di Paxon, poi, la faccenda si complicava, perché Leah era anche il suo cognome, trasmesso di generazione in generazione a partire dagli antichi sovrani a cui erano state intitolate la città e l’intera regione.
Ma tutto ciò risaliva a molto tempo prima e aveva poco a che fare con lui. Paxon poteva anche discendere da quei re e da quelle regine, ma con il lignaggio e qualche moneta avrebbe comprato un boccale di birra nella taverna Ai Due Galli. A Leah la monarchia non c’era più: gli ultimi membri della famiglia reale avevano rinunciato alle proprie responsabilità poco dopo che Menion Leah aveva collaborato a uccidere il Signore degli Inganni, trovando e usando la leggendaria Spada di Shannara. Una storia remota, ormai dimenticata da molti, un retaggio che Paxon portava con noncuranza e scarso riguardo.
Tagliò un’altra decina di pezzi di legna da ardere per la scorta invernale e si interruppe di nuovo. Adesso i Leah erano cittadini comuni, uguali a chiunque altro. Per molti anni non avevano neanche partecipato al Concilio delle Terre Alte, l’attuale organo di governo. I suoi genitori avevano ereditato l’attività di trasporto merci che apparteneva alla famiglia da una decina di generazioni, un tempo florida ma ora appena sufficiente a garantire la sopravvivenza, che veniva gestita da Paxon con l’aiuto della madre. Organizzavano in media due trasporti al mese e ricavavano abbastanza denaro da sfamare e vestire la famiglia, composta oltre che da lui e la madre, dalla figlia minore Chrysallin. Il padre era rimasto ucciso in un incidente su un’aeronave che consegnava merci nelle Terre dell’Est quando Paxon aveva dieci anni.
Terminò di tagliare la legna e l’accatastò davanti alla baracca annessa al loro cottage, facendo di tanto in tanto qualche pausa per guardare il panorama e sognare un futuro migliore. Non che le cose gli andassero male. Gli restava del tempo libero per cacciare e pescare, tuttavia sarebbe stato ben contento di lavorare più duramente purché gli affari prosperassero. Aveva vent’anni, era alto e snello, con le spalle larghe e i capelli rossi tipici della sua famiglia. In passato c’erano stati centinaia di Leah con quella caratteristica; Paxon era solo il più recente e immaginava che centinaia di rossi sarebbero venuti dopo di lui, prima che la stirpe si estinguesse.
Una volta sistemata la legna, portò nella baracca gli utensili, li pulì e passò l’olio sulle seghe e la testa delle accette, poi entrò a lavarsi. La casa, un piccolo cottage con una cucina, un soggiorno e tre stanze da letto, era dotata di un caminetto e finestre affacciate a ovest e a sud che fornivano luce in abbondanza, un dettaglio importante quando si viveva in una regione in cui le giornate erano spesso grigie e fosche.
Diede un’occhiata alla vecchia spada che sua sorella aveva appeso alla mensola del caminetto sopra il focolare: la lama metallica, l’impugnatura di cuoio e il fodero con la cinghia erano neri come la notte. Chrys l’aveva trovata in soffitta e se n’era appropriata. I segni sull’arma indicavano che l’impugnatura e il fodero erano stati sostituiti più di una volta, mentre la lama era quella originale. Lei sosteneva che si trattasse della spada appartenuta ai Leah che avevano intrapreso svariate spedizioni con gli Ohmsford e i Druidi, dall’epoca di Menion fino ai tempi di Mirai. Paxon immaginava che la sorella avesse ragione: quando era bambino, i genitori gli raccontavano spesso le storie di famiglia. Anche alcuni loro amici le conoscevano, e nel corso degli anni quelle avventure avevano assunto caratteri leggendari.
Si lavò le mani e la faccia nel lavabo della cucina, con l’acqua pompata dal pozzo, si asciugò, tornò in soggiorno e si fermò davanti al caminetto. I racconti su quella spada nera erano ammonitori, bisbigliavano di magia tenebrosa e di grandi poteri. Correva voce che la lama, tanto tempo prima, fosse stata temprata nelle acque del Perno dell’Ade. Si diceva che un piccolo numero di Leah l’avesse portata in battaglia assieme ai Druidi e ne avesse evocato il potere.
Quando era più giovane, Paxon aveva tentato più di una volta di seguire le loro orme per scoprire se quelle storie fossero vere. A quanto pareva, non lo erano. Tutti i suoi tentativi di evocare la magia – di attivare in qualche modo i poteri della spada – erano falliti. Forse avrebbe dovuto fare di più, ma non esistevano manuali di istruzioni, perciò alla fine aveva rinunciato. In ogni caso, che bisogno aveva della magia? Lui non doveva partecipare a una spedizione con i Druidi e gli Ohmsford.
Ammesso che la stirpe degli Ohmsford non si fosse estinta.
A questo proposito c’era qualche dubbio. La famiglia aveva lasciato Patch Run, suo luogo d’origine, un centinaio di anni prima, quando Railing Ohmsford si era sposato con Mirai e l’aveva seguita nelle Terre Alte. Il fratello di Railing, Redden, era andato a vivere con loro finché non si era sposato a sua volta. I gemelli, legatissimi l’uno all’altro, erano rimasti nelle Terre Alte per tutta la vita. Dopo la morte di Redden, però, i suoi figli avevano lasciato la regione e di loro non si era più saputo niente. La nipote di Railing, invece, molto più vicina al ramo materno della famiglia, quando si era sposata aveva ripreso il cognome Leah e l’aveva trasmesso ai suoi figli.
Da allora in poi nelle Terre Alte non c’erano più stati Ohmsford, e Paxon non avrebbe saputo dire se ce ne fosse ancora qualcuno altrove nelle Quattro Terre. Di sicuro lui non ne aveva sentito parlare. La cosa lo intristiva, considerato il fatto che le due famiglie erano state intimamente legate per molti anni, fino al più recente matrimonio fra la sua bisnonna e Railing.
Ma tutto finisce, anche le amicizie, e le stirpi si estinguono oppure vanno avanti, com’è inevitabile che sia.
Gli Ohmsford possedevano il Canto Magico, un’emanazione della vera magia degli Elfi. Redden e Railing Ohmsford ne avevano l’uso, anche se in precedenza il Canto Magico aveva saltato alcune generazioni e in seguito non si era più manifestato né nei figli né nei nipoti di Railing e Mirai Leah. Perciò per i loro discendenti, fra cui Paxon, non era altro che un pezzo di storia privo di importanza pratica.
Inoltre Paxon sospettava che quel potere fosse un fardello più che un dono. Stando a quanto gli era stato raccontato, i gemelli avevano pagato a caro prezzo l’utilizzo della magia, specialmente Redden, che era caduto in uno stato catatonico dopo avere evocato il Canto Magico nel corso della terribile battaglia contro le creature del Divieto. Alla fine si era ripreso, ma per mesi, prima del recupero, suo fratello e Mirai avevano temuto che non ce l’avrebbe fatta. Qualsiasi forma di magia era pericolosa e il suo uso comportava sempre dei rischi, a prescindere che si trattasse o no di un talento innato.
Questo spiegava perché la magia fosse stata bandita nelle regioni controllate dalla Federazione, la cui egemonia a quell’epoca si estendeva su tutti i territori a sud del lago Arcobaleno, compresa Leah. Le zone più a nord godevano di maggiore libertà rispetto alle principali città delle Terre del Sud, e a dire il vero Leah e i villaggi del Duln erano ancora territori contesi, reclamati anche dalle Terre di Confine. In ogni caso, nessuno avrebbe corso il rischio di disubbidire apertamente all’editto emanato dalla Federazione andando incontro alle inevitabili conseguenze, soprattutto perché nelle Terre Alte era opinione condivisa che l’uso della magia dovesse essere lasciato ai Druidi o abbandonato completamente.
Paxon scrutò ancora un momento la spada e il fodero, poi si girò. Non era che una reliquia, un manufatto che aveva catturato l’interesse di sua sorella. Che importanza aveva? Per lui non rappresentava niente.
Tornò fuori e diede un’occhiata al cielo. Vide qualche nuvola, ma nessuna particolarmente minacciosa. Aveva ancora tempo per lavorare alla riparazione dei tubi radianti dell’aeronave. La settimana successiva doveva consegnare della merce e voleva che la nave fosse pienamente operativa. Pensò che avrebbe chiesto a Chrys di accompagnarlo. Era tempo che sua sorella cominciasse a prendere parte attiva agli affari di famiglia. Quindicenne ribelle e impulsiva, recentemente aveva iniziato a dare segni di insofferenza verso l’autorità e a fare del proprio meglio per scoprire in quanti guai potesse cacciarsi. Almeno questa era l’impressione che aveva Paxon. La loro madre, più tollerante, la considerava solo una ragazzina in crescita alla ricerca di se stessa. Ma per lui Chrys era una mina vagante.
Bastava pensare a quella volta in cui era riuscita a portare sul tetto del granaio il trattore dei Radanian. O a quando aveva chiuso venti maiali vivi nella stanza da letto del macellaio. O, ancora, a quando, con tre compagni, si era presentata a una riunione del Consiglio per protestare contro la delibera di un piano d’irrigazione che avrebbe comportato lo sbarramento del fiume Borgine nonché l’uccisione di migliaia di pesci e, per sottolineare il punto, aveva scaricato sul pavimento della sala vari secchi di pesci morti.
Per non dire delle volte che restava fuori tutta la notte assieme ai ragazzi o che tornava a casa dai Due Galli camminando di sghembo e cantando le canzoni oscene degli ubriachi delle Terre Alte.
Sua sorella aveva bisogno di qualcosa su cui concentrarsi, oltre a trovare nuovi modi creativi per divertirsi, ed era tempo che cominciasse a dare un contributo più concreto alla conduzione della famiglia che con le faccende domestiche. Avendo già qualche nozione di pilotaggio poteva aiutarlo nei suoi viaggi e in futuro, quando fosse cresciuta, forse sarebbe diventata abbastanza esperta da organizzare dei trasporti per conto proprio. Frattanto avrebbe imparato a pilotare un mercantile e dato una mano all’equipaggio.
Forse questo l’avrebbe tenuta lontana dai Due Galli e dalle altre taverne che bazzicava.
Paxon tornò in cucina e cominciò a frugare nella ghiacciaia e nella dispensa. Sua madre si era trasferita per qualche giorno dalla sorella per aiutarla con l’ultimo nato, perciò toccava a lui preparare la cena per sé e per Chrys, ammesso che sua sorella si facesse vedere. In quei giorni non sempre rientrava. Era preoccupato per lei e lo irritava il fatto che gli prestasse così poca attenzione.
“Non sei mio padre” avrebbe detto Chrys. “Non puoi darmi ordini.” Esasperante.
Certe volte Paxon desiderava con tutto se stesso che il padre fosse ancora lì con loro. Chrys era cresciuta troppo in fretta e aveva goduto di eccessiva libertà. Con una figura paterna che la tenesse a freno forse le cose sarebbero andate diversamente.
Scosse la testa, dubbioso. Come se qualcuno avesse potuto controllare Chrysallin...
Si versò un boccale di birra, uscì e si accomodò sulla sedia a dondolo sotto il portico. Pensò che doveva andare a cercarla e riportarla a casa. Non gli piaceva cenare da solo mentre si preoccupava per lei. Era già abbastanza seccante farsi carico di tutto quando la loro madre non c’era. Chrys pareva convinta di essere esente da qualsiasi responsabilità e di potersi comportare come meglio credeva senza rendere conto a nessuno.
Era un atteggiamento infantile, rifletté, infuriato. Sua sorella si comportava come un’egoista.
Ma in fondo era ancora una bambina. Per una quindicenne è naturale credere che non ci sia nulla che conti a parte se stessa.
Inoltre, Paxon doveva ammettere che Chrys aveva un cuore grande. Era gentile con gli altri, soprattutto con quelli meno fortunati di lei, sempre pronta a prestare o addirittura a regalare quello che possedeva. Faceva amicizia in un batter d’occhio e lottava per ciò in cui credeva. Non si tirava mai indietro e non si lasciava intimidire. I ricordi di Chrys bambina placarono in parte la sua frustrazione. Sarebbe tornata quella di prima, ne era sicuro. Alla fine tutto si sarebbe risolto.
Terminò la birra e riportò in cucina il boccale vuoto. Per la seconda volta in pochi minuti si disse che sarebbe dovuto andare al campo di volo per dedicarsi alla riparazione dei tubi radianti, dimenticandosi di Chrys e della cena per qualche tempo. Preoccuparsi del futuro raramente contribuiva a migliorarlo. Per ottenere qualche risultato, bisognava metterci un po’ di impegno. Questo di solito comportava applicarsi a qualcosa che avrebbe trasformato i desideri in realtà.
Mentre andava alla porta, lanciò ancora un’occhiata all’antica spada sulla mensola del caminetto. “Sarebbe bello poter migliorare le cose col semplice uso della magia” pensò. “Senza faticare. Anche se fosse per una volta sola.”
Fissò l’arma e a un tratto si domandò se la sua vita andasse nella direzione giusta. Trasportava merci sulle navi volanti perché era quello che aveva fatto suo padre. Dirigeva gli affari di famiglia perché era il più vecchio e, se non se ne fosse occupato, sua madre avrebbe dovuto vendere. Ma era ciò che voleva davvero? O stava semplicemente temporeggiando, scegliendo la strada più facile per evitare di affrontare l’ignoto e non rischiare niente?
La porta d’ingresso si spalancò.
«Paxon!»
Il giovane si girò e vide Jayet, una cameriera dei Due Galli, ferma sulla soglia, con l’aria sconvolta. «Cosa succede?» chiese subito.
«Tua sorella!» sbottò Jayet. «Ecco cosa succede. Farai meglio a venire di corsa!»
Chrys. Ovviamente si trattava di Chrys.
Paxon non si mise a discutere e uscì con Jayet. Quando si avviarono, faticò a starle al passo perché la ragazza andava quasi di corsa.
«Che ha combinato stavolta?»
«Si è messa nei guai. Cosa credevi?»
Jayet, piccola e tozza, aveva modi bruschi e una buona dose di freddezza. Simile a un bulldog, era perfetta per lavorare nella taverna. Sempre presente nel momento del bisogno, era l’unica amica su cui Chrys potesse contare, pronta a evitare che portasse a termine i folli progetti e le bravate che escogitava.
Si girò verso Paxon scuotendo la massa di ispidi capelli biondo chiaro. «Si è fatta coinvolgere in una partita a dadi. Sono in cinque, tutta gente di qui, tranne uno che dice di essere venuto per affari dalle città delle Terre del Sud. Non ha l’aria di un uomo d’affari, ma chi può dirlo? Comunque non facevo molta attenzione a loro. Nessuno causava guai, nemmeno Chrys, finché a un tratto è saltata su e ha cominciato a urlargli contro, come se non sopportasse di trovarsi nella stessa stanza con lui.»
«Quell’uomo le ha fatto qualcosa?»
«L’ha ripulita. Ha tirato cinque sette, prendendosi il piatto e tutte le scommesse. Compreso quello che Chrys aveva puntato e che non aveva con sé. A quanto ...