Il battello ondeggiava a un ritmo incessante, nauseabondo, come qualcuno che ruminasse un dente marcio. Le isole, appena visibili attraverso la foschia, anche quelle parevano denti, decise Faith. Non denti perfetti e bianchi di Dover, ma denti consumati, spezzati, che sbucavano storti dal mare grigio e increspato. Lo scafo si spingeva ostinato tra le onde, lordando il cielo di fumo viscido.
«Falco pescatore» disse Faith tra i denti che battevano, e lo indicò.
Il fratellino di sei anni, Howard, si voltò, non abbastanza rapido da vedere il grosso volatile, il cui corpo pallido e le ali dalle punte scure già si dileguavano nella nebbia. Faith fece una smorfia mentre il bimbo si dimenava sulle sue ginocchia. Se non altro aveva smesso di chiederle della bambinaia.
«È lì che andiamo?» Howard sbirciò le isole evanescenti dinanzi a loro.
«Sì, How.» La pioggia batteva sulla sottile tettoia di legno sopra le loro teste. Il vento penetrava dal ponte, pungendole il viso.
Malgrado il chiasso tutt’intorno, era certa di udire dei fievoli rumori dalla cassa su cui era seduta. Un raspare di movimenti, uno strusciare di squama su squama. Faith era in pensiero per il piccolo serpente cinese di suo padre che, già allo stremo per il freddo, avvolgeva e dipanava le proprie spire lì dentro, spaventato a ogni sobbalzo e rollio del ponte.
Dietro di lei, un gran baccano di voci faceva a gara con le strida dei gabbiani e il fud-fud-fud delle grosse pale del battello. Adesso che cominciava a piovere, tutti a bordo si accapigliavano per contendersi la piccola zona riparata a poppa. C’era posto per i passeggeri, ma non per tutte le casse. La madre di Faith, Myrtle, stava facendo del suo meglio per riservare una buona parte dello spazio al bagaglio della famiglia, con ragguardevoli risultati.
Voltandosi a dare una rapida occhiata, Faith vide Myrtle agitare le braccia come un direttore d’orchestra verso due marinai di coperta che posizionavano i bauli e le casse dei Sunderly. Quel mattino Myrtle era cerea di stanchezza e avvolta di scialli fino al mento, eppure, come di sua abitudine, parlava senza sosta e sopra a tutte le altre voci, tiepida, atona e imperturbabile, abituata, da bella donna, a confidare nell’altrui cavalleria.
«Grazie, lì, proprio lì… be’, di questo sono sinceramente dispiaciuta, ma non ci si può far nulla… sul fianco, se non vi spiace… be’, la vostra cassa a me sembra molto resistente… purtroppo le carte e i progetti di mio marito soffrono terribilmente le intemperie e… sì, il Reverendo Erasmus Sunderly, il famoso naturalista… che gentile! Sono lieta che non vi rechi disturbo…»
Dietro di lei sonnecchiava lo zio Miles, il faccione paffuto placido e spensierato come un cucciolo su un tappeto. Lo sguardo di Faith scivolò oltre per posarsi sulla figura alta e silenziosa alle sue spalle. Suo padre, con il cappotto nero da prelato, il cappello a larghe falde che adombravano la fronte alta e il naso adunco.
Non mancava mai di incuterle soggezione. Anche in quel preciso momento, mentre scrutava gli orizzonti grigi con sguardo penetrante da basilisco, tenendosi al riparo dal rovescio gelido, distante dal fetore di sentina e di fumo di carbone, e dai volgari litigi e spintoni. Per gran parte delle settimane lo vedeva più sul pulpito che a casa, dunque era strano volgere gli occhi e trovarlo lì seduto. Quel giorno Faith provava un formicolio di dolente compassione. Lo vedeva fuori dal suo elemento, un leone in uno spettacolo secondario sotto lo scudisciare della pioggia.
Su ordine di Myrtle, Faith sedeva sulla cassa più grande della famiglia, per impedire a chicchessia di trascinarla di nuovo fuori. Di solito riusciva a passare inosservata, perché nessuno aveva attenzione da sprecare per una quattordicenne dai lineamenti legnosi e dai capelli legati in una treccia color marrone fango. In quell’istante sussultava sotto gli sguardi sdegnati, arsa da tutto l’imbarazzo che la madre non provava mai.
La figura esile di Myrtle era piazzata in modo da fermare chiunque si azzardasse a inserire il proprio bagaglio sotto la tettoia della saletta. Un uomo alto, corpulento e dal naso camuso pareva deciso a scansarla e spingersi dentro con il proprio baule, ma lei lo bloccò con un sorriso fulmineo. Batté le ciglia due volte, e i suoi grandi occhi azzurri si spalancarono d’uno splendore sollecito e sincero, come se soltanto in quel momento fosse riuscita a distinguere con chiarezza la persona che le si parava davanti. Malgrado il naso appena arrossato e il pallore esausto, il suo sorriso riusciva a mostrarsi ancora dolce e fiducioso.
«La ringrazio tanto per la sua comprensione» disse. La sua voce era incrinata da una patina di stanchezza appena percettibile.
Era uno degli stratagemmi di Myrtle per manipolare gli uomini, una piccola civetteria che metteva in atto con la stessa meccanica facilità con cui apriva il ventaglio. Ogni volta che andava a segno, Faith si sentiva rivoltare lo stomaco. E andò a segno in quel momento. L’uomo arrossì, fece un inchino e si ritrasse, ma Faith comprese che non per questo il suo risentimento s’era ammansito. A dirla tutta, Faith sospettava che la sua famiglia si fosse inimicata quasi tutti sul battello.
Howard nutriva una muta adorazione per la madre, e anche Faith da piccola l’aveva vista sotto la stessa luce idilliaca. Le rare visite di Myrtle alla loro cameretta erano state allora una fonte d’insostenibile euforia, e Faith aveva adorato persino il rituale di toletta, spazzolate e vestizione necessari per renderla presentabile a ciascuno di quegli incontri. Myrtle al tempo le appariva come un essere venuto da un altro mondo: luminosa, lieta, splendida e inavvicinabile, una ninfa solare dotata di un incredibile senso dell’eleganza.
Nell’ultimo anno però Myrtle aveva deciso di cominciare a “seguire più da vicino Faith”, cosa che implicava incursioni improvvise nel bel mezzo delle lezioni per trascinarla via d’impulso in visite di cortesia o giri per la città, per poi riabbandonarla in cameretta o di nuovo in classe. Nel corso di quei mesi, la vicinanza aveva prodotto i suoi effetti, scrostando scheggia dopo scheggia la vernice dorata. Faith aveva cominciato a sentirsi come una bambola di pezza, agguantata e rimessa via secondo i capricci di una bimba irrequieta dagli umori imprevedibili.
In quel momento la folla si disperdeva. Myrtle si accomodò su una pila di tre bauli accanto alla cassa di Faith, visibilmente soddisfatta di sé.
«Spero proprio che la sistemazione riservataci dal signor Lambent sia munita di un salone decoroso» osservò «e che la servitù sia all’altezza. La cuoca non può essere francese, questo è certo. Avrei difficoltà a tenere le redini di una casa dove la cuoca può decidere di fraintendermi ogni volta che le aggrada…»
Il tono di Myrtle non risultava sgradevole, ma era un gocciolio incessante, incessante, incessante. Per tutta la giornata la sua ciarla era stata compagnia costante della famiglia, dispensata prima al cocchiere della vettura che li aveva condotti alla stazione, poi ai facchini che avevano stipato i bagagli nei treni per Londra, quindi al signor Poole, il burbero gestore della locanda gelida dove avevano trascorso la notte, e infine al capitano di questo fumoso battello postale.
«Perché ci andiamo?» disse Howard. Aveva gli occhi annebbiati per la stanchezza. Era al bivio: per lui si profilavano un sonno incontrollabile o bizze irrefrenabili.
«Lo sai già, tesoro caro.» Myrtle allungò un cauto dito inguantato per scostare una ciocca umida dagli occhi del bimbo. «Ci sono delle grotte importantissime su quell’isola, dove dei signori hanno trovato decine di bellissimi fossili. Nessuno conosce i fossili meglio di tuo padre, perciò gli hanno chiesto di andare a studiarli.»
«Ma perché ci siamo venuti pure noi?» insisté Howard. «Non ci ha portati in Cina. O in India. O in Africa. O in Mònghila.» L’ultimo era il suo miglior tentativo di dire Mongolia.
Era una domanda sensata, una domanda che in tanti probabilmente si ponevano. Il giorno precedente una bufera di bigliettini di scuse e annullamenti dell’ultimo istante s’era abbattuta sulle case di tutta la parrocchia dei Sunderly come rettangolari fiocchi di neve. La notizia dell’improvvisa partenza della famiglia si sarebbe diffusa, rapida come un incendio estivo.
In verità anche Faith avrebbe voluto conoscere la risposta alla domanda del fratellino.
«Oh, non saremmo mai potuti andare in quei luoghi!» dichiarò Myrtle, vaga. «Serpenti, febbri, gente che mangia i cani. Questa è un’altra cosa. Sarà una piccola vacanza.»
«Dobbiamo andare via per il Signore degli Scarafaggi?» chiese Howard, storcendo il viso, pensieroso.
Il Reverendo, che non aveva dato alcun cenno di badare alla conversazione, d’un tratto inspirò dal naso e sbuffò un sibilo infastidito. Scattò in piedi.
«La pioggia si attenua, c’è troppa gente in questa saletta» sentenziò, e si allontanò a lunghi passi sul ponte.
Myrtle fece una smorfia e rivolse lo sguardo allo zio Miles, che si sfregava via il sonno dagli occhi.
Lo zio fissò la sorella inarcando appena le sopracciglia, in un cenno d’intesa. «Forse ho bisogno anch’io di una… passeggiatina salutare.» Si lisciò le punte dei baffi, quindi seguì il cognato fuori dalla saletta.
«Dov’è andato papà?» domandò Howard con un tono inquieto, allungando il collo a sbirciare in direzione del ponte. «Posso andare anch’io? Posso prendere il fucile?»
Myrtle chiuse gli occhi per un istante e lasciò vibrare le labbra in quella che parve una lieve, esasperata supplica di tregua. Li riaprì, e sorrise a Faith.
«Oh, Faith, tu sì che sei un tesoro.» Era il solito sorriso che le rivolgeva sempre, affettuoso ma con un tocco di stanca indulgenza. «Non sarai la più vivace delle compagnie… però se non altro non poni mai domande.»
Faith abbozzò un sorriso scialbo, freddo. Sapeva a chi si riferiva Howard parlando del Signore degli Scarafaggi, e sospettava che con la sua domanda avesse pericolosamente colto nel segno, o ci fosse andato parecchio vicino.
In quell’ultimo mese la famiglia aveva vissuto in una gelida caligine di parole taciute. Sguardi, bisbigli, tenui inflessioni nei modi, un graduale ritiro dalla vita sociale. Faith aveva notato il cambiamento, ma non era stata in grado di indovinarne il motivo.
E poi, una domenica, al ritorno dalla chiesa, un uomo con un cappello di feltro marrone si era avvicinato per presentarsi alla famiglia, con tanti inchini e riverenze, e un sorriso di labbra, che non proveniva mai anche dallo sguardo. Era l’autore di una ricerca sugli scarafaggi: lo stimato Reverendo Erasmus Sunderly voleva valutare di redigerne la prefazione? Lo stimato Reverendo non aveva la benché minima intenzione di valutare la proposta, e s’era fatto via via più glaciale e irritato alle insistenze dello sconosciuto. Quell’uomo stava “estorcendo confidenza in dispregio di ogni regola di buona creanza”, e alla fine il Reverendo l’aveva liquidato con quelle esatte parole.
Il sorriso dell’appassionato di scarafaggi s’era allora declinato in qualcosa di meno cortese. Faith ricordava ancora la pacata velenosità della sua replica.
«Vogliate perdonarmi per aver supposto che la vostra cortesia fosse pari al vostro intelletto. A giudicare da come le voci vanno diffondendosi, Reverendo, avrei creduto che sareste stato felice di trovare un uomo di scienza vostro pari ancora disposto a stringervi la mano.»
Al ricordo di quelle parole, le si raggelava ancora il sangue. Non avrebbe mai immaginato di vedere suo padre oltraggiato con una tale sfrontata insolenza. A peggiorare la situazione, il Reverendo aveva voltato le spalle all’estraneo in furibondo silenzio, senza esigere spiegazioni. La nebbiolina fredda dei sospetti di Faith aveva cominciato a cristallizzarsi. C’erano delle voci in giro, e suo padre doveva esserne a conoscenza, anche se lei ne era all’oscuro.
Myrtle si sbagliava. Faith era piena di domande, che si avvolgevano e contorcevano in lei, come il serpente nella cassa.
“Oh, ma non posso. Non devo lasciare che Quella prenda il sopravvento.”
Nei suoi pensieri, Faith la chiamava sempre così: Quella. Non le dava mai un nome, per paura di conferirle ulteriore potere. Quella era una dipendenza, lei lo sapeva. Quella era la cosa cui rischiava costantemente di cedere le armi, cosa che però non succedeva mai. Quella era l’esatto opposto della Faith che il mondo conosceva. Faith la docile, il tesoro di ragazza. La coscienziosa, insignificante, devota Faith.
Era alle opportunità impreviste che lei trovava particolarmente difficile resistere. Una busta lasciata incustodita con la lettera che sbucava fuori, pronta, stuzzicante. Una porta non chiusa a chiave. Una conversazione incauta, fatta senza badare a chi avrebbe potuto origliare.
C’era una vera e propria fame in lei, e alle ragazze non si confaceva essere fameliche. Le ragazze dovevano sbocconcellare con parsimonia a tavola, e le loro menti dovevano accontentarsi di una dieta morigerata. Poche lezioni stantie da parte di una istitutrice stanca, passeggiate monotone, passatempi vacui. Ma tutto questo a lei non bastava. Tutta la conoscenza – ogni genere di conoscenza – attirava Faith, e c’era un piacere delizioso, pernicioso, nel carpirla senza essere scoperta.
Ma in quel momento la sua curiosità aveva un obiettivo preciso, una tensione impellente. In quel preciso istante, suo padre e lo zio Miles forse stavano parlando dell’Uomo degli Scarafaggi, e dei motivi dell’esodo inatteso della famiglia.
«Madre… posso fare una piccola passeggiatina sul ponte? Il mio stomaco…» Faith riuscì quasi a convincersi delle sue stesse parole. Le budella le si contorcevano davvero, ma per la frenesia, non per il frastornante beccheggio dell’imbarcazione.
«Molto bene… ma se qualche estraneo dovesse rivolgerti la parola non rispondere. Prendi l’ombrello, fa’ attenzione a non cascare fuoribordo, e torna presto o potresti prenderti un’infreddatura.»
Mentre Faith camminava lenta lungo il...