Il direttore
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Il direttore

  1. 396 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il direttore

Informazioni su questo libro

Il giovane porta dei jeans a vita bassa e una felpa grigia, le mani affondate nelle tasche. È di fronte al cancello dell'ambasciata USA, ad Amburgo. Una brezza gelida gli sferza il viso. Rabbrividisce, impaziente, gli occhi cerchiati dalla stanchezza. "Ho un messaggio per Graham Weber, il nuovo direttore della CIA, per lui e per nessun altro. Se non mi fate entrare sono un uomo morto." Il direttore della CIA sta a Washington, gli viene detto, ovvio, e non parlerà mai con un povero punk. Eppure nello sguardo allucinato di quel ragazzo c'è qualcosa che lo rende credibile. Dice di essere un hacker, di essere a conoscenza dei codici blindati dell'Agenzia, di avere la lista di tutti i loro agenti in Germania e in Svizzera. Potrebbe essere la grande occasione, per l'annoiata funzionaria dell'ambasciata, di apprendere rivelazioni strabilianti su un mondo cyber di cui i burocrati non immaginano nemmeno l'esistenza e invece la donna esita, tentenna, lo lascia uscire dal palazzo protetto. Errore.

Come un'ombra disperata lui si allontana. Un deviante? Un pazzo idealista? Una cellula dormiente? O forse l'ultima possibilità che aveva la CIA di difendersi da un attacco cibernetico? In pochi secondi quell'uomo diverrà irrintracciabile, in un universo di irrintracciabili.

Ha così inizio il peggior incubo per il direttore della CIA, costretto a un'impossibile caccia all'uomo e nello stesso tempo scaraventato nell'inferno del mondo dentro la rete, un mondo fatto soltanto di uno e di zeri e di codici capaci di infettare ogni barriera dell'intelligence di Stato, che fa sembrare WikiLeaks un gioco da ragazzi. L'attacco all'economia è un rischio reale, l'intrigo internazionale si sviluppa in modo incontrollato e soltanto il direttore appena nominato, fragile per la sua inesperienza, li può combattere. Rischiando tutto con una mossa. La sua prima incredibile mossa.

La consumata maestria di David Ignatius, la perfetta architettura della storia spionistica, l'accuratezza delle informazioni sul complesso mondo dell'intelligence fanno di questo romanzo la spy story per eccellenza.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804650508
eBook ISBN
9788852075643
1

WASHINGTON

Alla prima riunione dello staff, i nuovi colleghi di Graham Weber pensarono che stesse scherzando quando dichiarò di voler rimuovere la statua di William J. Donovan dall’ingresso. I vecchi del mestiere, che poi tanto vecchi non erano, e che di sicuro invece erano dei gran cinici e bastardi, diedero per scontato che non se ne sarebbe fatto nulla. Donovan era stato il fondatore dell’agenzia, per l’amor del cielo! Quella statua, con lui ben piantato sulle gambe e una mano sulla cintura, bello come un dio di bronzo e determinato a vincere da solo la Seconda guerra mondiale, era stata all’ingresso da quando Allen Dulles aveva costruito quel maledetto edificio. Non è che il primo arrivato potesse sbarazzarsene così.
Il nuovo direttore era invece maledettamente serio: l’agenzia era entrata nel Ventunesimo secolo ed era tempo di aggiornare anche i simboli. I vecchi dello staff, riuniti nella sala conferenze al settimo piano, non ci volevano credere, ma nessuno fiatò. Se intendeva impiccarsi da solo, non aveva che da dirlo. Il giorno dopo qualcuno fece la soffiata al “Washington Post”, cosa che pare avesse divertito il direttore e rafforzato la sua convinzione sul caos che regnava in quel posto. Nello sbigottimento generale, lui rimase fermo nel proprio intento, e rimosse dal suo posto la figura iconica di “Wild Bill” piazzata davanti alla porta sinistra dell’ingresso. Una comunicazione ufficiale riferì che la statua era stata temporaneamente rimossa a scopo di restauro, ma i giorni passarono e dove una volta era situato il piedistallo non rimase che un pezzo di pavimento scolorito.
La Central Intelligence Agency funziona per certi versi come un liceo. I membri della prima linea già la prima settimana coniarono dei soprannomi alle spalle di Weber, giocando con le lettere del cognome, come si fa con i professori a scuola: era diventato “Webfoot”, “Web-hand”e, ovviamente, “Moneybags”. Uomini e donne uniti nel nonnismo, visto che quando serpeggia il malcontento nei posti di lavoro le pari opportunità vengono sempre rispettate. Il direttore sembrava non curarsene. Da giovane lo chiamavano “Rocky”, ma ormai nessuno lo faceva più da anni. Non gli sarebbe dispiaciuto ritornare a quel nomignolo. Tanto più i suoi lo prendevano in giro, tanto più si rafforzava in lui la volontà di mettere a posto quella che aveva definito, alla prima riunione con il personale, l’agenzia più disorientata dell’intero governo. E nessuno lo aveva contraddetto. Perché avrebbero dovuto? Era vero.
Weber era stato etichettato dai giornali come un “change agent”, una figura che avrebbe facilitato la trasformazione, processo che l’agenzia avrebbe dovuto affrontare, o almeno così ritenevano alcuni cervelloni (una mezza dozzina di editorialisti dei principali quotidiani). La CIA era maltrattata e malconcia. Aveva bisogno di sangue fresco, e Weber sembrava il tipo giusto per sistemare le cose. Si era fatto una reputazione nel mondo degli affari acquistando una mediocre società di comunicazioni e puntando allo sfruttamento di una banda larga a cui nessuno pareva interessato. Era diventato ricco come migliaia di altri ma, a differenza loro, aveva resistito quando il governo si era messo di mezzo. La comunità dell’intelligence gli aveva dato fiducia, e così, quando lui aveva detto di no alle politiche governative di sorveglianza, la cosa aveva sortito un certo effetto.
Per essere il direttore della CIA appariva un po’ troppo sano, con quel mento prominente, gli zigomi pronunciati e quegli occhi azzurro ghiaccio. Aveva una faccia da ragazzino, con le ciocche di capelli che gli cadevano sulla fronte, e le guance che si arrossavano subito quando si imbarazzava o esagerava nel bere; ma questo succedeva raramente. Lo si poteva prendere per uno scandinavo, un finlandese, o forse uno svedese, oppure per uno che era cresciuto nel Nord Dakota. Aveva un modo di porsi solido e riservato come quello di chi è abituato alle pianure del Nord, terre avare per definizione. In realtà era tedesco-irlandese, originario della periferia di Pittsburgh. Venuto via di là per inoltrarsi nei territori senza confini delle ambizioni e del denaro, aveva finito per passare gran parte della sua vita sugli aerei. E ora era approdato a Langley, in Virginia, anche se le voci di corridoio davano per scontato che non sarebbe durato a lungo.
Il presidente aveva annunciato che lo scopo della nomina di Graham Weber era la ricostruzione della CIA. Il precedente direttore, Ted Jankowski, era stato licenziato perché apparentemente coinvolto in uno scandalo di tangenti relative agli appalti dell’agenzia nelle operazioni all’estero. “Apparentemente coinvolto”, si diceva, perché il caso Jankowski era all’esame del grand jury e nessuno, allo stato attuale, era ancora stato incriminato. Di fatto, anche per gli standard della CIA, si trattava di un grande scandalo. Il Congresso aveva richiesto a gran voce un nuovo direttore che sradicasse la corruzione, volevano un outsider. Nel corso dell’ultimo anno Weber aveva tenuto conferenze sulla policy dell’intelligence ed era stato convocato ad alcuni briefing della Casa Bianca. Quando il presidente istituì una commissione sulle politiche della sorveglianza, Weber ne entrò a far parte e, alle dimissioni di Jankowski, era diventato il candidato numero uno alla successione.
Ci volle un mese di tempo perché il processo di valutazione, con tutte le noiose procedure del caso, facesse il suo corso. Weber accettò di vendere tutte le azioni della sua società, riuscendo comunque a realizzare il massimo, e aprì un blind trust per i proventi, come richiesto dal codice etico. Constatare quanto fosse ricco lo imbarazzò. L’unica cosa che mise in agitazione gli incaricati della valutazione fu il divorzio dalla moglie, accaduto circa cinque anni prima. Volevano trovare una giustificazione, una “storia” che spiegasse come mai un matrimonio in apparenza così riuscito e con una donna meravigliosa fosse finito nel nulla. Lui replicò agli esaminatori della Casa Bianca di rivolgersi al tribunale di Seattle, ben sapendo che da lì non sarebbe arrivata nessuna risposta, e lasciò inevasa la successiva richiesta, formalizzata per iscritto. Non erano fatti loro, e di nessun altro, i motivi per cui sua moglie l’aveva lasciato per un altro uomo; lui stesso non avrebbe saputo dire se lei si era comportata così per distoglierlo dalla sua ossessione per gli affari o se invece era davvero innamorata dell’altro. Il mondo aveva finito per pensare che la responsabilità era stata sua; e il fatto di essersi preso la colpa, alla fine di quel comune disastro, fu un regalo che Weber fece alla moglie. Da allora aveva tentato di incontrare altre donne, ma sembrava che nel suo cuore non ci fosse più spazio. «Cosa ti succede, c’è dell’altro?» gli chiese il suo avvocato, rimanendo contrariato quando Weber scosse la testa e rispose fermamente: «No».
«Quel posto è una casa infestata» disse il presidente a Weber nella loro ultima conversazione, prima che l’annuncio della nomina fosse ufficiale. «Ci vuole qualcuno che lo ripulisca dai fantasmi. Sei in grado di farlo? Devi sistemare questa faccenda.»
Per uno come Weber quel tipo di sfida era irresistibile, tentare l’impossibile lo galvanizzava. Da quasi cinque anni era divorziato, i figli erano ormai cresciuti e la casa di Seattle era sempre vuota. Aveva tutto il tempo che voleva e, come molti uomini d’affari che hanno avuto successo, non voleva essere conosciuto soltanto come uno che aveva fatto i soldi. Così, con quella fame impulsiva e la sicurezza dell’imprenditore che non aveva mai sbagliato un colpo, decise di accettare la gestione di quello che il presidente, con un ultimo e sconsolato commento, finì per definire l’“hotel fantasma”.
I vecchi del mestiere misero in guardia Weber sul fatto che l’agenzia navigava davvero in cattive acque. Le guerre del decennio precedente in Iraq e Afghanistan erano andate male, trascinando con sé anche le operazioni apparentemente di successo. La CIA era stata costretta a fare delle cose di cui erano state accusate precedenti generazioni di ufficiali senza che fossero in realtà mai accadute, cioè torturare persone e condurre sistematiche campagne di assassinii. Sarebbe stato già abbastanza grave se le imprese di quella Società Omicidi fossero passate inosservate; ma l’effetto collaterale più eclatante della cattura di Osama bin Laden era stato quello di creare centinaia di milioni di nuovi nemici degli Stati Uniti. Nel mondo si era ingenerata una nuova rabbia contro l’America che, insieme al disprezzo per il suo potere, formava una pessima combinazione.
Adesso, in fase di ritirata, la CIA, per ogni passo, aveva bisogno di un’autorizzazione. Nei primi giorni fu la cosa che più impressionò Graham Weber. Lui era abituato al potere esecutivo di chi dirige una grande azienda, alla licenza di assumersi dei rischi che costituisce l’aspetto creativo del management. Ma adesso si trovava in un posto diverso. La moderna CIA lavorava più per il Congresso che per il presidente. Al suo primo briefing sulle operazioni clandestine, Weber domandò curioso se l’agenzia si fosse introdotta nei sistemi dei leaker anonimi che stavano rubando interi depositi zeppi di informazioni americane segrete per poi diffonderle pubblicamente. Gli era stato detto di no, che sarebbe stato troppo rischioso per l’agenzia. Se la CIA avesse tentato di penetrare WikiLeaks, ebbene… questo fatto sarebbe “trapelato”.
I paesi piegati sono delle bestie imbronciate, e l’America stava soffrendo una specie di sconfitta. Come dopo il Vietnam, il paese voleva dimenticare tutto e guardare la televisione, ma la CIA non poteva farlo, o meglio, non era quello che si pensava dovesse fare. Aveva una rete di agenti in giro per il mondo pagati per rubare segreti. Anche i giovani talenti però avevano capito che era il momento di trovarsi un angolino tranquillo, osservare e aspettare. E a quel punto era arrivato Graham Weber.
2

WASHINGTON

Per prendere le misure gli ci volle quasi una settimana. Weber dovette imparare come usare il sistema informatico classificato, incontrare il personale, rispondere alle telefonate di cortesia dei membri del Congresso e in generale come ingraziarsi una Washington che di lui sapeva poco o niente. Quella prima settimana in ufficio si astenne dal portare la cravatta. I dirigenti della sua società erano abituati così, e anche quelli della maggior parte delle aziende tecnologiche e di comunicazioni con cui aveva sempre avuto a che fare; e con sua soddisfazione i colleghi della CIA rimasero spiazzati. Dopo pochi giorni, alcuni funzionari iniziarono a girare senza cravatta per ingraziarsi il capo. Giovedì, per confondere tutti, Weber se la mise.
Comprò un appartamento a Watergate perché gli piaceva la vista del Potomac. Assunse un decoratore d’interni che diede alla casa un tocco estenuato e freddo come esigeva la tendenza. Era molto più spazio di quello che gli serviva; era divorziato e non teneva alla vita mondana. I suoi due ragazzi, dopo aver passato la notte lì e avergli detto che la vista era davvero forte, il giorno dopo erano ritornati nel New Hampshire per i loro impegni scolastici. L’Ufficio della sicurezza insistette per affittare un appartamento all’ingresso dell’edificio, così da installare un sistema di comunicazioni protetto per il direttore e garantire ai propri uomini un posto dove potessero riposarsi. La cosa che più piaceva a Weber era il lungo balcone che accompagnava il soggiorno e la sala da pranzo, affacciato sul fiume. Il capo della sicurezza l’aveva avvertito, ricordandogli che non era il caso di sedersi all’aperto, a meno che non fosse con lui una guardia del corpo, ma essere sorvegliato da vicino non rientrava nelle sue abitudini e così, a tarda notte, metteva una sedia davanti alla finestra e contemplava il flusso scuro della corrente.
Il venerdì della prima settimana, Weber decise di andare nei suoi uffici alle prime luci del mattino, prima dell’arrivo dei servi e dei cortigiani. Entrò alle cinque e trenta, quando non c’era anima viva, per vedere il sole sorgere sul suo nuovo dominio. L’edificio di cemento ribassato della vecchia sede appariva, ancora al buio, in tutto il suo tetro grigiore, solo poche luci visibili ai piani bassi e in alto niente, stanze ancora vuote e in attesa. Che cosa avrebbe fatto Weber di quel grumoso budino di segretezza e burocrazia? Non ne aveva la minima idea.
Uscì accompagnato dalla scorta, caratteristica imprescindibile della sua nuova vita. Il capo delle guardie del corpo era Jack Fong, un filippino americano con le sembianze di un frigorifero umano, militare di carriera della sicurezza. Fu suo compito scortarlo nel garage, fino all’entrata dell’ascensore personale del direttore. Nella cabina c’era un tale silenzio che Weber poteva sentire il ticchettio del suo orologio. Si girò verso Fong. Come gli altri in quei primi giorni, anche il capo della sicurezza era sollecito a ogni sua richiesta.
«Posso fare qualcosa per lei, signore?» Fong si riferiva a un caffè, dei dolci, un bicchiere d’acqua. Weber invece, perso nei propri pensieri, gli rispose riferendogli quello che davvero gli passava per la testa.
«Forse dovrei far saltare in aria questo posto. Trasformarlo in un parco a tema e iniziare da un’altra parte. Cosa ne pensa, Fong?»
L’uomo della sicurezza, collo taurino e poca fantasia, lo guardò sorpreso. I direttori non scherzano mai. Sul viso di Weber era stampato un mezzo sorriso, ma l’unica cosa che la guardia del corpo vide erano i suoi occhi azzurri.
«Un parco a tema. Certo signore, senza dubbio.»
Fecero il resto del tragitto in silenzio.
Weber si sedette alla grande scrivania del settimo piano e rivolse lo sguardo al di là dei vetri antisfondamento, verso le cime degli alberi a est, dove i primi cenni del mattino si facevano visibili. Spense le luci. Le pareti erano nude e pitturate di fresco, Jankowski si era dimesso due mesi prima e di lui non c’era più traccia. L’ufficio era suo. La luce mattutina fece capolino sulla parete come il raggio della pila di un intruso. Osservò la scrivania. Il massiccio frontone era di quercia e doveva essere un lascito degli uffici legali di “Wild Bill” Donovan, il padre dell’intelligence americana. Sul piano di lavoro c’erano parecchie macchie, vecchi segni di tazze di tè o caffè posate lì. I cassetti laterali di legno erano tutti chiusi, ma non quello centrale. A Weber, nel trambusto di quei primi giorni, non era capitato ancora di aprirlo. Provò a tirarlo, aspettandosi di trovarlo vuoto come tutto il resto dell’ufficio. Scoprì invece, proprio in fondo, una busta chiusa con sopra il suo nome. Rimosse la parte sigillata e sfilò un sottile foglio di carta. Era stato battuto di recente. Lesse attentamente le parole:
Una nazione può sopravvivere ai folli e anche agli ambiziosi. Ma non può sopravvivere al tradimento dall’interno. Un nemico alle porte è meno temibile perché mostra apertamente i suoi stendardi e si fa vedere. Il traditore si muove fra la gente, con facilità entra nelle porte della città, e il suo subdolo, frusciante mormorio si diffonde nelle strade fino a giungere nelle stesse stanze del governo.
Marco Tullio Cicerone
Weber rigirò il foglio tra le mani, provando un brivido momentaneo, come se uno spiffero di vento gelido avesse attraversato di colpo la stanza. Quale ammonimento doveva trarre dalle antiche parole dell’oratore – e, ancor più, chi era stato a piazzarlo in quel cassetto apposta perché lui lo leggesse nei primi g...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL DIRETTORE
  4. 1. WASHINGTON
  5. 2. WASHINGTON
  6. 3. AMBURGO
  7. 4. AMBURGO
  8. 5. FREDERICK, MARYLAND
  9. 6. WASHINGTON
  10. 7. WASHINGTON
  11. 8. WASHINGTON
  12. 9. AMBURGO
  13. 10. WASHINGTON
  14. 11. WASHINGTON
  15. 12. WASHINGTON
  16. 13. SILVERTON, COLORADO
  17. 14. BERLINO
  18. 15. BASILEA, SVIZZERA
  19. 16. WASHINGTON
  20. 17. AMBURGO
  21. 18. BERLINO
  22. 19. WASHINGTON
  23. 20. WASHINGTON
  24. 21. WASHINGTON
  25. 22. GRANTCHESTER, INGHILTERRA
  26. 23. CAMBRIDGE, INGHILTERRA
  27. 24. MILTON KEYNES, INGHILTERRA
  28. 25. BRISTOL, INGHILTERRA
  29. 26. WASHINGTON
  30. 27. WASHINGTON
  31. 28. FORT MEADE, MARYLAND
  32. 29. BATH, INGHILTERRA
  33. 30. WASHINGTON
  34. 31. WASHINGTON
  35. 32. WASHINGTON
  36. 33. WASHINGTON
  37. 34. WASHINGTON
  38. 35. SAINT-BRIEUC, FRANCIA
  39. 36. WASHINGTON
  40. 37. WASHINGTON
  41. 38. BASILEA, SVIZZERA
  42. 39. WASHINGTON
  43. 40 . WASHINGTON
  44. 41. WASHINGTON
  45. RINGRAZIAMENTI
  46. Copyright