Se quel bastardo del mio vicino di camera consuma di nuovo tutta l’acqua calda, giuro che lo soffoco nel sonno.
Rimango ad ascoltare finché non sento più il rumore della doccia poi, sbuffando, raccolgo in giro per la stanza quello che mi serve per lavarmi.
Non attendo il mio turno a debita distanza, educatamente. Certo che no. Con aria imbronciata mi piazzo fuori dalla porta del bagno da cui sta filtrando il vapore.
E aspetto.
Aspetto ancora.
La porta si spalanca ed ecco che, fra volute di nebbia torrida, appare la sagoma di un corpo maschile perfetto. I capelli scuri sono sciolti e bagnati e gli incorniciano il viso, spettinati in modo casuale, facendolo apparire sexy, anche se probabilmente, prima di aprire la porta, se li è scrollati come fanno i cani. Naturalmente non indossa altro che un asciugamano.
Uccidetemi. Subito.
Sbircio oltre la soglia, ormai con i nervi a fior di pelle, e gli blocco il passaggio. «Una doccia da trenta minuti, Levi? Che cavolo!»
Stira le labbra in un sorriso. «Ero molto sporco.»
Sì, come no.
«Giuro su Dio che se mi tocca fare un’altra doccia gelata...»
«Non nominare il nome di Dio invano, Pix.» Avvicina così tanto la faccia alla mia che il vapore sulla sua pelle mi inumidisce il naso e le guance. «Non si fa.»
Da questa distanza ravvicinata riesco a vedere le minuscole pagliuzze argentate che screziano l’azzurro cielo dei suoi occhi, e mi pare quasi di sentire la barba di tre giorni che gli oscura la mascella. Non che io voglia sentirla veramente. Non esiste.
Arriccio le labbra. «Pretendo una doccia calda.»
«Allora lavati di notte.»
«Non sto scherzando, Levi.»
«Neanch’io.» Abbassa per un attimo lo sguardo sulla mia bocca – giusto una frazione di secondo – ed ecco l’elettricità: quella vibrazione nell’aria che fra noi non c’era mai stata prima.
Sbatte svelto le palpebre e fa un passo indietro. Anche il calore umido del suo corpo si dissolve ed è come se una parte di me, quella più stupida e primitiva, si mettesse a piagnucolare in segno di protesta.
«Ora, se vuoi scusarmi...» Aspetta che mi tolga da davanti. Ma io non mi muovo.
Gli punto un dito sul petto. «Sono tre giorni che non faccio la doccia...»
Mi stringe forte le braccia, mi solleva da terra e mi sposta come se fossi una piuma. Poi percorre il corridoio per i pochi passi che lo separano dalla sua stanza e scompare, senza neanche voltarsi.
Stronzo.
Imprecando sottovoce, entro decisa nel piccolo bagno e cerco di non lasciarmi inebriare dal profumo di menta che mi sale alle narici e mi avvolge la pelle. Maledetto Levi e il suo bagnoschiuma sexy.
Il mio anno da matricola è finito due settimane fa, e siccome in Arizona agli studenti non è permesso occupare le camere dei dormitori anche durante l’estate, mi sono dovuta trovare un altro posto per vivere e, di conseguenza, un lavoro. E così ho cominciato a lavorare nel piccolo albergo di mia zia Ellen, il Willow Inn, perché tra gli “extra” – se così si possono definire – ci sono vitto e alloggio gratuiti.
Ma la mia stanza gratis ha un corridoio e un bagno in comune proprio con la persona che speravo di evitare per il resto della mia vita.
Levi Andrews.
Un tuttofare ultrasexy. Quello che un tempo era il mio... non lo so più.
Ovviamente mia zia Ellen si è dimenticata di dirmi che Levi abita in albergo, e quindi il giorno del mio arrivo è stato un susseguirsi di sorprese.
Sorpresa! Anche Levi abita qui.
Sorpresa! Le vostre stanze sono vicine.
Sorpresa! Condividerai con lui un lavandino, una doccia, e una dose quotidiana di eccitazione sessuale. Ogni santo giorno.
Mia zia deve ringraziare il cielo che le voglio molto bene.
Se avessi saputo che Levi abitava e lavorava qui, non avrei mai accettato l’incarico, figuriamoci trasferirmi. Ma mia zia è un’albergatrice astuta, e a dire il vero la mia unica alternativa era molto meno appetibile. Quindi eccomi qui, a vivere e lavorare fianco a fianco con una fetta ambulante del mio passato.
Visto che io e Levi siamo gli unici due dipendenti che risiedono nella struttura, siamo anche le uniche due persone a dormire nell’ala est dell’albergo, una sistemazione ideale, se non fosse che a ognuno dei nostri epici incontri ci teniamo alla larga come se dovessimo aggirare un elefante.
Sento i ricordi risalirmi la schiena, un caldo pizzicore dietro gli occhi. Lo ricaccio subito indietro con un battito di ciglia e apro il getto della doccia, scrutando il bagno per cercare qualcosa su cui concentrarmi.
I pallini blu sulla carta da parati.
I fiori viola sul mio flacone di shampoo.
Pallini. Fiori. Shampoo.
Ora che le lacrime sono sotto controllo, allungo la mano verso la doccia e sento i muscoli rilassarsi quando l’acqua calda mi bagna le dita. Tolgo il pigiama e mi infilo speranzosa sotto il getto, che però, non appena ha iniziato ad accarezzarmi il collo, passa da caldo a gelido.
Figlio di puttana.
Mi preparo al soffocamento. Sarà una notte di tragedia, dolore, e un bel cuscino sopra il bel muso di Levi.
Ricacciando in gola un grido esasperato, chiudo la doccia e mi avvolgo semibagnata in un asciugamano. Non esiste che io faccia un’altra doccia gelata. Vorrà dire che oggi non sarò pulita. Afferro alla svelta le mie cose e spalanco la porta proprio nel momento in cui Levi si affaccia sul corridoio.
Al posto dell’asciugamano indossa un paio di jeans larghi e lunghi, ma di maglietta non se ne parla, quindi mi tocca vedergli i pettorali ben tirati mentre si appoggia allo stipite della porta.
Mi guarda con una smorfia. «Già fatto?»
Gli mostro il dito medio ed entro nella mia stanza, sbattendomi la porta alle spalle come una bambina offesa.
Mi vesto con le prime cose che trovo, lego i capelli alla meglio in una coda di cavallo e mi infilo le scarpe da tennis sporche di vernice, per poi guardarmi allo specchio. Bleah!
Strattono il collo a V della maglietta per venti secondi buoni, poi rinuncio e opto per un girocollo. Molto meglio.
Il cellulare sul comò emette un paio di trilli e, nell’allungarmi per prenderlo, faccio cadere un barattolo con dentro dei pennelli. I pennelli rotolano sul comò e poi sul pavimento, dove vanno a fare compagnia a mucchi di vestiti smessi e moduli di ammissione stropicciati. Prendo il telefono, guardo l’SMS che è arrivato e faccio una smorfia.
Mi manchi.
È un messaggio di Matt.
Anche tu gli rispondo. Mi manca davvero. Più o meno.
Chiamami. Ci sono novità.
Faccio per chiamare Matt, ma mi blocco quando sento i passi di Levi sul corridoio, diretti di nuovo in bagno. Lo sento armeggiare con la presa elettrica e poi arriva il suono del rasoio. Appoggio il cellulare sul comò e il mio viso si illumina di un sorriso perverso.
Levi dovrebbe conoscermi ormai. Dovrebbe sapere come sono fatta.
Passo in rassegna la stanza e attacco la spina di ogni apparecchio elettrico di cui dispongo, poi aspetto che sia arrivato più o meno a metà rasatura. E allora accendo tutto quanto contemporaneamente. Salta la corrente all’istante, e il ronzio del suo rasoio si spegne.
«Al diavolo, Pixie!»
Ah, il dolce suono della stizza maschile.
Con uno sguardo innocente stampato in faccia, apro la porta e sbircio verso il bagno. Levi ha un’aria ridicola mentre mi guarda dalla soglia, in jeans e senza maglietta, e con la faccia rasata per metà.
Serra la mascella. «Fai sul serio?»
Fingo uno sguardo compassionevole. «Dovresti caricare la batteria del rasoio, ogni tanto.» Esco dalla stanza e percorro il corridoio canticchiando: «Divertiti con la tua mezza barba!».
Mentre scendo le scale, il lato umido della mia coda di cavallo mi schiaffeggia il collo a ogni passo. Sorrido di nuovo.
Se Levi ha voglia di giocare, ci sto.