Il Prefetto di ferro
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Il Prefetto di ferro

L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Prefetto di ferro

L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia

Informazioni su questo libro

Arrigo Petacco racconta la verità sulle gesta quasi leggendarie del prefetto Cesare Mori, incorruttibile funzionario "piemontese" inviato dal governo fascista in Sicilia per debellare la mafia. Compito che svolse fin da subito con grande efficacia, anche grazie a metodi non sempre ortodossi e alle ingenti forze di cui era stato dotato: un vero piccolo esercito, l'intera Procura di Palermo a sua disposizione, poteri straordinari che utilizzò oltre i limiti della legge.
La sua azione energica permise di distruggere quasi interamente la struttura di base della malavita organizzata siciliana e offrì a Mussolini un argomento per la sua propaganda. Ma quando Mori iniziò a diventare troppo famoso e a indagare troppo in altro venne messo da parte, e le tracce del suo lavoro accuratamente eliminate.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804532750
eBook ISBN
9788852075353
Argomento
History
Categoria
World History
I

MORI, MORI, TU DEVI MORIRE…

«Ora stanno orinando, eccellenza… Si sono schierati qui davanti e… pisciano.»
Il tono del capo di gabinetto è scandalizzato e sbigottito. Cesare Mori, prefetto di Bologna, alza la testa dalle carte che sta esaminando. È sorpreso anche lui, ma cerca di non mostrarlo. Con calma voluta, si toglie il pince-nez da presbite e lo posa sul tavolo, poi si alza lentamente e va a occhieggiare attraverso le tende della grande finestra del suo studio.
Giù nella piazza Vittorio Emanuele, inondata dal tiepido sole di quella tarda primavera del 1922, i fascisti che l’affollano si stanno alternando, a gruppi schiamazzanti, davanti al palazzo della prefettura per orinare quasi sui piedi delle immobili e intimorite guardie regie che ne difendono l’ingresso.
Da tre giorni, ossia dal 28 maggio, i fascisti controllano la città. Alle squadre locali di Oviglio e di Arpinati si sono aggiunte quelle modenesi di Dino Grandi e quelle ferraresi di Italo Balbo. E di quest’ultimo è stata l’idea di mandare gli squadristi «a pisciare in faccia al Prefettissimo».
Mori, uomo di grinta, con alle spalle una carriera in polizia costellata di promozioni per meriti speciali, non ha l’abitudine di cedere alla piazza. Fin dall’inizio dei disordini ha fatto tutto il possibile per resistere e ha ordinato alla guardia regia, ai carabinieri e alla cavalleria di caricare i dimostranti a muso duro. Ma dopo ogni carica, i fascisti sono tornati all’attacco sempre più numerosi, mentre la reazione della forza pubblica si è progressivamente infiacchita.
Ai ripetuti incitamenti del prefetto, i comandanti dei reparti hanno risposto accampando scuse per giustificare la loro remissività. È chiaro che comandanti e subalterni hanno poca voglia di adottare contro i neri quei sistemi che usano volentieri contro i rossi.
Mori questo lo sa. Sa anche di essere pressoché impotente di fronte alle palesi manifestazioni di indisciplina dei propri subordinati. Quella stessa mattina, a un ufficialetto di cavalleria che gli ha dichiarato con franchezza di simpatizzare per la «gioventù nazionale» (così amano definirsi i fascisti), Mori ha ribattuto seccamente: «Gioventù nazionale un corno! Quelli sono dei sovversivi come gli altri».
Ma tutto è finito lì. Non gli ha neppure fatto rapporto, ben sapendo che, di questi tempi, un qualsiasi tenentino esaltato può disobbedire agli ordini senza correre rischi. Anzi, rischia semmai di diventare un eroe, un simbolo di patriottismo, com’è capitato a Oggioni, o a Cavedoni, a causa dei quali è scoppiato il pandemonio in tutta l’Emilia.
Guido Oggioni, ex legionario fiumano e vicecomandante della «Sempre Pronti», è rimasto ferito da pistolettate la sera del 25 maggio mentre rientrava nella sua villa, reduce da una spedizione punitiva nel quartiere rosso della Bolognina. Ma chi gli ha sparato nessuno lo sa, e l’episodio presenta molti lati oscuri. I fascisti tuttavia hanno abilmente strumentalizzato il ferimento e i giornali, da parte loro, hanno dato pieno credito alla versione dell’«imboscata bolscevica», dedicando poche righe alla dichiarazione del prefetto secondo la quale «i veri colpevoli dovrebbero essere ricercati nell’ambiente fascista dilaniato da faide e lotte di potere».
Poi, per «vendicare» il camerata Oggioni, gli squadristi bolognesi hanno organizzato decine di spedizioni, cosiddette punitive, contro sedi di partiti, organizzazioni democratiche e contro le abitazioni stesse di esponenti socialisti, repubblicani e popolari. Un giovane socialista di Ponte Rosso, Emilio Forlani, di 25 anni, è stato ucciso e la sua casa bruciata. Bruciate o devastate sono state pure le sedi dell’Ente autonomo comuni democratici, dei Coltivatori, dei «Buoni Amici», dei ferrovieri socialisti, di diverse cooperative nonché lo studio del famoso penalista Genunzio Bentini.
È stato appunto al ritorno da queste spedizioni vandaliche che i fascisti hanno lamentato la seconda vittima: Celestino Cavedoni, segretario del Fascio di Santa Viola, dilaniato da una bomba. Attorno al cadavere ancora sanguinante è stata organizzata una seconda dimostrazione, ossia altri incendi, altre bastonature.
Ma anche in questa occasione, il prefetto Mori non ha esitato a gettare acqua sul fuoco della commozione. «Si hanno buone ragioni», ha dichiarato alla stampa, «per ritenere che il Cavedoni sia rimasto vittima di una bomba che egli stesso si accingeva a lanciare contro la cooperativa del Malcantone.» Il Cavedoni, ha aggiunto, era ricercato dalla polizia perché responsabile di gravi atti di violenza.
Ma i fascisti hanno continuato a picchiare e a bruciare e Mori, per fermarli, gli ha mandato contro poliziotti e cavalleggeri, con il risultato che sappiamo. Ora il prefetto è prigioniero nel suo studio, le forze dell’ordine non si muovono e i fascisti sono padroni della città di Bologna.
Non è la prima volta che Cesare Mori applica contro fascisti e nazionalisti le stesse rigide misure che adotta nei confronti dei socialisti. Ma in questo momento, quando ormai tutte le autorità dello Stato paiono rassegnate a subire le violenze squadristiche, il comportamento di quest’uomo che si ostina ad applicare la legge con inflessibile rigore qualunque sia la parte in causa, viene giudicato assurdo e addirittura provocatorio. I suoi colleghi, prefetti e questori, che già lo osteggiano da tempo con la rancorosità che gli inetti nutrono per i forti, ora lo giudicano con commiserazione un maniaco autolesionista.
I fascisti, da parte loro, lo odiano di un odio quasi freudiano. Perché Mori, quest’uomo tutto d’un pezzo, coraggioso, sempre pronto all’azione, possiede, in fondo, tutte le caratteristiche di cui dovrebbe essere dotato, secondo l’oleografia ufficiale, il perfetto fascista. Ma lui, fascista non è. È invece il nemico più insidioso: l’ultimo valido ostacolo che ancora si oppone al fascismo per la conquista dell’Emilia e, forse, del paese. Una mezza dozzina di uomini come lui potrebbero, infatti, ripristinare senza grandi sforzi la legalità in Italia.
Questo, i fascisti, lo sanno. Ed è per questo motivo che, approfittando della provvidenziale morte del Cavedoni, hanno sferrato l’attacco decisivo.
La guerra contro il prefetto di Bologna è diventata una battaglia politica di importanza nazionale. Tutti i grossi calibri del fascismo si sono mossi: Michele Bianchi, segretario del partito, dopo avere ordinato la mobilitazione di tutte le squadre emiliane, si è trasferito personalmente a Bologna per dirigere l’azione. Da Milano, Benito Mussolini ha telegrafato il suo plauso ai «camerati impegnati nello scontro contro il prefetto socialista». Arpinati, Oviglio, Grandi e Balbo pensano al resto.
Proprio in quei giorni, per l’esattezza il 29 maggio, un comitato cittadino, espressione della «maggioranza silenziosa» bolognese, ha inviato al ministero dell’Interno un telegramma per chiedere la destituzione del prefetto:
Imponente adunata cittadinanza bolognese escluso massa fascista impegnata funerali proprio camerata Cavedoni per acclamazione in pubblica piazza votò oggi seguente ordine del giorno:
«Il popolo di Bologna di tutte le classi e di tutte le professioni, riunito in solenne comizio nell’ora tragica e angosciosa che prelude all’inizio di un’ampia tragedia; dimentico di ogni idea ed interesse di parte e solo preoccupato della salvezza della nostra Provincia che fu la prima nel colpevole assenteismo del Governo a dare il segnale della riscossa contro la imminente sicura rivoluzione bolscevica e che dopo lunga lotta va ora tutta stringendosi per sola virtù del suo popolo generoso attorno alle bandiere della Patria; riconosce come unico responsabile dell’attuale angosciosa situazione il Prefetto Mori, l’amnistiato ex Questore dei Dalmati che seguendo il consiglio degli spodestati rossi padroni della Provincia volle instaurare a Bologna sistemi medioevali di feroce repressione creando il disordine per ristabilire l’ordine, provocando anziché la pace la più feroce lotta civile ed allontanando da sé le simpatie di tutta la cittadinanza; ne invoca l’immediato allontanamento.»
PER COMITATO CITTADINO
Angelo Maranesi
Anche i grandi quotidiani d’informazione, sia pure con sottile ipocrisia, appoggiano l’attacco fascista contro Mori. È significativo, per esempio, quanto scrive «Il Messaggero» di Roma:
Alto, diritto, dai tratti del volto energici e dall’occhio sereno che nei brevi scatti d’una discussione ha riflessi d’acciaio, il commendator Mori appare più un uomo di polizia che un prefetto. Oggi che la città e la provincia di Bologna è tutta in subbuglio, egli è veramente al suo posto. Egli fa energicamente e rudemente rispettare la legge. Se fosse stato a Bologna nel 1919 e 1920 i comunisti non avrebbero avuto né tempo né modo di ridurre il bolognese, l’Emilia tutta, in un campo sperimentale per la coltivazione del bolscevismo e non si sarebbero dovuti deplorare certi eccidi… Questo va detto per quelli che lamentano la sua rigidità. Infatti, finché Mori fu a Torino non si ebbero le occupazioni delle fabbriche; allorché ad Ancona esplose la rivolta nella caserma di Villa Rey, fu lui che in ventiquattr’ore riportò la calma nella città… Ma i fascisti questo non intendono: non possono darsi ragione dell’azione e della politica addirittura negativa attuata di fronte alla violenza comunista, in confronto alla più energica politica attuata oggi contro di essi…
Ma, detto questo, bisogna aggiungere che un uomo della tempra di Mori, data la tensione degli animi, non può più governare il bolognese… qui occorre un’ampia visione e conoscenza di uomini e avvenimenti per distruggere le cause di questo marasma che minaccia di mortificare il sentimento nazionale… e di far insorgere contro lo Stato proprio quegli elementi che per restaurarne l’autorità insorsero contro il comunismo…
Praticamente assediato da tre giorni nel suo studio di palazzo d’Accursio, Mori sa dunque di essere solo e di rappresentare un problema anche per il governo. Tuttavia, dando prova, come sempre, di una forza d’animo paragonabile soltanto alla sua totale miopia politica (o più esattamente: alla sua sprezzante repulsione per gli accomodamenti), è deciso a tenere duro.
Intanto, i fascisti che bivaccano nella piazza e sotto i portici dell’Archiginnasio sembrano per il momento avere dimenticato i rossi. Per loro, o meglio, per i loro capi, il nemico da battere è Mori, il Prefettissimo, il provocatore, l’antipatriottico prefetto di Bologna che, a differenza dei suoi più patriottici colleghi, si permette di trattare gli eroici esponenti della «gioventù nazionale» alla stessa stregua dei sovversivi.
Per ingannare la noia del lungo assedio della Prefettura, un anonimo paroliere fascista ha anche composto una canzone sul motivo di Me lo dai quel fazzolettino:
Mori, Mori
tu devi morire
con quel pugnale che abbiamo affilato
Mori ammazzato tu devi morir…
Mori, chiuso nel suo studio, ascolta in silenzio. Si è anche stancato di telegrafare a Roma, al ministero dell’Interno, per chiedere aiuti o disposizioni. I suoi telegrammi ottengono risposte vaghe e indecifrabili.
È un momento brutto per lui. Ma, di momenti brutti, Mori ne ha passati molti nella sua carriera. All’inizio del secolo, semplice delegato di pubblica sicurezza a Ravenna, è stato al centro dei clamorosi scontri fra repubblicani e socialisti, attaccando, o difendendo, ora gli uni, ora gli altri, ma restando sempre da una parte sola: quella della legge; col risultato che gli uni e gli altri, finalmente uniti da un comune obiettivo, hanno ottenuto il suo allontanamento.
Più tardi, in Sicilia, dove è andato ufficialmente per «benmeritare», ma in effetti per placare la sinistra ravennate, non ha cambiato i suoi metodi. Deciso, coraggioso, incorruttibile, ha dato gomitate a dritta e a manca, lottando contemporaneamente contro la mafia e contro deputati e prefetti amici della mafia. Sul suo capo sono così piovuti attentati, manifestazioni, petizioni, interrogazioni parlamentari, denunce per abuso di potere; ma anche promozioni, onorificenze ed elogi da chi gli sta alle spalle: in particolare da Giolitti che lo apprezza.
Poi a Torino, sostituto del questore Bonelli nel tragico ’17 quando la rotta di Caporetto, gli scioperi, le diserzioni, il disfattismo di socialisti e anarchici sono i problemi del giorno. Torino, in quel momento, è la città più calda d’Italia. Un prefetto, il Verdinois, impazzito di paura e convinto che la rivoluzione bolscevica sia alle porte, ha dichiarato la città zona di guerra. Mori non perde la testa. Con pugno di ferro blocca i disordini, raffredda le teste più calde della sinistra, ma smaschera, e deride, chi ha denunciato presunti complotti insurrezionali «facenti capo al neutralista Giolitti e a Frassati, Grosso Campagna etc.». Poi, coraggiosamente, indica quali responsabili o mestatori nel torbido gli esponenti del Fascio Parlamentare nazionalista e, in particolare, l’on. Centurione «il quale – scrive Mori nel suo rapporto al governo – si sa sospettato di non aver fatto buon uso del denaro affidatogli e cerca pretesti per far rumore…» col risultato che i «rivoluzionari» arrestati saranno assolti e di insurrezione non si parlerà più.
Ma ora tutto è cambiato. Ora, denunciare, smascherare, applicare semplicemente la legge, è sempre più pericoloso. Con questi governi che cadono a ogni volgere di stagione un funzionario statale si trova sempre con le spalle scoperte. Quei ministri evanescenti che si alternano al Viminale paiono preoccupati soltanto di non assumersi responsabilità. Le loro disposizioni risultano ermetiche. E quando un loro ordine, puntualmente eseguito da un obbediente subalterno, provoca reazioni inattese, essi riescono sempre a dimostrare che la colpa è del subalterno che l’ha male interpretato.
Mori ha già fatto una brutta esperienza di questo nuovo andazzo quando nell’aprile del 1920 il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, Francesco Saverio Nitti, lo ha chiamato a dirigere la questura della capitale. Dopo che la conferenza internazionale di Sanremo ha deciso la costituzione dello stato autonomo di Fiume e la rinuncia dell’Italia a ogni pretesa sulla Dalmazia, Nitti, che prevede disordini da parte dei nazionalisti, ordina a Mori di agire con vigore. Mori esegue puntualmente, ma la situazione si aggrava. Il 24 maggio, con il pretesto di celebrare la ricorrenza dell’entrata in guerra dell’Italia, dalmati, fiumani, nazionalisti e studenti si riuniscono nel cortile della Sapienza. Oratori ufficiali della cerimonia sono l’avvocato Caprino, Enrico Corradini, Paolo Orano e lo studente Bottai. Quando giunge la notizia che anche i socialisti si sono riuniti in piazza Navona per una contromanifestazione, un gruppo di circa mille persone si muove in corteo. Per evitare lo scontro, Mori mobi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL PREFETTO DI FERRO
  4. Prefazione
  5. I. Mori, Mori, tu devi morire…
  6. II. Qui ci vuole un uomo…
  7. III. Il figlio di nessuno
  8. IV. Il Far West delle Madonie
  9. V. La mafia è una vecchia puttana…
  10. VI. L’assedio di Gangi
  11. VII. Un prefetto d’assalto
  12. VIII. Fatti la fama e curcati…
  13. IX. Un killer da Chicago
  14. X. Il nemico esce dall’ombra
  15. XI. L’eroe del tracoma
  16. XII. Signori, è tempo ormai ch’io vi riveli la mafia…
  17. XIII. Qui riposa in pace…
  18. XIV. Ma la mafia non è morta
  19. Appendice
  20. Ringraziamento
  21. Copyright