Gentile signora,
le sembrerà strano ricevere da Venezia una richiesta di corrispondenza da una signora russa che vive a Pietroburgo e parla francese dalla nascita. È già da un mese che sono in viaggio e sono appena giunta in Italia dove il francese – almeno così mi è stato detto – è poco conosciuto, se non addirittura osteggiato, come le altre lingue straniere. A volte – non credete anche voi? – non mettiamo in conto quanto ci si senta spersi lontano dal proprio Paese, dove si usa un’altra lingua e le parole ci dividono dagli altri. E io, anche se sono in un momento felice, anzi felicissimo della mia vita, ho nostalgia della mia lingua materna, la lingua della mia infanzia.
Me ne sono accorta tutto a un tratto, quando una sera un medico francese che risiedeva nel nostro stesso albergo è accorso d’urgenza al capezzale della nostra bambina malata. Quando gli ho chiesto di dov’era, mi ha risposto, parlando con quella inflessione che ben conosco, di essere di Rouen. E ciò mi ha riportato indietro nel tempo, al ricordo della mia infanzia, alla cara Mademoiselle Charlotte, la mia prima istitutrice ormai morta, che era originaria di quelle parti e che con me è stata affettuosa come una madre. Così, d’istinto, gli ho consegnato questa lettera, ora nelle vostre mani, incaricandolo di trovarmi una gentile signora del luogo desiderosa di corrispondere con una sconosciuta di nome Anna Karénina.
Gentile signora Karénina,
mi dovete perdonare se ho fatto trascorrere tanto tempo prima di rispondere alla vostra lettera, ma quando me l’hanno consegnata, la scorsa estate, ero in condizioni davvero pietose. Non so dirvi di preciso di cosa abbia sofferto, ma un malessere diffuso e, a dire dei più, inspiegabile, mi aveva fatto perdere interesse alla vita. La mia malattia era come una specie di nebbia che mi offuscava la mente. Una paura indefinibile mi attanagliava la gola e un senso di gelo mi penetrava nelle ossa come se fosse inverno.
Mio marito, che è medico, non riusciva a trovare una causa precisa a questo mio disturbo, e quando si vide consegnare da un suo collega la vostra lettera pensò che magari una corrispondenza con una persona al di fuori del mio piccolo mondo avrebbe potuto essermi di giovamento.
E fu così che mi portò la vostra lettera. Io la lessi ma, confusa com’ero in quel momento, la riposi in un cassetto.
Cara Anna, se posso permettermi di chiamarvi per nome, a quei tempi avevo perso interesse per tutto: non mi curavo più della casa, non suonavo più il piano, non disegnavo, non ricamavo più e soprattutto non leggevo più nulla. Quei libri che per me sono sempre stati fonte di gioia avevano smesso di parlarmi: spesso erano solo aperti e più spesso lasciati ricadere sulle mie ginocchia.
Ma basta, non voglio parlare oltre di queste mie penose vicende, appartengono al passato. Ho ricominciato a leggere e sono contenta di iniziare questa corrispondenza anche perché, non ridete, finalmente potrò utilizzare la carta da lettere, il portapenne e le buste che comprai tempo fa e che non ho mai usato perché non avevo nessuno a cui scrivere.
È stata una coincidenza davvero fortunata quella che vi ha portato sulle mie tracce.
Come voi, anch’io sto studiando una lingua straniera, l’inglese. Ma sono solo agli inizi, poi si vedrà.
Sapete, in questo momento sono tutta presa dalla lettura di un libro che mi appassiona molto. Parla della triste vicenda di due amanti vissuti a Parigi nel Medioevo, Abelardo ed Eloisa: lui, il più grande filosofo dell’epoca, lei, la sua giovanissima allieva, molto bella e molto colta per quei tempi.
Non so se lo conoscete, se lo avete mai letto, è un epistolario. È stato scritto in latino, ma io sto leggendo la traduzione in francese. Sarebbe bello discorrerne insieme; anche perché io, povera donna di provincia, non immagino nemmeno su cosa potrei intrattenervi. In questo piccolo borgo la vita è così noiosa, non succede mai niente.
Voi, invece, ne sono sicura, avete tante cose da raccontare: la vostra vita a Pietroburgo, i vostri viaggi, Venezia... Oh, Anna! Scusate la mia impertinenza, ma sarei così felice se mi raccontaste tutte queste cose! Come ho potuto essere così stupida da non rispondervi subito? Magari avete trovato già un’altra persona con cui corrispondere, una signora di città, più vicina al vostro ambiente. Spero di no, spero di essere ancora in tempo per diventare la vostra “amica di penna”.
Emma Bovary
P.S. Mi dovete scusare, ho dimenticato di scrivervi l’indirizzo al quale inviare le vostre lettere. Non vi ho detto che abito in un borgo distante da Rouen otto leghe che si chiama Yonville-l’Abbaye, nel dipartimento di Neufchâtel. È sufficiente che sulla busta indichiate il mio nome e cognome. La nostra casa è a soli cinquanta passi dall’unico albergo di Yonville, il Léon d’oro.
Tutti sanno, naturalmente, dove abita il medico del paese e tanto più chi recapita la posta. Mi vergogno quasi a dirlo, ma c’è un’unica strada. Non ci si può dunque sbagliare.
Cara Emma,
vi ringrazio per aver risposto alla mia richiesta di corrispondenza. Certo che voglio essere la vostra amica di penna e mi auguro di ritrovare nelle vostre parole quelle espressioni così particolari che usava la mia istitutrice e che mi sono restate nel cuore. Devo dire che dopo tutto questo tempo non speravo più che la mia lettera fosse stata recapitata, giacché il medico a cui l’avevo affidata mi è apparso un tipo distratto, come sono spesso i dottori, alle prese con problemi più gravi. Ma questo di sicuro voi lo sapete, avendone sposato uno.
Cara Emma, sì, sono davvero contenta se ci rivolgiamo l’una all’altra solo per nome. Vorrei che tra noi non ci fossero inutili formalità e alcun obbligo di convenzione.
Appena ricevuta la vostra lettera stamani, sono corsa in giardino nel mio angolo preferito, perché molto appartato, e ho strappato la busta con la stessa smania di quando scarto un regalo.
Voi mi chiedete di quando vivevo a Pietroburgo; vi potrei raccontare dei balli, della vita di società, della mia famiglia. Senz’altro lo farò, ma sappiate subito che allora non ero felice. Vedete, si dice che le famiglie felici lo siano tutte allo stesso modo, mentre quelle infelici ciascuna a modo suo. Io appartengo a una di queste, e dell’infelicità della mia famiglia sono io la colpevole. Ma non abbiatevene a male se non mi sento di parlare di ciò. Forse più in là, quando saremo più intime. Del resto in questo momento non voglio contaminare la mia felicità rievocando momenti tristi. So cosa significa stare male, ve lo assicuro, e mi dispiace che voi abbiate avuto problemi di salute dai quali mi auguro vi siate completamente ristabilita.
La vostra lettera l’ho trovata al mio ritorno a Venezia, dove insieme al conte Vrónskij e alla nostra bambina Annie – a proposito, anche voi avete figli? – ho trascorso quasi tutta l’estate. Da poco, infatti, sono rientrata da un viaggio, prima a Roma, dove purtroppo, viaggiando in compagnia di un uomo che non è mio marito, non potevo sperare di essere ricevuta dal papa, e poi a Napoli, dove ho vissuto una splendida esperienza: Vrónskij mi ha portato al teatro San Carlo. Davano la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti.
Dicono che sia il più bel teatro del mondo ed è vero: quando sono entrata nel palco e mi sono affacciata, i miei occhi sono stati abbagliati dallo splendore degli stucchi dorati, dai candelabri scintillanti e dai velluti rossi. Ma vi devo confessare che, nonostante le sue bellezze naturali e artistiche, Napoli non è una città che fa per me, forse perché mi ha stordito per il chiasso e il gran caldo. Ho trascorso quasi tutto il tempo sul terrazzo dell’albergo a farmi aria col ventaglio e a bere limonate col ghiaccio, e alla fine abbiamo preferito abbreviare i tempi della visita.
Venezia invece, così bella e struggente, mi è sembrata malinconica. Come tutto ciò che è troppo bello, ti lascia senza respiro e ti fa paura; temi che da un momento all’altro possa svanire.
Abbiamo trascorso dei giorni meravigliosi all’hotel Danieli; ma purtroppo, proprio ora che comincia la Stagione e avrei preso volentieri un palco alla Fenice per assistere alla Traviata, quell’opera di Verdi tanto chiacchierata, partiamo.
Non fa niente, sono così felice che posso fare a meno anche dell’opera.
Vrónskij ha deciso di partire perché è pronto il palazzo che è riuscito a trovare per noi. Il conte, facendomi una sorpresa, mi ha portato ieri mattina a vedere la nostra nuova residenza. Mi è sembrata bella, un po’ forse perché la vedo con i suoi occhi e so che lui ne è entusiasta.
Si trova a Mantova, una città con un grande passato come quasi tutte le città italiane. Non so se siete mai stata in Italia, ma qui ci sono ovunque palazzi ricchi di opere d’arte. Pensate, mia cara, che nella nostra casa, un edificio un po’ decaduto ma che Vrónskij trova incantevole perché gli sembra di vivere nel Rinascimento, una parete del salone è stata affrescata dal Tintoretto. Per il resto è una dimora abbastanza spoglia, con pochi mobili d’epoca. Credo che la lasceremo così, perché a lui piace così. Ci tengo solo a far montare sul baldacchino del nostro letto le tende di merletto bianco e quelle di broccato azzurro che abbiamo acquistato a Palazzo Pitti, quando siamo stati a Firenze.
Ma parliamo un po’ di noi. Mi fa piacere sapere che anche voi, come me, amiate la lettura; io in genere ho sempre un libro fra le mani, ma vi confesso che in questo momento sono troppo intenta a vivere, per cui non riesco a concentrarmi sulle storie che leggo e spesso mi ritrovo ad alzare lo sguardo dalle pagine per seguire il filo così piacevole del mio presente.
Quanto alle notizie che mi chiedete su quell’epistolario che avete da poco letto, mi rincresce non sapervi dire niente, perché non lo conosco, ma ho già chiesto a Vrónskij di procurarmi una copia del libro così ne potremo discutere. In Italia tutto è più semplice che da noi, e tra l’altro Vrónskij, da quando è qui, ha sviluppato una passione tale per il Medioevo che con gioia si metterà alla ricerca del testo di cui mi parlate. Qui sembra che tutti si interessino solo di arte e letteratura; le nostre nuove conoscenze, infatti, sono di ambiente artistico e Vrónskij stesso ha ripreso a dipingere.
Vi prego di scusare il mio francese se vi appare un po’ troppo letterario e antiquato. Non so se alcune espressioni sono superate.
Vi saluto aspettando vostre notizie e vi abbraccio.
Anna
P.S. Cara amica, non indirizzate più le vostre missive ad Anna Karénina, non che mi importi, ma qui mi conoscono come Anna Arkàd’evna. Vi scrivo sulla busta l’indirizzo al quale inviare le prossime lettere.
Cara Anna,
il vostro francese è perfetto. Sì, è vero, qualche termine, per lo meno dove vivo io, non è più tanto usato, ma il vostro linguaggio mi piace molto, assomiglia a quello dei romanzi. Non so, cara amica, se dipende dalle parole che scegliete o dalle cose che raccontate. Voi dovete essere una donna proprio affascinante. Come vorrei somigliarvi!
Anch’io, come voi, sono madre di una femminuccia. La bambina però non vive qui da noi, è ancora a balia, in campagna.
Quanto alla vostra riluttanza a parlare delle tristi vicende che vi hanno afflitto, vi comprendo bene, ma mi dite che ora siete felice con il vostro... amante, se mi permettete di chiamarlo così. Quindi voi, mi par di capire, avete avuto la forza di abbandonare gli agi e le sicurezze della vostra vita di moglie e madre rispettata da tutti, per affrontare i rischi di una passione che, come vedo, vi riempie l’esistenza.
Scusatemi, non era mia intenzione riportarvi con la mente a momenti che vi hanno fatto soffrire e che forse preferite dimenticare, ma non posso non confessarvi tutta la mia ammirazione per esservi saputa ribellare a quelle regole fisse e immutabili che costringono noi donne all’obbedienza assoluta. Apprezzo il vostro coraggio. Io non lo posseggo e quindi non mi rimane che rifugiarmi nei libri e nelle grandi storie d’amore solo lette e mai vissute.
Certo la vostra vita adesso deve essere meravigliosa, voi e il vostro conte in giro per l’Italia a visitare quei luoghi bellissimi, e poi i teatri! Come mi piacerebbe vederne qualcuno e magari assistere anche alla rappresentazione di un’opera! È un privilegio che a me non è ancora mai toccato.
A Rouen, la città più vicina al nostro paese, c’è un teatro, ma mio marito, indaffarato com’è, non mi ci ha mai portato. In verità sono quasi sicura che sia una scusa...