Berlin - 3. La battaglia di Gropius
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Berlin - 3. La battaglia di Gropius

  1. 228 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Berlin - 3. La battaglia di Gropius

Informazioni su questo libro

È il dicembre del 1978 quando l'inverno cala su Berlino: il manto candido della neve diventa ghiaccio sopra i relitti di scuole e case, parchi e cortili, al di qua e al di là del Muro. Da tre anni un virus incurabile ha sterminato la popolazione adulta della città, costringendo i ragazzi e i bambini sopravvissuti a crescere all'improvviso, in attesa che, alla fine dell'adolescenza, il virus porti via anche loro.

Divisi in gruppi per organizzarsi e farsi forza, tra i ragazzi si scatena una guerra spietata. Il gruppo di Tegel mette a ferro e fuoco la città sotto la guida della feroce Wolfrun che, fiera come un'amazzone, combatte in groppa a un maestoso destriero. Dalle alte torri di Gropius, Jakob e Christa la vedono arrivare insieme ai suoi. Per portare battaglia. Niente e nessuno sembra in grado di fermarla, eppure qualcuno serba ancora nel cuore una fiammella di umanità…

C'era una ragazza a cavallo, in mezzo alla tormenta. Le vedette non avevano mai visto Wolfrun, ne avevano solo sentito parlare.

Attorno c'era la sua gente, le lingue di fuoco delle torce che il vento cercava di strappare di mano, i turbini di neve.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804664888
eBook ISBN
9788852075988

DICEMBRE 1978

I GRUPPI DI BERLIN

GROPIUSSTADT
HAVEL
REICHSTAG
TEGEL

1

Prima di tutto fu il rumore dei vetri in frantumi. Poi le urla delle ragazze e le torce accese che roteavano attraverso le finestre appiccando il fuoco ovunque andassero a cadere. S’incendiarono le coperte, la tappezzeria e i vestiti ammucchiati negli angoli delle stanze. S’incendiarono i disegni attaccati con le mollette a un filo che pendeva dal soffitto e i libri illustrati che piacevano alle bambine. S’incendiarono le scale e le fiamme si arrampicarono come ragni su per i gradini.
L’incendio si propagava a una rapidità sorprendente, divorando il legno con la voracità di un drago tenuto a digiuno per secoli. E di legno – dal pavimento, alle pareti, al soffitto – interamente di legno era fatto il piccolo castello bianco sulla punta meridionale della Pfaueninsel che le ragazze dell’Havel chiamavano casa.
Successe tutto così. In un attimo. Senza preavviso.
La vigilia di Natale.
La sera del 24 dicembre 1978.
Ne fu sorpreso anche un piccolo falco che sorvolava il bosco a caccia di cibo. Fino a quel momento gli era sembrata una notte di pace a Berlino Ovest, non diversa da quelle che nel corso degli ultimi tre anni, da quando un mondo era finito e un altro era cominciato, aveva visto susseguirsi, lente e silenziose. In pochi mesi, dall’estate del 1975 alla primavera del 1976, il mondo degli adulti che gli aveva sempre fatto pensare a un gigantesco alveare era finito. Prima di allora la città non dormiva mai, con le macchine e le case tutte uguali, le musiche, le risa e le grida che animavano le piazze, con i fumi delle fabbriche e le luci dei grandi viali che salivano giorno e notte fino a lambire il cielo. Poi qualcosa era cambiato. Aveva visto lunghe code sulle strade che portavano dall’altra parte del Muro, alle stazioni e agli aeroporti. Aveva sentito le sirene urlare. Non poteva saperlo, ma la causa era un misterioso virus, di cui si ignoravano tanto l’origine quanto la cura, ma che colpiva in modo letale chiunque avesse più di diciotto anni, e a volte anche ragazzi più giovani. Erano seguiti mesi in cui le luci si erano spente una dopo l’altra, a eccezione di qualche isolato incendio; le macchine si erano fermate e i fumi avevano cessato di salire dalle fabbriche. Eppure in città c’era ancora qualcuno. Ragazzi. Ragazze. Bambini. Non potendocela fare da soli si erano uniti in gruppi, gruppi che erano diventati sempre più numerosi, tanto da dover cercare nuovi rifugi, grandi abbastanza per tutti. Per sopravvivere avevano iniziato a portare via le scorte dai supermercati, dai negozi e dalle case vuote, e quando quelle erano finite, avevano dovuto imparare a cacciare. E a difendersi. Proprio come aveva sempre fatto il piccolo falco: il nuovo ordine che aveva visto nascere era molto simile al suo.
Le ragazze stavano dormendo al piano terra, ammassate le une alle altre per tenersi al caldo. La sera avevano festeggiato, cantato, e si erano scambiate piccoli regali – soprattutto collane e braccialetti fatti di corda, plastica, metallo, pietre o goffi soprammobili di legno che ognuna di loro aveva intagliato con le proprie mani. Era questa la regola: a Natale, ai compleanni, o in qualunque altra occasione, i regali dovevano sempre essere fatti a mano. Era vietato entrare in un negozio e impadronirsi di un oggetto: quello non era considerato un regalo, entrare in un negozio era qualcosa che chiunque poteva fare in qualunque momento, mentre per costruire una collana intrecciando scampoli di stoffa, bacche e filo di canapa, ci voleva del tempo, e il tempo, in quel mondo malato in cui si erano trovate a vivere, era la cosa più preziosa.
Ecco cosa si regalavano a Natale, le ragazze dell’Havel: tempo. E gli oggetti, anche quelli meno riusciti, irradiavano il valore delle ore dedicate a costruirli. E per questo diventavano inestimabili.
Poi, quella sera avevano anche riso tanto, da farsi venire il mal di pancia. Un gruppo di bambine aveva organizzato una recita: una storia di zucchine trasformate in uccelli fatati e di principesse prigioniere dentro il tuorlo di un uovo di pavone. E vuoi per le risa, vuoi per la fatica dell’inverno, vuoi per il tepore dei secchi di brace, poco dopo lo spettacolo erano cadute in un sonno placido.
Nel mezzo della notte e nel silenzio dell’isola, reso ancora più assoluto dalla neve che nelle ultime settimane aveva coperto tutto, le pietre avevano spaccato le finestre. Fu solo per una fortunata coincidenza che nessuna delle ragazze se ne prese una in testa. Un istante dopo, attraverso i vetri in frantumi, erano arrivate le torce a striare il buio di giallo e arancione.
Si svegliarono di soprassalto per il fracasso e per il fumo; ci furono urla. Nella confusione e nello spavento generale tentarono di spegnere i focolai, di soffocare le fiamme usando coperte e vestiti, e quando le coperte e i vestiti s’incendiavano li gettavano nella neve attraverso le stesse finestre da cui le torce continuavano a entrare. Ma era impossibile.
«Usciamo!» urlò Nora stringendo Theo tra le braccia. «Fuori, fuori tutte.»
Christa s’infilò le mani tra i capelli, incapace di credere a ciò che stava avvenendo. «Ma così brucerà il castello.»
«Se non usciamo bruceremo anche noi.»
Corsero lungo il vialetto che avevano scavato nella neve. Il cielo era terso, pieno di stelle. Ruzzolarono l’una sull’altra.
Christa era già all’esterno quando si rese conto di non aver preso né il violino, né The Dark Side of the Moon, il disco dei Pink Floyd che la sua vicina di casa, Angela, le aveva regalato poco prima che il virus se la portasse via. Tornò indietro senza pensarci due volte.
«Dove vai?» gridò Britta.
«Il violino…»
«È pericoloso.»
«Ci metto un secondo.»
«Ne troveremo un altro in… Christa! Oh, accidenti…»
Christa rientrò nel castelletto.
Il fumo la faceva tossire, le bruciavano gli occhi, il calore era insopportabile. Aveva lasciato entrambi gli oggetti dentro una cassapanca, nella stanzetta rotonda al piano terra. La raggiunse sgattaiolando tra le fiamme, china e con la sciarpa schiacciata sul naso e sulla bocca. Il fuoco stava rosicchiando l’angolo della porta. L’aprì. Nella camera s’era infilato del fumo ma le fiamme non erano ancora giunte.
Christa si avventò sulla cassapanca, tolse il coperchio, avvolse il disco e la custodia del violino in una vecchia coperta e li strinse al petto. Lì vicino, appoggiato al muro, c’era uno degli archi che usavano per andare a caccia. Lo raccolse d’istinto. Da qualche parte doveva esserci anche la faretra con le frecce. Si guardò intorno. Ci fu uno scrocchio, una trave in fiamme si schiantò sul pavimento fuori dalla porta. Christa andò alla finestra, la spalancò, si issò sul davanzale e si lasciò cadere nella notte e nella neve; e nella neve si rotolò furibonda per spegnere il calore accumulato dal corpo. Era nera di fumo, e i capelli e i guanti erano bruciacchiati.
Chi? pensò. Chi è stato?
Rispetto alle altre, si trovava dalla parte opposta del castello. Fece il giro delle mura, inciampando e tenendosi a distanza dalle finestre da cui continuavano ad arrivare rumori di cedimenti, tonfi, vampate.
Appena girato attorno alla seconda torre, la vide.
«Ho sempre pensato che incendiarvi il castello sarebbe stato divertente…»
Le ragazze dell’Havel formavano un gruppo compatto lungo il sentiero che conduceva al vecchio pontile. A una decina di metri da loro c’era Wolfrun, a cavallo. Le lingue di fuoco si riflettevano sulla sua faccia e sul manto dell’animale. Dietro di lei, un centinaio di ragazzi di Tegel: i vestiti neri, gli occhi eccitati. Qualche torcia ancora accesa. Non era l’unica a cavallo, Wolfrun. Una dozzina dei loro montava animali irrequieti che sbuffavano vapore dal naso e scalciavano spaventati dalle fiamme. Nei mesi passati da quando Wolfrun aveva trovato il primo cavallo, erano riusciti a catturarne altri, e a domarli a poco a poco. Il suo era un trakehner marrone con una macchia bianca sul dorso. Lo aveva chiamato Ziggy in onore di Ziggy Stardust, perché David Bowie era il cantante preferito di sua sorella Dorothea.
«Ma questo, be’, questo non è solo divertimento…» continuò Wolfrun. «Guardate.» Distese un braccio a indicare l’Havel: sul fiume ghiacciato s’allungava una macchia di luce giallastra che contrastava con il blu e con l’argento dei cristalli di neve. «Questo è splendore» disse.
«Io ti uccido!» le urlò Christa, gli occhi affilati dalla rabbia che bruciavano sul viso nero di fuliggine. Attorno le sue compagne tremavano di paura e freddo e la pelle d’oca mordeva gambe e braccia: avevano fatto appena in tempo a buttarsi addosso chi una giacca, chi un paio di maglioni, le più veloci al massimo una sciarpa, dei guanti o un cappello. Anche Christa aveva la pelle d’oca sì, ma non per il freddo, quello non lo sentiva, il suo era odio, puro odio. E nonostante con una mano stringesse ancora, contro il petto, il fagotto con le uniche cose che le erano care, si lanciò contro Wolfrun brandendo con l’altra l’arco come un bastone. Ziggy s’imbizzarrì. Le mani di Nora e di alcune ragazze uscirono dal nulla per fermarla. «Lasciatemi» gridò Christa. «Le voglio strappare gli occhi!»
Wolfrun tranquillizzò Ziggy tirando le redini, gli accarezzò la criniera e si chinò a sussurrargli qualcosa in un orecchio.
«Perché?» disse Nora, tremando e continuando a stringere un braccio a Christa che cercava di divincolarsi e lanciava imprecazioni contro Wolfrun. Nora aveva la faccia stanca e gli occhi segnati da profonde occhiaie. Negli ultimi mesi sembrava invecchiata di colpo.
«Perché cosa?» sorrise Wolfrun.
«Perché… questo?» Nora tossì via il fumo che ormai aveva invaso l’intera radura e le si stava infilando nella gola e sollevò una mano in direzione delle fiamme.
Wolfrun sospirò. «Potrei dirti che l’abbiamo fatto perché ve l’avevo promesso. Ricordi la Festa della Morte? Non fosse stato per quel vostro amico, quello che ha avuto l’idea di schiattare quella notte… Come si chiamava? Sven. Ecco, se non fosse stato per lui, e per Chloe che aveva un debole per lui, ci saremmo tenuti Theo e saremmo venuti qui insieme a dare fuoco al castello…» rise. «Quella sera avevamo vinto noi. La morte di Sven è stata un trucchetto spregevole da parte vostra.»
Christa digrignò i denti: «Trucch…»
«Quindi potrei dirti che l’abbiamo fatto per vendetta» continuò Wolfrun senza badarle. «O per giustizia. Ma sarebbe una bugia.»
Il rumore di qualcosa che si spezzava, seguito da un tonfo, la fece girare verso la torre. Il fuoco che usciva dalle finestre e dal tetto producendo un fumo denso, più scuro del buio, venne scosso da un vento interno. Qualcuno tra i ragazzi di Tege...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Berlin - La battaglia di Gropius
  4. DICEMBRE 1978
  5. DOSSIER. DALLA BERLINO DEGLI ANNI ’70. Scopri la vita quotidiana dei ragazzi dell’Est e dell’Ovest: com’era abitare una città spaccata in due.
  6. Copyright