Silenzio. Fu il silenzio ad accogliermi quando entrai nella casa di Wes a Malibu. “La mia casa.” Non sapevo che cosa aspettarmi. Forse ebbi la fantasia che l’universo si sarebbe capovolto e avrei trovato il paradiso sulla Terra, e cioè il mio uomo sano e salvo, qui in America, nella quiete della nostra casa. Perché, di fatto, era nostra a tutti gli effetti. Wes era stato molto chiaro sul mio modo di considerare quella che Gin chiamava la tenuta di Malibu. L’alternativa, diceva, era cercare insieme una nuova casa, ma io non volevo perché preferivo di gran lunga immergermi completamente in qualcosa che fosse come lui: integro, unico, discreto, splendido.
Wes aveva sempre lavorato sodo ed era riuscito a mettere insieme una piccola fortuna già in giovane età; non era però un uomo avido, e neppure presuntuoso. L’arredamento lineare e i mobili semplici e funzionali riflettevano perfettamente il suo carattere. Mentre percorrevo le stanze buie e vuote riprendevo contatto con le sue cose, ma era cambiato tutto. Mi guardai attorno analizzando le piccole differenze rispetto all’ultima volta che ero stata lì, circa due mesi prima.
Sulla mensola del camino c’era una statuetta di circa trenta centimetri: una ballerina con la gamba distesa verso l’alto, con la mano che impugnava la caviglia al di sopra della testa e restava in equilibrio sulla punta del piede. Apparteneva a mia madre, che era solita alzarsi sulle punte e inarcarsi all’indietro, per mostrarmi come faceva una ballerina a mettersi in quella posizione. Mia madre aveva fatto la soubrette a Las Vegas ma in precedenza era stata una ballerina di danza classica e contemporanea. Mi piaceva guardarla mentre si muoveva. Quando faceva le pulizie piroettava in giro per la casa seguendo una musica che sentiva solo lei. Aveva i capelli neri lunghi fino alla vita che le ricadevano sulla schiena come un mantello scuro. Quando avevo cinque anni, pensavo che mia madre fosse la donna più bella del mondo e la amavo più di chiunque altro. Era un amore fondato sul nulla, ma quella statuetta no: era al posto d’onore su quel camino, e per quanto mi venisse voglia di fracassarla per terra, l’avevo lasciata lì; se non avessi voluto tenerla, l’avrei regalata a qualcuno molto tempo prima. A volte i ricordi fanno male, anche i più belli.
Mi voltai a osservare il salone. Sopra un tavolino c’era una fotografia familiare, quella di Maddy. Era stata scattata il giorno prima che cominciasse il college, io l’avevo seguita per tutto l’edificio come un cagnolino. Mads, dal canto suo, non smetteva di saltellare tenendomi per mano, facendo dondolare le nostre braccia. Passavamo da un’aula all’altra e lei mi raccontava dei suoi corsi e mi spiegava che cosa avrebbe imparato in ciascuno di essi. La sua felicità era contagiosa e io ero davvero contenta per la mia sorellina: sapevo che da quel momento avrebbe cominciato a fare grandi cose. Aveva già iniziato, in realtà, e io ero più che orgogliosa di lei: sarebbe arrivata in alto, e nulla sarebbe riuscito a fermarla.
Continuai il mio giro e arrivai in cucina, dove trovai un collage di fotografie attaccate al frigorifero con delle calamite. C’erano anche alcune foto sparse prese dal frigo del mio piccolo appartamento: foto di Maddy, di Ginelle e di mio papà, e anche un paio di foto nuove che non avevo stampato io, di me e Wes insieme. Una era stata scattata a tavola, durante il pranzo, l’altra era un selfie che ci eravamo fatti nel letto, e si vedevano solo le nostre facce. Quelle foto doveva averle aggiunte lui, era cominciato tutto da lì. Passai il dito sul sorriso sornione di Wes, così sicuro di sé e così sexy mentre mi abbracciava nel letto. Ebbi una stretta al cuore, quasi dolorosa. Presto, sarebbe tornato a casa. Dovevo avere fede. Quel che conta è il viaggio, trust the journey. Mai come ora dovevo credere alle parole che mi ero fatta tatuare sul piede.
Entrai in quella che era diventata la nostra camera da letto e rimasi di sasso, con la bocca aperta e gli occhi spalancati.
«Oh, porca puttana!» esclamai nel vedere il volto che mi osservava: era il mio ritratto.
Era l’ultimo ritratto che mi aveva fatto Alec, a febbraio, sulla terrazza panoramica dello Space Needle di Seattle. I miei capelli formavano una cascata color ebano. Quel giorno mi ero sentita come liberata. Priva del fardello che mio padre, senza volere, mi aveva caricato sulle spalle e dell’obbligo di essere, ogni volta, la persona che il cliente voleva che fossi: era tutto sparito, in quell’attimo di pace. Per un istante ero stata semplicemente Mia, una ragazza tra tante che, per la prima volta, ammirava la bellezza del panorama che la circondava.
Non credevo ai miei occhi: Wes aveva acquistato il più costoso dei quadri che Alec mi aveva fatto. Alla fine, tra una conversazione e l’altra, gli avevo parlato di lui. Be’, di certo non gli avevo riferito i dettagli più piccanti, mi ero limitata a fornirgli il contesto generale. Ci tenevo a raccontargli del mio incontro con l’arte, di come ognuna di quelle opere mi avesse cambiata profondamente, aiutandomi a vedere la vita, l’amore e me stessa con più chiarezza. Eravamo a letto, nudi e abbracciati, quando gli avevo detto che mi sentivo in debito verso Alec per ciò che mi aveva insegnato e che mi era sembrato sbagliato accettare i soldi da lui, per quanto non avessi altra scelta.
Tirai fuori il telefono e, dopo aver consultato la rubrica dei contatti, feci partire una chiamata.
«Ma jolie, a cosa devo il grandissimo piacere di sentire la tua voce?» rispose Alec con quel suo tono morbido e sensuale che mi faceva tornare in mente altri momenti ben più piacevoli trascorsi tra le braccia di quel Francesino peccaminoso.
Mi girai e mi sistemai sul letto con le gambe incrociate, continuando a fissare il quadro. «Io… ecco, non riesco a credere che…» Invece di finire la frase sollevai il telefono e scattai una foto, poi gliela mandai. Sentii il rumore della notifica dall’altra parte del telefono.
«Mia, parle moi, ti senti bene?» La sua voce tradiva una certa ansia.
Avevo la voce che tremava mentre osservavo in ogni dettaglio quella meraviglia appesa sul letto di Wes. Anzi, sul letto mio e di Wes. «Ti ho mandato una foto.»
«Non mi interessa questo tipo di comunicazione, chérie.»
«Guarda e basta» gli dissi con un gemito, sperando di essere abbastanza convincente.
Sentii qualche clic e poi di nuovo la sua voce. «Ah, mais oui, stai vedendo te stessa, non?»
Ci sono momenti in cui vorresti strangolare la persona dall’altra parte del telefono: adesso era uno di quei momenti. «Non è questo il punto, Alec: perché sto guardando me stessa nella camera da letto del mio fidanzato?»
Sentii che Alec respirava a fatica. «Ma jolie, hai un copain, un fidanzato?» Quelle parole pronunciate con il suo accento francese stavano per farmi dimenticare che ce l’avevo con lui perché non riusciva a capire. «Ora sei una donna impegnata… Félicitations!» Si congratulava con me, ma non si decideva a darmi una risposta sul perché quel quadro si trovasse lì.
Soffocai un gemito. «Alec, mi serve la tua attenzione.»
Fece un mormorio di approvazione. «Oh, chérie, ma tu hai sempre la mia attenzione, soprattutto quando sei nuda davanti a me. Riesco a rivivere in ogni dettaglio la sensazione di stringerti tra le braccia. Ti ricordi anche tu del mese passato con me, oui?»
«Alec, non è il momento per sfogliare l’album dei ricordi. Ho bisogno che tu mi dia delle risposte: come mai questo quadro è finito qui, nella mia camera da letto?»
Alec mi rispose sogghignando. «Sempre avida di informazioni, eh? Magari doveva essere una sorpresa, compte tenu de votre amant.»
Il mio francese era parecchio arrugginito, visto che non l’avevo mai studiato a scuola ed erano diversi mesi che non parlavo al telefono con Alec, ma più o meno avevo capito che parlava di una sorpresa da parte del mio amore.
«L’ha comprato Wes?»
«Non esattamente.»
Mi irrigidii e digrignai i denti così forte che temetti di romperli. «Non è il momento di fare lo spiritoso: sputa il rospo, Francesino.»
Sentii un risolino soffocato. «Sputare è da maleducati, non fa per me.»
Alzai gli occhi al cielo e mi lasciai andare sul letto. «Alec… ti ho avvisato.»
«Il tuo amante non ha pagato il quadro.» Questa volta fu esplicito.
«E allora come mai è qui?»
Tirare fuori qualche informazione dal mio amico francese quando lui evidentemente non aveva alcuna intenzione di darmene era più difficile che impedire a un uomo di avere un orgasmo dopo una sontuosa scopata: fottutamente impossibile.
Finalmente, sospirando, si decise: «Ma jolie, sarò sincero con te, oui?».
Che domande, sapeva benissimo cosa volevo, ma gli risposi ugualmente. «Oui. Merci.»
«Il tuo amante ha chiamato il mio agente: voleva comprare Addio, amore ma io mi sono rifiutato di venderlo.»
Rimasi sorpresa: un artista che crea le sue opere d’arte con l’obiettivo di venderle e condividerle con il resto del mondo e poi si rifiuta di cederne una?
«Ma perché? Non ha senso.»
«Mmh, così. Ti voglio bene, e volevo essere sicuro che la tua bellezza potesse essere apprezzata solo dalle persone giuste. Ho delle regole per ciascuno dei miei quadri, e ce ne sono due da cui non ho intenzione di separarmi.»
«E quali sono?»
La sua voce si trasformò nel brontolio sexy che conoscevo così bene. «Mi piace guardarti nei nostri momenti d’amore. Il nostro amore è appeso a una parete dello studio nella mia villa in Francia: Je ne pouvais pas m’en séparer» disse, e io mi scervellavo nel tentativo di dare un senso a quelle parole. Credo che intendesse dire che non aveva intenzione di separarsene.
Scoppiai a ridere. «Ma, Alec, è una sciocchezza: l’obiettivo di una mostra è vendere i quadri.»
«Ah, ma io voglio che solo gli occhi giusti possano vederli, un giorno dopo l’altro. Gli altri quadri li ho venduti tutti a clienti selezionati e con cui ho parlato di persona.»
Scossi la testa e mi passai la lingua sulle labbra secche. Ero travolta da un’ondata di emozioni: la vista di quel quadro, la voce di Alec, la nostalgia di Wes. Mi sembrava di essere stata dentro un tornado. Stavo cercando di raccogliere e mettere insieme i pezzi dei miei pensieri e delle mie emozioni, anche se non riuscivo a farli incastrare tra loro.
«E questo quadro? Come mai è finito qui?»
«Ho parlato al tuo Weston. Mi ha detto chi era, mi ha spiegato che sapeva della nostra relazione. Mi aspettavo che facesse un po’ di grabuge.»
«Grattugia?» Cosa c’entrava?
«Merde. Non. Com’è che si dice… Cassino?»
A quel punto sbuffai. «Forse vuoi dire “casino”?» gli chiesi, ridendo.
«Sì, casino. Ma è stato un vero signore, ha detto che ha visto il catalogo della mostra online e voleva comprare i quadri.»
«Comprare i quadri nel senso di comprarseli tutti?»
«Oui» rispose Alec, come se non fosse una cosa insolita. Io per parte mia trovavo molto insolito che il mio surfista dall’aria rilassata volesse spendere qualche milione di dollari in… miei ritratti! Di sicuro al suo ritorno avremmo dovuto parlare di come sprecava i soldi che guadagnava. “Oddio, spero tanto che ritorni.”
Mi alzai dal letto e continuai il giro della casa, passando da una stanza all’altra. Non vidi altre immagini di me che mi fissavano dalle pareti.
«Be’, ma…»
«Gli ho detto di no, che poteva averne uno solo e, se avesse scelto quello giusto, gliel’avrei venduto.»
Alec era davvero un tipo strano. Complicato, eccentrico, espansivo, amorevole, esigente, spettacolare a letto ma in fondo alquanto bizzarro. D’altra parte, gli artisti non sono forse tutti così? È impossibile classificare la loro strana natura, o tentare di darne una definizione, perché la maggior parte delle persone darebbe una risposta diversa.
«E dunque?»
«Ha scelto bene, ha scelto te.»
Quella frase mi fece venire la pelle d’oca lungo le braccia, me le sfregai e mi abbracciai da sola, visto che non c’era nessun altro a farlo.
«Ma sono tutti miei ritratti, Alec.»
«Non. Gli altri rappresentano momenti diversi della tua vita, certe esperienze che hai vissuto o anche scene che hai rappresentato per motivi squisitamente artistici. Invece quell’immagine è il risultato di come sei adesso, e lui ha voluto quella: dunque, ho lasciato che ti avesse.»
L’ultima parola suonava strana sulle sue labbra. «Che cosa significa?»
«Consideralo un regalo a te e a lui, al vostro amore.»
«Hai regalato al mio fidanzato un quadro che vale un quarto di milione di dollari?»
«Be’, a dire il vero vale mezzo milione di dollari.»
«Oh, cazzo!»
«Mia. Je t’aime. Ti avrei comunque dato metà di ciò che ne avrei ricavato, ma in questo modo hai qualcosa che ti ricorderà ogni giorno chi sei. Trovo stupendo che l’abbia appeso proprio sopra il vostro letto, non c’è posto migliore per quel quadro.»
Cominciai a singhiozzare, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. «Ti voglio bene anch’io, lo sai? Nel nostro modo speciale.» Ero assolutamente sincera.
«Oui. Lo so, ma jolie» rispose ridendo, e poi chiuse la telefonata con le stesse parole che davano il titolo al quadro: «Addio, amore».
Speravo tanto che non fosse l’ultima volta in cui sentivo il mio Francesino a cui piaceva tanto dire oscenità. Anch...