Sulla strada
«Perché cavolo non sei passato a prendermi, Teo?» protestò la voce di mio padre negli auricolari. «Eravamo d’accordo così!»
«Veramente no» feci presente mentre mi lasciavo alle spalle l’uscita di Modena Sud. «Avevo detto di stare tranquilli a casa, ché ci avrei pensato io.»
«Mi sono anche messo le scarpe» ci tenne a informarmi. «Sono qui di fianco alla porta come un cretino, e tu non sei passato!»
Quando faceva così, dovevo appellarmi a tutta la mia pazienza.
«Non mi sembra grave» suggerii. «Puoi levarle, le scarpe, e metterti tranquillo a tavola.»
«E chi ha più voglia di mangiare, ormai?» ribatté, acido, come fosse colpa mia se gli era passata la fame.
«Ascolta» lo invitai a ragionare. «Siete preoccupati per Max, e io lo sto andando a cercare. Non mi sembra il caso che ci mettiamo a discutere.»
«E chi discute?» ruggì. In sottofondo si distingueva la voce di mia madre, che lo chiamava per nome e lo invitava a calmarsi. «Solo mi chiedo perché voialtri dovete fare sempre di testa vostra!»
Perfetto. Adesso ero io, che facevo di testa mia.
«Ascolta, Teo.» Questa, invece, era mia madre. «Mi dispiace, che tu debba guidare fin lassù. Potevi almeno fermarti a mangiare.»
«Preferisco così, Mamma. Altrimenti si faceva notte.»
Sospirò in maniera rumorosa. «Mi dispiace» ripeté. «Chissà come sei stanco.»
Stanco? Io? Macché! Avevo proprio voglia, anzi, di farmi una gita verso le Alpi... «Non ti preoccupare» la rassicurai. «Ci scommetto che si fa vivo prima ancora che io arrivi su.»
«Speriamo. Ma tu sii prudente. Non correre, d’accordo?»
Dovetti implorare una tregua, e giurare che li avrei avvertiti se Max avesse dato notizie. Come non sapessi che loro avrebbero continuato, ostinati come la goccia cinese, a bombardare il suo telefono di chiamate.
Erano passate da poco le otto di sera quando infilai la direttrice dell’Autobrennero.
La corsia di destra era occupata da carovane lentissime di camion; l’altra, in compenso, sembrava sgombra a perdita d’occhio.
Di quel passo sarei arrivato a Bolzano alle dieci passate, e poi sarebbe venuto il bello: altri venticinque chilometri di curve separavano il capoluogo della provincia più settentrionale del Paese dalla baita sperduta che Max aveva eletto a proprio rifugio.
Era inutile illudersi di trovare una trattoria aperta da quelle parti. Al massimo, potevo sperare in un chiosco a bordo strada di quelli dove un panzone coi baffi sporchi di birra ti serve würstel e patate fritte su un foglio di carta oleata. Sentivo di meritare qualcosa di più, così decisi di spezzare il viaggio con una sosta in autogrill. «Il primo dopo Verona» stabilii. «Appena si cominciano a vedere le montagne.»
Ormai parlavo da solo.
Per distrarmi, cercai qualche voce umana modulando la frequenza dell’autoradio. La miscellanea disturbata di notizie sulla crisi economica e dichiarazioni di politici che dalla crisi, personalmente, si erano messi al riparo grazie a un posto in parlamento, era in grado di darmi sui nervi. Non avevano un effetto più distensivo le preghiere salmodianti delle emittenti religiose, le mazurke di Radio Liscio, e nemmeno le ultimissime di sport.
«Sai che cazzo me ne frega, se Balotelli non trova una squadra?» mi ritrovai a protestare, e subito mi sentii simile a mio padre, arrabbiato senza causa con mezzo mondo.
Continuai a scivolare in avanti lungo l’arco delle frequenze sino a quando la magia buona del rock non invase l’abitacolo. All’improvviso, potevi sentire le corde del basso vibrare e una tempesta di legni sulle pelli tese; la chitarra acustica lavorava con orgogliosa dignità, mentre l’altra, in pieno assolo elettrico, sembrava produrre cascate spumeggianti di luce. Subito mi sentii meglio, e mi dissi che avevo trovato di cosa nutrirmi per i prossimi chilometri.
Nel giro di un attimo, la tempesta perfetta degli strumenti parve placarsi, ma non andava a spegnersi: si preparava semplicemente ad assumere una nuova direzione, e in quella entrò in scena la voce potente di una giovane donna.
Di riflesso, drizzai la schiena ingobbita contro il rivestimento del sedile, e assunsi una postura più consona all’incontro con una ragazza decisa. Mi ritrovai a ridere della mia reazione, ma più quella cantava, più sembrava meritare rispetto. Altroché le oche giulive del Liberty! Quella sapeva il fatto suo, e quando capii cosa stava cantando, ricordai chi era, e dove l’avevo vista. “Vedrai che posso portare il peso del dolore” recitava il testo in inglese. “Perché non è la prima volta che un uomo va fuori di testa.”
Era la bionda olandese Anouk, e io l’avevo vista tenere testa a centomila persone stipate nell’autodromo di Imola in attesa di Vasco Rossi. Le altre band di supporto erano state letteralmente cacciate dal palco, ma lei aveva retto l’emozione di trovarsi davanti a quel mare di teste. Era stata in grado di trasformare la paura in energia, inducendo quell’accaldata moltitudine a saltare a tempo e dimenarsi sulle sue note. Avevo vent’anni, e forse non avevo più ammirato tanto una donna in tutta la vita. Almeno sino a quando non mi ero reso conto di essere innamorato di Gaia. Ma questo, all’epoca, non potevo prevederlo in alcun modo.
“Quando apro le mie ali e lo abbraccio per la vita” proseguiva la canzone, “succhio tutto il suo amore.” Forse l’autore della lirica non era Petrarca, ma il risultato era di sicuro effetto, così come la frase-mantra che dava il titolo alla canzone: “Non sarò mai la moglie di nessuno”.
Ripeteva il concetto sino a scolpirtelo in testa e qualche anno dopo, all’epoca in cui Max si era voluto sposare, mi chiedevo come mai il messaggio della bella Anouk non fosse arrivato chiaro e forte a tutta la mia generazione: il matrimonio era roba del passato, un vizio che ci saremmo dovuti lasciare tutti alle spalle, come l’abitudine a fumare sui treni o al tavolo del ristorante.
E invece, una primavera dopo l’altra, la gente continuava a cascarci. Si lanciavano in coppie, volteggiando verso l’abisso, posseduti da uno spirito cattivo che li portava a festeggiare il disastro come fosse la più lieta delle occasioni. Avevano un bel da metterli in guardia, gli amici: quelli erano troppo stupidi, distratti o orgogliosi per prestare ascolto, e si preoccupavano soltanto di compilare la lista degli invitati, scegliere l’abito e la musica più adatta per accompagnare la propria condanna.
Il guaio era che non ci cascavano solo i gonzi, ma anche persone intelligenti e piene di spirito d’iniziativa come mio fratello. Come non gli fosse bastato vedere un giorno dopo l’altro, sulla pelle dei nostri genitori, che genere di usura comporta il fatto di essere sposati. E nemmeno in quale girone infernale si erano già cacciati i nostri coetanei – i separati in casa, i separati messi alla porta dalle mogli, i divorziati condannati a pagare per tutta la vita, un mese alla volta, la propria leggerezza.
Ma lui, come tutti gli altri, aveva contato di farcela. Perché il suo rapporto era diverso. Come no, gente. E l’amore che lo legava alla sua Giulia era – avanti con le pernacchie, prego – più forte di ogni difficoltà.
Quando avevo tentato d’instillargli il dubbio, mi aveva guardato come l’avessi tradito per trenta denari. Ma come? Non lo sapevo, forse, che lui era resistente come la pietra? Era o non era sempre riuscito in tutte le imprese che si era prefissato? E se era stato capace di sopportare i bivacchi in parete e le tempeste di neve ad alta quota, perché mai sarebbe dovuto inciampare in un’attività semplice e inoffensiva come il matrimonio? Ci si sposava dalla notte dei tempi, e non serviva essere speciali per farlo.
E dire che gli avevo spiegato, mettendo in scena tutto il rispetto e la devozione che un fratello minore può dimostrare al primogenito, che i tempi erano cambiati. Non mi aveva dato retta. E quando avevo provato a suggerirgli, sempre col massimo garbo, che non era il suo genere d’impresa, Max si era offeso.
Io, però, lo conoscevo da sempre e nessuno mi avrebbe levato dalla testa un’evidenza incontrovertibile: per un uomo come lui, portare la pelle a casa dall’Himalaya o dai ghiacciai della Patagonia era uno scherzo, rispetto all’accettare le imposizioni quotidiane e i compromessi che la convivenza comporta.
Ma niente. Era andato, come sempre, dritto per la sua strada. E non era servito nemmeno fargli notare, nell’estremo tentativo di ricondurlo alla ragione, l’adesivo che lui stesso aveva attaccato in bella evidenza sul portellone posteriore dell’auto. “Se pensi che l’avventura sia pericolosa” recitava la scritta, “prova la routine: è letale.”
Aveva ignorato anche quell’avvertimento, lo stolto e, in un accesso di sublime crudeltà, mi aveva voluto come testimone: via, al galoppo, verso l’addio al celibato e la cerimonia nuziale più grandiosi e strampalati che si potessero mettere in piedi.
Da quel giorno, era mai stato felice un solo istante, insieme a lei? Non lo sapevo. Per certo, nello spazio di pochi anni – giusto il tempo di mettere al mondo i due figlioli che mi chiamavano “zio” –, l’inevitabile disastro si era prodotto. Puntuale come la lama della ghigliottina sul collo dei superbi.
E adesso toccava a me superare un camion dopo l’altro nella luce del crepuscolo per andarlo a ripescare.
A me. Che a trentanove anni, porca miseria, non riuscivo neppure a decidere cosa fare con l’unica donna della quale m’importava sul serio.
Quando feci il mio ingresso al Foscolo, provai l’impressione di entrare in uno zoo, bestia rara fra le bestie rare condannate alla prigionia per cinque lunghi anni.
La mia classe era composta da sedici ragazze e dieci maschi, e i professori davano l’idea di essere visitatori scandalizzati dallo spettacolo della nostra ignoranza.
Tre di noi erano ripetenti, e per ciò stesso sorvegliati speciali.
Il primo era il mite Gianni Masina, che fu il mio primo compagno di banco e parlava con un pesante accento da provinciale; era un ragazzo posato e leale, ma gli difettava la memoria. Giocava da stopper negli allievi della Dinamo Vergato, il suo paese natio, e il suo bene più prezioso era l’abbonamento in curva al Dall’Ara: era matto per il Bologna, e a scuola passava il tempo a disegnare sul diario le azioni salienti dell’ultima giornata di campionato. O, perlomeno, quel che ne ricordava.
Il secondo dei bocciati era il mitomane Pierluigi Battaglia, in arte Pier, figlio unico di un commerciante di abbigliamento del centro. Aveva fallito malamente gli esami di riparazione ma, lo stesso, aveva ottenuto come incoraggiamento un cinquantino da cross dell’Aprilia; nonostante la cilindrata modesta, sosteneva di impiegarlo nelle corse clandestine che si svolgevano ogni notte per le strade del malfamato quartiere Pilastro. Battaglia aveva una casa a Sirolo, dove si vantava di avere ospitato Luca Carboni, Gianluca Vialli e Kaori, la ragazza orientale protagonista delle pubblicità del Philadelphia. Naturalmente, sosteneva di avere già scopato; anzi, a sentir lui, aveva inflitto memorabili castigate a ogni ragazza, italiana o straniera, che si fosse avventurata sulle spiagge del Conero.
L’ultima fra i ripetenti, primissima però nel turbare il mio cuore, era la splendida, statuaria, irraggiungibile Viviana Germano. La sua bellezza mozzafiato superava di gran lunga le capacità di astrazione delle quali era dotata, quasi che lo spettacolo di quel corpo da miss, del viso delicato illuminato dagli occhi blu, dei soffici capelli color grano e delle lunghe ciglia, avesse la controindicazione di non confondere soltanto i maschi, ma lei per prima. Era, però, allegra e gentile, il che mandava definitivamente in estasi i ragazzi, e fuori dai gangheri le compagne più malevole.
Non mancavano, infatti, le stronzette gelose e ina...