Quando Papà fece ritorno a New Rochelle, salì la gradinata di casa, passò sotto i giganteschi aceri norvegesi e trovò sua moglie che teneva in braccio un bambino nero. Di sopra, la ragazza di colore se ne stava in clausura. Il suo stato di depressione melanconica aveva tolto ogni forza ai suoi muscoli. Non riusciva nemmeno a tenere in braccio il suo bambino. Se ne stava seduta tutto il giorno nella sua stanza nella mansarda, vedeva la luce del giorno schiarire, brillare nel cielo, poi tornare a impallidire. Papà la guardò attraverso la porta aperta. Lei lo ignorò. Lui vagabondò per casa trovando dappertutto i segni della propria esclusione. Suo figlio, adesso, aveva una scrivania, come si addiceva a un giovane studente. Gli parve di udire il vento artico, ma era Brigit, la domestica, che stava passando un aspirapolvere elettrico sul tappeto del salotto. La cosa più strana di tutte fu lo specchio nel suo bagno: gli rimandò la faccia emaciata e barbuta di un derelitto, di un uomo senza casa. Il suo specchietto da barba sulla Roosevelt non glielo aveva mai rivelato. Si tolse i vestiti. Rimase sorpreso alla vista del suo corpo, le costole e le clavicole gli sporgevano dalla pelle bianca e vulnerabile, la pelvi ossuta, e l’organo che ne pendeva, scuro più di tutto il resto. La notte, a letto, la Mamma lo tenne abbracciato e aderendo contro di lui da dietro, cercò di scaldargli il fondo della schiena, cullando quel suo strano gelo. Era evidente a entrambi che questa volta era rimasto assente per troppo tempo. A pianterreno Brigit mise un disco sul grammofono, girò la manovella e si sedette in salotto fumando una sigaretta e ascoltando John McCormack che cantava I Hear You Calling Me. Faceva tutto il possibile per perdere il posto. Non era più né efficiente né rispettosa. La Mamma faceva risalire questo cambiamento all’arrivo della ragazza di colore. Papà lo imputava ai gradi di rivoluzione del pianeta morale. Ne vedeva i segni dappertutto e ne era sconvolto. Alla fabbrica gli avevano detto che le cucitrici del reparto bandiere si erano iscritte a un sindacato di New York. Indossò dei vestiti presi nel suo armadio, che gli pendevano addosso informi come le pellicce che aveva indossato per un anno. Aveva portato dei regali. A suo figlio diede un paio di zanne di tricheco e un dente di balena intagliato dagli eschimesi. Alla moglie una pelliccia d’orso bianco. Dal suo baule tirò fuori dei tesori artici – taccuini del suo diario con la copertina che si arricciava agli angoli e le pagine rigide, come fossero caduti nell’acqua, una fotografia firmata del comandante Peary, una punta di rampone fatta di osso, tre o quattro scatolette di tè, tesori incredibili nel Nord, ma qui, in salotto, patetici oggetti di un selvaggio. La famiglia stava lì attorno a guardarlo, inginocchiato sul tappeto. Non aveva nulla da raccontare loro. Il buio e il freddo del Circolo Polare erano scivolati su di lui avvolgendolo. In attesa del ritorno di Peary, sulla Roosevelt, la notte, aveva ascoltato l’ululato del vento e si era afferrato con amore e gratitudine al sudicio corpo di una eschimese simile a un pesce puzzolente. Aveva introdotto il suo corpo nel pesce puzzolente. La vecchia parola anglosassone non gli era nemmeno passata per la mente. Ecco che cosa aveva fatto. Adesso, qui a New Rochelle, sentiva di puzzare di olio di fegato di pesce, sentiva il puzzo di pesce nel suo fiato, se lo sentiva nelle narici. Si lavava e strofinava fino a diventare tutto rosso. Guardava la Mamma negli occhi per scorgervi la propria condanna. E invece trovava una donna curiosa e provocata dal suo nuovo modo di essere. Si rese conto che da quando era tornato avevano dormito tutte le notti nello stesso letto. In certo modo lei non era più così strenuamente casta com’era stata in passato. Ricambiava il suo sguardo e veniva a letto con i capelli sciolti. Una notte si sentì sul petto la mano di lei; gli scivolò sotto la camicia e rimase lì. Decise che Dio ha in serbo per noi punizioni così misteriose che è impossibile prevederle. Con un grugnito si volse verso di lei e la trovò pronta. Le mani di lei attirando la sua faccia verso di sé non sentirono le lacrime.
La casa con i suoi bovindo, i cornicioni dentellati e i tre abbaini, si ergeva sul giardino come una nave. Le avvolgibili arrotolate erano fissate alle finestre. In un’assolata mattina di novembre egli se ne stava sul marciapiede. Le foglie cadute erano coperte di brina e si arricciavano intorno alla casa come onde. Il vento soffiava. Lui era tornato leggermente zoppicante. Stava pensando alla conferenza sulla sua spedizione che doveva preparare per il New York Explorers Club. Trovò che preferiva starsene tranquillo in salotto con i piedi accanto alla stufetta elettrica. In famiglia tutti lo trattavano come un convalescente. Suo figlio gli portò una tazza di brodo. Il ragazzo era cresciuto. Si era fatto più asciutto. Stava diventando competente e utile. Parlò con il padre, in modo intelligente, della cometa di Halley. Accanto a lui il padre si sentiva infantile.
Sul giornale si leggevano articoli sul safari africano di Teddy Roosevelt. I grandi conservatori avevano fatto un bottino di diciassette leoni, undici elefanti, ventuno rinoceronti, otto ippopotami, nove giraffe, quarantasette gazzelle, ventinove zebre, e poi kudu, gnu, impala, antilopi e facoceri in quantità .
Quanto alla ditta, durante l’assenza di Papà sembrava aver prosperato. La Mamma adesso era in grado di parlare disinvoltamente di costi unitari, di inventari e di pubblicità . Si era assunta responsabilità da dirigente. Aveva apportato dei cambiamenti in certe procedure contabili e assunto quattro nuovi rappresentanti in California e nell’Oregon. Tutto ciò che aveva fatto, all’esame di Papà si dimostrò valido. Lui era stupefatto. Sul comodino della Mamma c’era un volume intitolato The Ladies’ Battle, di Molly Elliot Seawell. Trovò anche un opuscolo sul controllo delle nascite, la cui autrice era Emma Goldman, l’anarchica rivoluzionaria. Giù in fabbrica, presso un finestrone, scoprì suo cognato chino sopra un tavolo da disegno. Il Fratello Minore della Mamma cominciava a perdere i suoi capelli biondi. Era pallido, magro e meno comunicativo che mai. La cosa più straordinaria era il tempo che adesso passava al lavoro, dodici o quindici ore al giorno. Si era riservato il reparto fuochi d’artificio, aveva disegnato decine di nuovi razzi, di girandole, e un insolito fuoco d’artificio confezionato non già in un cilindro ma in un contenitore sferico. Con la sua miccia, che aveva l’aspetto di un picciolo, era stato intitolato Bomba Ciliegia. Una mattina i due uomini si recarono al campo di prova usato dal Fratello Minore, al capolinea del tram, negli acquitrini salati. Portavano pesanti soprabiti neri e la bombetta. Papà rimase su un leggero rialzo del terreno, sull’orlo delle alte erbe. A una cinquantina di metri, su uno spiazzo di terraferma, il Fratello Minore si chinò e preparò la sua dimostrazione. Con Papà aveva convenuto che il primo lancio sarebbe stato un fuoco d’artificio tradizionale e il secondo la Bomba Ciliegia. Si rialzò d’un tratto, levò un braccio e indietreggiò di alcuni passi. Papà udì la leggera esplosione di partenza, dopo aver visto un filo di fumo alzato dal vento. Poi il Fratello Minore avanzò di nuovo, si chinò e poi indietreggiò nuovamente, più in fretta questa volta. Alzò entrambe le braccia. Si udì un’esplosione come quella di una bomba. I gabbiani si levarono di colpo e Papà sentì lo spostamento d’aria come un ronzio nelle orecchie. Si allarmò assai. Il Fratello Minore, quando lo raggiunse, era rosso in faccia e aveva gli occhi luccicanti. Papà considerò che forse la carica era troppo potente e poteva ferire qualcuno. Non voglio fabbricare qualcosa che potrebbe cavare un occhio a un bambino, disse Papà . Il Fratello Minore non disse nulla, ma tornò alla sua piazzuola e accese la miccia di un’altra Bomba Ciliegia, questa volta rimanendone ad appena un paio di passi di distanza. Rimase lì come sotto una doccia, la faccia volta in alto a ricevere l’acqua. Allargò le braccia. La bomba esplose. Di nuovo si chinò e di nuovo allargò le braccia. La bomba esplose. Gli uccelli compivano dei grandi cerchi allontanandosi poi verso il Sound, volteggiando sopra le onde e librandosi sul vento.
Il giovanotto era in lutto. Evelyn Nesbit si era fatta sempre più indifferente, e avendo lui persistito nel suo amore, era divenuta ostile. Infine, un giorno se n’era andata con un ballerino di ragtime. Gli aveva lasciato un biglietto. Avrebbero messo su uno spettacolo insieme. Il Fratello si portò a casa, nella sua stanza a New Rochelle, una cassetta piena di ritrattini di carta e un paio di babbucce di seta beige che Evelyn aveva buttato. Una volta, con addosso soltanto quelle babbucce e un paio di calze bianche ricamate, lei si era messa le mani sulle cosce e l’aveva guardato al di sopra della spalla. Dopo il suo ritorno lui rimase allungato sul suo letto per giorni e giorni. A volte si afferrava il sesso come se volesse strapparselo alle radici. Si metteva a passeggiare per la stanza tenendosi le mani sulle orecchie e lamentandosi forte quando gli pareva di udire la voce di lei. Non sopportava la vista di quei ritrattini di carta. Avrebbe voluto imbottirsi il cuore di polvere da sparo e poi farlo esplodere. Una mattina all’alba si svegliò sentendo nelle narici il profumo di lei. Questo, di tutti i suoi ricordi, era il più doloroso. Scese di corsa a pianterreno e gettò il pacchetto dei ritrattini e le babbucce di seta nel secchio della spazzatura. Dopodiché si fece la barba e se ne andò alla fabbrica di bandiere e di fuochi d’artificio.
I ritrattini di carta furono recuperati da suo nipote.
Il ragazzo tesaurizzava tutto ciò che veniva scartato. Compiva la sua educazione in modo particolare e viveva una vita intellettuale interamente segreta. Teneva d’occhio il diario artico di suo padre, ma non si sarebbe azzardato a leggerlo se non quando suo padre avesse cessato di tenerci. Per lui una cosa acquistava significato quando veniva trascurata da tutti gli altri. Guardava i ritrattini, li esaminava con grande attenzione, e ne scelse uno da appendere nell’interno dello sportello del suo armadio. Era uno studio del più frequente soggetto dell’artista, una ragazza dalla capigliatura che le formava come un elmo, e nell’atteggiamento di chi stia per spiccare una corsa. Portava scarpe accollate, con i lacci, e le calze arrotolate sulle caviglie, come i bambini poveri. Lui nascose il resto delle figurine in soffitta. Faceva sempre attenzione non soltanto alla roba scartata, ma anche ai fatti sorprendenti e alle coincidenze. A scuola non imparava niente, ma faceva bene poiché non gli si chiedeva nulla. La sua insegnante era una donna con i capelli grigi, che allenava i suoi scolari alla declamazione e batteva le mani mentre loro si esercitavano a tracciare sul quaderno delle curve, che si riteneva li avrebbero preparati a farsi una bella calligrafia. A casa dimostrava una passione per i libri d’avventura dei Motor Boys e raramente mancava un numero di «Wild West Weekly», e chissà perché questi gusti, che i familiari trovavano del tutto normali, costituivano per loro una consolazione. La Mamma sospettava che fosse un bambino strano, pur non mettendo a parte nessuno di questa sua opinione, nemmeno Papà . Qualsiasi indizio che suo figlio fosse del tutto normale era una consolazione per lei. Avrebbe voluto che avesse degli amici. Papà non era ancora tornato a essere se stesso e il Fratello Minore era troppo tormentato dai suoi affanni per poter servire, perciò il compito di coltivare quella che si poteva considerare la stranezza del ragazzo, o semplicemente la sua indipendenza di spirito, era lasciato al Nonno.
Il vecchio era magrissimo e curvo ed emanava un sentore rugginoso, forse perché aveva pochi vestiti e si rifiutava di comprarne o di accettarne nuovi. Gli occhi gli lacrimavano continuamente. Ma se ne stava in salotto a raccontare al ragazzo storie tratte da Ovidio. Erano storie di persone che diventavano animali o piante o statue. Erano storie di trasformazioni. C’erano donne che diventavano girasoli, ragni, pipistrelli, uccelli; uomini che diventavano serpenti, porci, pietre e persino aria. Il ragazzo non sapeva di ascoltare Ovidio e del resto la cosa non gli avrebbe fatto alcun effetto. Le storie del Nonno gli prospettavano che le forme della vita erano volatili e che tutto ciò che c’era nel mondo facilmente avrebbe potuto essere qualche altra cosa. Raccontando, il Nonno passava spesso dall’inglese al latino senza che nemmeno se ne accorgesse, come se stesse leggendo a una delle sue scolaresche di quarant’anni prima, e pertanto sembrava che nulla fosse immune dal principio della volatilità , nemmeno la lingua.
Il ragazzo considerava suo nonno come un tesoro scartato. Ascoltava quelle storie come immagini della verità e pertanto come affermazioni che si potevano provare. Dell’instabilità sia delle cose che delle persone aveva prove di sua propria esperienza. Guardava la spazzola sul comò e a volte questa scivolava giù dall’orlo e cadeva sul pavimento. Se apriva la finestra della sua stanza, si richiudeva da sé nel momento in cui pensava che cominciava a fare freddo. Gli piaceva andare al cinema, al New Rochelle Theatre, sulla Main Street. Conosceva i principi della fotografia, ma vedeva anche che il cinema dipendeva dalla capacità degli uomini, degli animali o degli oggetti di perdere una parte di se stessi, residui d’ombra e di luce che si lasciavano dietro. Ascoltava affascinato il grammofono e continuava a suonare lo stesso disco una quantità di volte, qualunque cosa fosse, come per verificare la persistenza di un evento duplicato.
E poi si metteva a studiare se stesso allo specchio, forse aspettandosi che si producesse un qualche cambiamento davanti ai suoi occhi. Non riusciva a vedere se fosse più alto di qualche mese prima, né se i suoi capelli si andassero scurendo. La Mamma notò questa sua nuova attenzione per se stesso, la comprese, e la interpretò come la vanità di un ragazzo che comincia a considerarsi uomo. Certo, aveva ormai superato l’età dei vestiti alla marinara. Sempre discreta, non disse nulla. Ma era molto contenta. In realtà egli continuava in quell’abitudine non già per vanità , ma perché aveva scoperto che lo specchio era un mezzo per sdoppiarsi. Si specchiava finché c’erano due lui, l’uno di fronte all’altro, ma nessuno dei due poteva pretendere di essere quello vero. Aveva la sensazione di essere disincarnato. Non si sentiva più tutt’uno, come persona. Aveva l’allucinante sensazione di separarsi continuamente da se stesso. S’ingolfava talmente in questo processo che non era più capace di uscirne, anche se la sua mente rimaneva lucida. Doveva affidarsi a un qualche stimolo esterno, un forte rumore o un cambiamento di luce attraverso la finestra, che catturasse la sua attenzione e gli facesse riacquistare la sua unità .
E che ne era di suo padre, l’uomo che era partito robusto e sicuro di sé ed era tornato curvo, macilento e barbuto? O di suo zio che perdeva i capelli e sembrava sempre stanco? Giù, in fondo a Broadview Avenue, un giorno i maggiorenti della città avevano inaugurato una statua di bronzo di un qualche antico governatore olandese, un uomo dall’aria arcigna, con un cappello piatto e quadrato, un mantello, pantaloni a coscia e scarpe con le fibbie. Per la cerimonia la famiglia si era mobilitata. Nei parchi della città c’erano altre statue e il ragazzo le conosceva tutte. Credeva che le statue fossero un modo di trasformare gli uomini e in certi casi i cavalli. Pure, anche le statue non rimanevano sempre le stesse, ma acquistavano colori diversi o perdevano dei pezzetti o parti di sé.
Gli era evidente che il mondo si componeva e si ricomponeva continuamente, per un eterno stato d’insoddisfazione.
L’inverno si fece estremamente freddo e asciutto e i laghetti di New Rochelle diventarono ideali per pattinare. Il sabato e la domenica la Mamma, il suo Fratello Minore e il ragazzo andavano a pattinare sul laghetto tra i boschi in fondo a Paine Avenue, la strada dopo Broadview. Il Fratello Minore se ne andava a pattinare per conto suo, facendo lunghe, solenni e graziose evoluzioni sul ghiaccio, le mani dietro la schiena, il capo chino. La Mamma portava un cappello di pelliccia e un lungo paltò nero; teneva le mani dentro un manicotto e pattinava con suo figlio che la teneva per un braccio. Sperava di trarlo in tal modo dalle sue solitarie occupazioni casalinghe. Era una scena allegra, con i bambini e gli adulti di tutto il quartiere che pattinavano sulla bianca distesa di ghiaccio, le lunghe sciarpe colorate sventolanti, le guance e i nasi rossi. La gente cadeva e rideva e veniva tirata su. I cani cercavano di tenersi in piedi, inseguendo qua e là i bambini. Si udiva il continuo ticchettio dei pattini che battevano sul ghiaccio. C’erano famiglie che portavano delle sedie di vimini su pattini, per le persone anziane o meno audaci, che venivano sospinte qua e là con sollecitudine affettuosa. Ma gli occhi del ragazzo vedevano soltanto i segni lasciati dai pattinatori, tracce subito cancellate di momenti passati, di tragitti compiuti.
Quell’inverno trovò Tateh e sua figlia a Lawrence, Massachusetts, centro d’industrie tessili. Erano arrivati lì l’autunno precedente, avendo sentito che c’era lavoro. Tateh stava seduto davanti a un telaio per cinquantasei ore alla settimana. La sua paga non arrivava a sei dollari. La famiglia viveva in un edificio di legno sulle pendici di una collina. Non c’era riscaldamento. Occupavano una stanza che dava su un vicolo in cui il vicinato gettava abitualmente le immondizie. Lui temeva che la bambina sarebbe caduta vittima dei teppisti del quartiere. Non voleva saperne di iscriverla alla scuola – qui evitare le autorità era più facile che a New York – e la faceva stare a casa quando non poteva portarla fuori lui stesso. Dopo il lavoro la portava a passeggio per un’ora nelle strade buie. Lei divenne pensosa. Teneva le spalle ritte e camminava come un’adulta. Al pensiero che presto sarebbe diventata donna, lui si torturava. In un periodo come questo, una ragazza ha bisogno della madre che la istruisca. Come avrebbe fatto a superare da sola questo periodo così difficile? E d’altronde, se lui avesse trovato una donna da sposare, come avrebbe accettato, lei, questa persona nuova? Per lei avrebbe potuto essere la cosa peggiore del mondo.
Quelle stamberghe di legno si estendevano in file interminabili. Gli abitanti provenivano da tutte le parti d’Europa, erano italiani, polacchi, belgi, ebrei russi. Tra i vari gruppi v’erano sentimenti di ostilità . Un giorno la tessitura più importante, l’American Woolen Company, inviò delle lettere in cui si annunciava una diminuzione di paga, e tutti gli operai della fabbrica tremarono. Diversi operai italiani lasciarono i loro telai. Si misero a correre attraverso la fabbrica, incitando allo sciopero. Strapparono i fili e gettarono pezzi di carbone dalla finestra. Altri li imitarono. L’indignazione si diffuse. Per tutta la città gli operai lasciarono le loro macchine. Quelli che non sapevano decidersi furono travolti anche loro dal sommovimento generale. Nel giro di tre giorni tutte le tessiture di Lawrence erano praticamente chiuse.
Tateh era entusiasta. Saremmo morti di fame e di freddo, disse a sua figlia. Adesso moriremo ammazzati perché ci spareranno addosso. Ma ben presto arrivarono da New York alcuni dirigenti dell’I.W.W. che sapevano come organizzare gli scioperi. Fu formato un comitato di sciopero con i rappresentanti delle varie nazionalità e fu diramato un ordine a tutti gli operai: niente violenze. Portando con sé la figlia, Tateh si unì alle migliaia di operai che formavano i picchetti intorno alla fabbrica, un grosso edificio di mattoni lungo centinaia di metri. Si trascinavano sotto il cielo grigio e gelido. Dai tram che percorrevano la strada i conducenti sogguardavano le migliaia e migliaia di operai che picchettavano silenziosamente sulla neve. In alto i fili del telefono e del telegrafo s’inarcavano appesantiti dal ghiaccio. Miliziani con il fucile facevano nervosamente la guardia alle porte della fabbrica. Tutti i miliziani indossavano il cappotto.
Vi furono molti incidenti. Un’operaia fu ferita da un colpo d’arma da fuoco. Gli unici che portassero fucili o pistole erano i poliziotti e i miliziani, ma i due capi dello sciopero, Ettor e Giovanetti, furono arrestati per complicità nella sparatoria. Furono messi in prigione in attesa di giudizio. Un fatto simile era nelle previsioni. Tateh andò alla stazione per mettersi a disposizione dei sostituti di Ettor e di Giovanetti che stavano per arrivare. C’era una folla immensa. Dal treno scese Big Bill Haywood, il sindacalista più famoso di tutti. Era dell’Ovest e portava un cappello a larghe falde, che si tolse e sventolò in un gesto di saluto. Si levò un’ovazione. Haywood alzò le mani per ottenere silenzio. Parlò. Aveva una voce magnifica. Non ci sono stranieri, qui, tranne i capitalisti, disse. La gente impazzì d’entusiasmo. Poi tutti marciarono per le strade cantando l’Internazionale. La ragazza non aveva mai visto il suo Tateh così entusiasta. Lo sciopero le piaceva, poiché le dava l’occasione di uscire dalla sua stanza. Teneva il padre per mano.
Ma la lotta continuò per settimane. I comitati di soccorso avevano istituito delle cucine in tutti i quartieri. Non è beneficenza, disse una donna a Tateh quando, dopo che la bambina aveva ricevuto la propria porzione, lui rifiutò la sua. I padroni vogliono indebolirvi e perciò voi dovete essere forti. La gente che ci aiuta oggi avrà bisogno del nostro aiuto domani. Quelli che facevano il picchettaggio, in quel freddo, si avvolgevano più strettamente le sciarpe intorno al collo e battevano i piedi sull...