Ricordo quasi tutto
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Ricordo quasi tutto

  1. 168 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

«Una grande famiglia è una famiglia disseminata, divisa, complicata, persa, ritrovata. L'albero genealogico segna rami che a volte non si sono mai toccati, e a volte si sono uniti indissolubilmente.» Fulco Ruffo di Calabria appartiene a una delle famiglie più antiche e blasonate d'Europa, che vanta fra i suoi membri re e regine, principi e principesse, cardinali ed eroi, come il nonno Fulco, asso dell'aviazione della Prima guerra mondiale e medaglia d'oro al valor militare.

Con legittimo orgoglio ma anche con estrema spontaneità e semplicità, Fulco si racconta per la prima volta in una sorta di diario «geografico» che ripercorre la sua vita di nomade d'eccezione: l'infanzia torinese insieme ai fratelli Augusto, Imara, Umberto e Alessandro, sotto l'occhio vigile e affettuoso della «signorina Natalia», amica e complice; la Pasqua a Roma da nonna Luisa; le feste con i compagni di giochi, fra i quali Edoardo e Margherita Agnelli e i «rampolli» di casa Marone Cinzano, i Rivetti, i Nasi, i Vallarino Gancia; i collegi esclusivi a Moncalieri, Pallanza, Paderno del Grappa e Gressoney; le indimenticabili vacanze a Poveromo, in Versilia, nella accogliente e vissuta casa di famiglia, in compagnia di nonni, cugini e zii (fra cui Paola, futura regina dei Belgi) o a Sestriere. I viaggi per tutta l'Europa con la «banda Ruffo» (così zia Paola chiamava i nipoti) negli «anni feroci e fieri», in cui «non ci facemmo mancare niente», all'insegna della spensieratezza e degli amori passeggeri. Fino al trasferimento in Sudafrica, dove Fulco si reca per lavorare nella società del padre.

Poi il ritorno in Italia, e quell'irrequieto peregrinare di città in città alla ricerca del luogo in cui riconoscersi e potersi fermare per sempre: Torino, Roma, Lecce, il Salento, con i suoi profumi e la sua ospitalità, di nuovo Roma...

Queste pagine sincere e appassionate non mancano però di raccontare anche ricordi dolorosi: il difficile rapporto con il padre, fin dall'inizio così «distante» e presto del tutto assente, la paternità irrisolta, l'improvvisa quanto inaspettata fine del matrimonio con Melba. Mettendo a nudo, senza reticenze, la paura di sempre: non essere all'altezza delle aspettative.

Ricordo quasi tutto è un personalissimo viaggio autobiografico, ma anche la sorprendente istantanea di un'Italia così bella da rendere davvero impossibile la scelta di un luogo dove fermarsi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804664659
eBook ISBN
9788852075599
XI

La Città Eterna, o almeno così speravo

IL DESERTO DEI TARTARI. CORSO VITTORIO, TORINO

Gli sguardi di Drogo cercavano nella lontananza, ma non avvistavano nulla di nuovo, sempre le stesse lastronate rocciose, i cespugli, le nebbie dell’estremo settentrione che mutavano lentamente colore man mano che la sera si avvicinava...
È così che non seppi dire a me stesso cosa volessi fare della vita, come volessi guadagnarmi, con calma e nel tempo, il pane. Io, come il tenente Drogo dalla penna di Buzzati, sentivo che in fondo, da un punto di vedetta, qualcosa sarebbe accaduto, qualcosa da lontano sarebbe arrivato. E che non erano il trading o altri business.
Il Sudafrica, il meraviglioso Sudafrica di terra rossa mi aveva accolto, alloggiato, nutrito, ma non mi aveva conquistato. Ecco perché me ne andai. Ma anche Torino si era spenta. Stavo lì aspettando che in quelle strade familiari, dove di famiglia non c’era più niente, e in quei tempi dai ritmi lenti e brevi si celasse il segnale di un’invasione creativa. Di un assalto ai miei sogni che c’erano, vi giuro c’erano. Ma questa è una vertigine che spesso ho riscontrato nelle nostre famiglie. Il non aver bisogno, il non dover sostenere confronti sociali vincono sulle ambizioni, i desideri, le attitudini. Provi a fare cose. Ti entusiasmi perché credi che il tuo nome sia, e forse lo è stato, un atout importante. Annusi situazioni. Veleggi a vista. Mi ero preso il lusso di sbattere una porta, ma non per tanto avrei avuto il lusso di non doverne aprire un’altra. So da sempre che le mie insicurezze infantili sono diventate rigidità e insofferenza, mi hanno fatto saltare opportunità e contatti. Mi hanno reso sordo o troppo accondiscendente verso gli altri. Ma dovevo capire, fortemente capire, dove allocare fisicamente me stesso, se non i miei stati d’animo.
Come fu che mi ritrovai a Roma non lo so.

VIA MERCADANTE, ROMA

Giorgio lo avevo conosciuto in Sudafrica. Oltre a essere console di una repubblica in acque indiane molto à la page, si occupava di intermediazione finanziaria. Spesso a Roma perché lavorava con la BNL, curava finanziamenti per operazioni imprenditoriali all’estero. Mi aveva coinvolto in questa sua nuova attività, chiedendomi di seguire i rapporti istituzionali con la banca. Un uomo capace, ma con il tratto del megalomane e forse millantatore. Non era affatto un disonesto, ma in qualche pasticcio si andò a infilare.
Dopo il periodo nelle agenzie di famiglia, ben volentieri accettai di collaborare con Giorgio, che a suo modo era una persona generosa. Alloggiava a Roma presso un residence nella bellissima via Mercadante e, quando da Torino iniziai a venire più spesso nella capitale, lui prendeva una stanza anche per me. Una palazzina degli anni Settanta che tanto per cambiare si affacciava, come casa Ruffo e come casa mia adesso, su Villa Borghese. Neanche a dirlo, anche da quella stanza del residence io sentivo il ruggito del leone come mi accade ora.

NATALE A KATMANDU (NEPAL)

Tutto sommato ero sereno. Roma cominciava ad accogliermi, Imara era già qui da un po’. Mia madre pure si era trasferita per seguire gli studi tecnici di Alessandro. Loro abitavano nel nostro palazzo. Umberto invece, anche lui a Roma, viveva in un delizioso monolocale in via della Pace, dietro piazza Navona, dove mio padre aveva già un bellissimo appartamento destinato a me che, senza mezzi termini, mi venne scippato dalla sua seconda moglie.
Quello era l’anno 1989. Mi accompagnavo con Gigliola Carbonari, napoletana di dieci anni più grande di me. Un’ex modella, poi hostess presso l’Alitalia. Gigliola la ricordo con affetto, era giocosa, allegra, oltre a essere, come si dice a Napoli, ’nu piezz’e femmena. Proprio in quell’anno, in cui la mia vita sembrava prendere un assetto normale, decisi di regalarmi e di regalarle per Natale un viaggio in Nepal. E lei ne fu ben felice.
Quando lasciai il Sudafrica non avevo dimenticato di salutare il simpaticissimo Domenico Cirillo, napoletano, console a Johannesburg, che a conclusione della sua carriera aveva ricevuto l’incarico di ambasciatore a Katmandu, capitale del Nepal: «Fulco, se vieni in Nepal, sarai mio ospite!».
Mio padre e mia madre in Nepal ci erano stati agli inizi degli anni Settanta, con Albert e Paola, tutti ospiti del re Birendra Bir Bikram Shah Dev. Mia madre me ne faceva racconti davvero entusiasmanti. Era stato fatto loro un invito in occasione dell’ultima caccia alla tigre. Per fortuna poi venne vietata. Anzi, Birendra fece di più, nel 1973 fondò, per preservare la fauna di quel territorio, il Royal Chitwan National Park, divenuto poi patrimonio dell’Unesco.
In quell’occasione, per i principi di Liegi e i miei genitori la caccia fu organizzata come fosse una festa, una liturgia alla quale dire addio, gli elefanti dipinti e bardati come star della foresta. Gli ospiti li montarono accompagnati a terra dagli sherpa. I battitori rullavano tamburi e piatti metallici per spaventare e attirare la preda. La tigre era davvero bella, conservo una foto di mio padre con lei coricata, spenta ai suoi piedi. Uno degli sherpa fu attaccato durante la caccia e perse la vita.
Mio padre di tigri ne ha viste abbastanza, anche a casa del suo amico Giorgio Gnutti, grandissimo imprenditore dell’acciaio, titolare allora dell’Almag. Le sue tigri erano di grande valore, e innocue. Ligabue, il pittore emiliano, faceva chilometri con la sua motocicletta rossa e capitava spesso nell’area bresciana di Lumezzane. Si fermava presso gli Gnutti perché gli davano da mangiare e anche qualche soldo. Ligabue per Giorgio improvvisava teste di tigri.
Partimmo in quattro. Il migliore biglietto da visita per una grande città è l’aeroporto. Quello di Katmandu io lo trovai divertentissimo, tutto in legno, il che lo faceva assomigliare a un enorme chalet svizzero. Odore di zucchero filato lungo le strade, colori che mi entravano nel naso tanto erano forti, un paese bizzarro, senza i fiumi di gente che in India mi avevano colpito e travolto neanche il tempo di capire dove fossi.
I primi giorni li trascorremmo sul dorso di elefanti per visitare i dintorni della capitale. Poi seguirono le uscite di trekking alle falde dell’Himalaya. Un freddo! Conobbi un ex sergente dell’esercito gurkha che mi regalò un kukri, il loro bellissimo coltello a lama ricurva con il fodero in legno rivestito in cuoio. I gurkha sono un corpo speciale e glorioso dell’esercito britannico delle colonie. Uomini piccoli, scattanti, che hanno combattuto in tempi recenti anche in Afghanistan.
Camminammo tantissimo in quei giorni, ma quello che più mi colpì fu la forza degli sherpa carichi delle nostre borse e di vettovaglie, velocissimi nel passo. Il loro era un continuo masticare foglie, credo di piante stupefacenti, infatti stupefacente era la loro potenza su quei sentieri sconnessi.
Trascorsi un meraviglioso Capodanno in tenda con Gigliola. L’ambasciatore Domenico Cirillo, avvertito del mio soggiorno, m’invitò all’ambasciata, un francobollo italiano in terra davvero straniera. Fu molto carino e gentile perché mi volle al suo fianco per i festeggiamenti della maggiore età del principe Dipendra. E posso cosi dire di aver toccato con mano, chiacchierato amabilmente, brindato e onorato il personaggio più infausto della monarchia nepalese. Fu proprio Dipendra a compiere la strage di nove membri della sua famiglia, per poi togliersi la vita. Seppure in coma, in quanto principe ereditario fu incoronato re e dopo tre giorni morì. La sua fu una festa di compleanno gioiosissima, banchetti, musiche e danze, uno sfavillio di abiti oro, rossi, gioielli ingombranti, l’Oriente che ferma il tempo. Dove però quello spettacolo, più di una volta nella storia, ha raccontato di vicende di corruzione, morti molto sospette e traffici internazionali.

SULLA STRADA PER RONCIGLIONE (VITERBO)

Stavo proprio bene a Roma. Ma non c’era weekend che non mi organizzassi per andare fuori città. Spesso raggiungevo Giorgio ad Ansedonia dove aveva affittato una bellissima villa pied dans l’eau. Ma un venerdì sera di un maggio dolcissimo, raggiunsi a Tuscania il mio amico Carlo Schaefer, che gestiva un piccolo albergo in quell’area etrusca a due passi da Roma.
Il risveglio quel sabato mattina fu bello, non so perché me lo ricordo con particolare freschezza. L’aria era tersa, prendevo un caffè e fumavo pensando per quanto tempo ancora avrei vissuto così. Avevo un lavoro che occupava il mio tempo, ma che sentivo sotto sotto scivolarmi dalle mani. Una casa che era un residence. Una famiglia che alla fine si era ricomposta a Roma quasi del tutto.
«Fulco, ci facciamo due passi nell’area archeologica?» Io e Carlo iniziammo a passeggiare, e mi resi conto anche di un discreto movimento di turisti. Una linea bionda, esatta, con un paio di occhiali da sole stretti in un pugno, e una borsa a sacco nell’altra mano, attraversò i miei occhi il tempo di dieci secondi. Jeans aderenti indossati senza alcuna consapevolezza, in totale nonchalance. Una camicia bianca inno a quella primavera nella quale mi ero imbattuto già dalla mattina. Rimasi in silenzio. Lei mi guardò, ma a me mi si guarda per altezza, non per bellezza. Proseguii. E vissi sino al rientro nel piccolo albergo di quella scia sottilissima e fragile che sapeva di Est europeo. Un altro caffè. Un’altra sigaretta. Un’altra primavera.
Quella linea bionda arrivava in quel momento nel piccolo giardino e, spostando due sedie, si accomodava al tavolo vicino al mio in compagnia di due amici. Petra, ventotto anni, estone di Narva, dagli occhi verdi impercettibilmente inclinati verso il basso, uno sguardo di una sensualità senza pari. Attrice di teatro, viveva a Parigi. Quel sabato si trovava a Tuscania. Una settimana di vacanza a Roma. Non la lasciai ripartire se non dopo dieci giorni. E poi un giorno mi feci trovare in rue Cortot, a Montmartre, davanti al suo piccolo portone. Fui io a non schiodarmi dal suo bilocale per altri dieci giorni. Fumai molto nel suo dehors, tanto cosy quanto triste.
Di Petra non racconterò nulla perché nulla mi raccontò. Mi usava un fiume di francese più dolce di quanto un francese potesse sopportare per non dirmi nulla di sé e della sua vita. Abbiamo fatto di tutto a Parigi, la mia Parigi amica dai tempi di Virginie Chaumet.
Sempre fuori a cena, e quanto si divertì quando andammo a rimpinzarci di ostriche al mitico Duc in Boulevard Raspail! Lì Petra iniziò uno strano discorso sulla reincarnazione che io non seguivo affatto. Capì che mi annoiava. E per lei, io, proprio io, sono entrato nella mitica boutique Chanel, in rue Cambon, prima e ultima volta, e le ho imposto un bellissimo abito corto. Perché lei lo indossasse come sognavo da tanto per una mia ragazza. Perché lei era davvero inquietante e forte, forse perversa, l’attrazione che mi spingeva non solo verso di lei, ma anche verso l’incognita che Petra portava con sé. La baciai in aeroporto dove mi volle accompagnare. Profumava di tutto. Penultima volta. Due weekend successivi io, mio fratello Umberto, un suo amico e Giovanni Sanjust organizzammo una sortita a Ronciglione, in provincia di Viterbo, per una fiera ornitologica venatoria. Ci dividemmo. Due in auto, io e il terzo amico in moto. La sua, una Bmw. Fu in una curva, eravamo in corsa. Sulla corsia opposta un furgone urta un’auto, ma invece di spostarsi tutto sul suo lato, invade la nostra di corsia, ostruendoci la strada. Secondi per vivere, secondi per morire. Per fortuna, la prima, io volai in un campo, mentre il mio amico alla guida ebbe chiaramente un impatto più traumatico. Perdeva sangue, fu soccorso a bordo di un elicottero, io in ambulanza. Riportai una frattura esposta del femore e il collo chirurgico dell’omero spaccato. Il che mi ha procurato un’invalidità permanente del trentacinque per cento.
Al momento non sentii dolore. Poi in ambulanza verso Roma mi sembrò di morire. Ebbi comunque la forza di chiamare mia madre e dirle di raggiungermi perché avevo avuto un piccolo, tale non era, problema. Mio padre, solo dopo una settimana, passò a trovarmi, sottolineando che nel giorno sciagurato anche uno dei telegiornali ne aveva parlato. Umberto distribuiva mance, chiaramente con il mio portafoglio, a infermieri e barellieri perché mi assistessero premurosi. Tranne in un caso, mi ha salvato la professionalità di tutti. Fui operato dall’allora giovane, ma già bravissimo professor Raffaele Fontana, nato a Nocera Inferiore, che a suo dire è piu elegante di quella Superiore, laureatosi alla Sapienza, specializzatosi ad Amburgo con il professor Thomas. Raffaele, oggi padre di due ragazzi speciali, Federico e Florian, sue ragioni di vita, da allora è tra i miei amici piu cari. E comunque rimasi bloccato in clinica per tre lunghi mesi.
Petra venne a trovarmi. Aprì la porta della stanza una mattina. Sguardo obliquo e devastato. «Tutto passato» le dissi. Lei era stanca. Stanca. Stanca. Ma una donna così bella, lontana da anni dal suo piccolo paese al confine con la Russia, non avrebbe pianto facilmente né per me né per se stessa. Mi tenne la mano. Mi portò le foto scattate insieme per le strade di Parigi. E con un gesto romantico le fece scivolare sotto il mio cuscino. Mi baciò. Fu l’ultima volta.
Dopo dieci giorni ricevetti una telefonata dal suo amico Philippe. Petra era morta. Malata già dal nostro incontro a Tuscania. Silenzio. Su di lei il mio doveroso silenzio.
E il ritorno a casa fu duro. Ancora più duro. Non feci rientro al residence, ma nell’appartamento in via Peri, lasciatomi nel frattempo libero da mia madre. Salire a piedi per cinque piani sarebbe risultato faticoso per chiunque di noi. Immaginate come avrei dovuto fare io con le stampelle, dal momento che qualche stramaledetto inquilino lasciava aperta, e non di rado la notte, la porta dell’ascensore.
Fu un periodo faticoso, io cercavo di risalire. Petra, la cui esistenza non avevo condiviso con nessuno, adesso mi mancava con rabbia e una dolcezza madida di sudore. Le cose mi erano cadute addosso tutte insieme, ma con tutte le mie forze avevo deciso di non soccombere a nulla e a nessuno. In quel periodo di grande dolore, qualcuno provò, in qualche modo riuscendovi, a darmi un altro colpo, abusando della mia prostrazione fisica e psicologica. Un giorno una dottoressa dell’équipe che mi stava seguendo mi comunica d’essere incinta. Avevamo avuto due, forse tre incontri nel frangente della mia convalescenza a casa. Rimasi di ghiaccio. Pensai – e ancora lo penso – a una trappola, neanche tra le più originali. Chiaramente la giovane dottoressa mi chiese di sposarla. Chiaramente non presi minimamente in considerazione la cosa. Chiaramente ho riconosciuto mia figlia. Dopo la rabbia, lo sconcerto, e anche un processo che stabilì un mantenimento spropositato, ho tentato, anni addietro, di avvicinarmi a lei. Di credere che potessi parlarle, trascorrere del tempo insieme. Anche se recuperare sarebbe stato difficile. Essere padri senza averlo scelto è un’attitudine da coltivare, e soprattutto essere figli di un padre estraneo è difficile, molto difficile, e io ho anche compreso le durezze usatemi da mia figlia. Ma a noi è andata proprio male. Non sono la persona che forse lei si aspettava. Non faccio il principe di professione. Non frequento feste e non mi aspetto d’esservi invitato. Tantomeno mi aspetto invitino mia figlia. Lei avrebbe voluto attenzioni più da un contesto immaginato che da me. Ma non esiste un côté, o meglio io non ce l’ho. Io entro ed esco dalle cose e dalle persone che mi fanno star bene e m’incuriosiscono. Il mio côté sono io.
Mia figlia è una ragazza molto intelligente, di grande sensibilità. Il fatto è che non ci siamo piaciuti. Lei è cresciuta in un’ottima famiglia, agiata e profondamente borghese. Io di borghese non ho nulla. Un giorno, ricordo, mi rimproverò, certamente in un moto d’insofferenza, la sua altezza, che certamente non viene da sua madre. Siamo alti, io e mia figlia. Al posto suo ne sarei stata fiera.

LE MIE COLOMBIADI

E poi, dopo un anno, la primavera ritornò anche per me. Fu così che, in una mattina di sole, il portiere di via Peri mi presentò la nuova inquilina arrivata da pochi mesi. Le tradizioni vanno certamente rispettate, ma il lutto che lei portava mi sembrava durasse un po’ troppo.
Nonostante ciò, quel giorno, e per la prima volta, quel nero ai miei occhi si incendiò di colori. Melba Vicens Bello – il suo cognome si dissolverà presto – era allora un’incantevole fanciulla dominicana...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ricordo quasi tutto
  4. Nonne e bisnonne
  5. Il piccolo principe
  6. L’incompreso
  7. Vacanze romane
  8. Giovinezza giovinezza
  9. Pioggia nel pineto
  10. All’ombra di Luchino
  11. L’ignoto milite
  12. Il lusso di emigrare
  13. La mia Africa
  14. La Città Eterna, o almeno così speravo
  15. Tra gli ulivi
  16. Naufrago per contratto
  17. Sulle tracce del Cardinale
  18. Ancora tra gli ulivi
  19. I luoghi eletti
  20. Inserto fotografico
  21. Copyright