Domenica 8 maggio 2005 la mia vita cambiò. Quel giorno scoprii la grande impronta di una mano sullo specchio del bagno di casa mia, a Sacramento, in California. Non era un’impronta come le altre. Sembrava fatta di una sostanza bianca e farinosa, morbida come cipria, e mostrava tutte le caratteristiche della struttura ossea, al pari di una radiografia. Guardando più da vicino, riconobbi che si trattava di una mano maschile, a causa della forma delle dita e della base ampia del palmo. L’immagine era lì, impressa sullo specchio, isolata e nitidissima. Era spuntata dal nulla. Letteralmente dal nulla.
Quella domenica era il primo anniversario della scomparsa di mio marito, Max Besler. Max era morto nel soggiorno di casa nostra, circondato da amici e familiari. Eravamo sposati da quattro anni, quando – cinquantaseienne – gli fu diagnosticato un cancro all’esofago; sei mesi soltanto e se ne andò, lasciando straziati me e mio figlio Tanner, quattordicenne. Tutti e due amavamo molto Max e insieme eravamo diventati una famiglia felice. Quella domenica di un anno dopo – era la festa della mamma – stavo ancora elaborando il lutto ed ero preoccupata per come Tanner stesse affrontando il proprio dolore. Era molto giovane e impressionabile e, come quasi tutti i ragazzi di quell’età, piuttosto taciturno. Ero pensierosa e vigile, attenta nel mio ruolo protettivo di madre.
Io e Tanner stavamo seduti al tavolino del giardino, nel sole del primo pomeriggio. Tanner trascorreva parte del tempo nella nostra casa di Sacramento, parte a casa del padre, a El Dorado Hills, a una mezz’ora di distanza. Un divorzio non è mai una cosa semplice, ma suo padre, Bob Heaphy, e io consideravamo il benessere di Tanner la cosa più importante delle nostre vite. Ci eravamo impegnati molto per garantirgli un ambiente stabile e affidabile e per rassicurarlo a parole e con i fatti che, pur abitando in due case, in entrambe poteva contare su tutto il nostro appoggio e il nostro affetto. Un affetto al quale si era aggiunto quello di Max. Mi era di conforto avere accanto Tanner, con i suoi capelli biondi tagliati corti e il fisico atletico, in quella giornata così particolare. Era bello guardarlo fare i compiti tutto concentrato e sorridevo come solo una madre può fare, notando la sua abitudine di muovere le labbra mentre leggeva in silenzio. Quanto a me, mi stavo mettendo in pari con i compiti che mi ero assegnata da sola: le letture arretrate che ogni fine settimana si accumulavano per il mio lavoro. Dopo un po’ mi alzai per entrare in casa a preparare uno spuntino. Tanner mangiava come ogni ragazzo in salute della sua età, cioè di continuo. Inoltre, in quell’anniversario, il cibo aiutava a distrarci dalla tristezza che riempiva i nostri cuori.
Casa nostra era disegnata a forma di U, con la mia camera da letto, quella di Tanner e uno studiolo sul lato sinistro, il soggiorno, la sala da pranzo e la biblioteca al centro; sul lato destro c’erano la cucina, una camera per gli ospiti, la lavanderia e l’uscita verso il garage. Max aveva trascorso il suo ultimo mese nella camera per gli ospiti anziché nella nostra, la più grande, perché, soffrendo molto, stava meglio in un letto per conto suo. E poi, visto che lavoravo, voleva che io dormissi.
Prima di entrare in cucina mi fermai nel bagno della camera per gli ospiti. Fu allora che vidi l’impronta. Sapevo che era fresca, perché un’ora prima mi ero pettinata proprio davanti a quello specchio e non avevo notato niente. Sbalordita dall’apparizione, rimasi come impietrita per un minuto buono. Non riuscivo a dare un senso a ciò che mi stava davanti. A cinquantatré anni suonati non avevo mai visto niente di così totalmente fuori dell’esperienza umana come quell’impronta. I miei occhi erano fissi su qualcosa d’inspiegabile. Il cervello lavorava per stare dietro agli occhi. Ero fuori di me? Forse. Qualcuno si era intrufolato in casa per farci uno scherzo? Improbabile.
Io e Tanner avremmo visto o sentito, se ci fosse stato qualcuno, dato che le porte sul giardino erano aperte. E poi, com’era possibile che l’impronta di una mano umana possedesse la trasparenza di una radiografia? Piano piano mi ripresi e riuscii a chiamare: «Tanner, vieni qui, fai presto! Corri!».
«Mamma, che c’è? Va tutto bene?»
«Guarda!» esclamai. «Non sei stato tu, vero?» In quel momento sentii che c’era qualcosa d’isterico nella mia reazione. Ancora non avevo terminato di pronunciare la domanda e già mi rendevo conto che non poteva essere stato lui, perché era rimasto seduto accanto a me per tutto il tempo, per tutta quell’ora che era trascorsa dopo che ero stata in bagno. Giusto per essere ancora più sicura, chiesi a Tanner di sollevare la destra mettendola vicino all’impronta, per confrontarla. Capii che era assurdo pensare fosse stato lui a lasciarla. La mano sullo specchio era molto più grande della sua ed era diversa anche nella forma.
La fissammo entrambi, ammutoliti e disorientati. Lentamente distogliemmo lo sguardo e lo rivolgemmo l’uno verso l’altra. Ci guardammo. Sapevamo di assistere a qualcosa di sbalorditivo ed eravamo un po’ spaventati. Era tutto così strano; non avevamo idea di cosa stesse accadendo. Le nostre menti non riuscivano a comprendere ciò che ci dicevano i nostri occhi.
«Mamma, non capisco, ma che cos’è?» chiese Tanner accennando allo specchio.
Prima di rispondere cercai di riflettere con la massima attenzione. Reagire con una scenata non sarebbe servito a nessuno. Intervenne il mio istinto materno e decisi che dovevo calmarmi. Volevo sembrargli tranquilla ed essergli d’esempio. Avevo imparato che spesso i bambini e i ragazzi ci comprendono più chiaramente di quanto noi stessi crediamo e una reazione eccessiva non avrebbe aiutato né lui né me. Ma sapevo anche di dover essere sincera e fingere che non fosse una cosa straordinaria sarebbe stato disonesto.
«Non sono sicura di sapere cos’è, Tanner.»
Poi azzardai una domanda: «Secondo te ha qualcosa a che fare con Max, visto che oggi è il primo anniversario...?». Sapevo che voleva bene a Max e che perciò la domanda non l’avrebbe spaventato. Sapevo anche che da quando Max era morto avevamo già assistito a eventi strani, ma niente era stato neppure lontanamente paragonabile alla natura sconvolgente di quell’impronta.
«Forse, ma è proprio stranissimo. E come avrà fatto, se non c’è più?» chiese Tanner.
Naturalmente non avevo nessuna risposta, ma capivo bene che dovevo restare calma e sicura, arginando l’emozione. «Direi che per ora non lo sappiamo, Tanner. Perché non fai una pausa e non esci a fare due tiri a basket?»
«Va bene, mamma, però chiamami se hai bisogno» rispose con l’aria di un adulto.
Lo abbracciai dicendogli che l’avrei raggiunto fuori dopo qualche minuto. Presi la macchina fotografica e scattai diverse foto. Non sapevo cosa fosse quell’impronta, ma capivo bene che bisognava documentarla. Avrei dovuto fare di più, magari prendere un campione della sostanza per farla analizzare o richiedere un esame delle impronte digitali. Ma ero così sconvolta che proprio non mi venne in mente niente.
Ciò che naturalmente mi colpì fu la circostanza: l’impronta era apparsa proprio nell’anniversario della morte di Max e questo m’induceva a domandarmi se fosse lui che stesse cercando di comunicare con me. Ricordavo benissimo le sue mani. Il grande palmo sullo specchio, con le dita lunghe e strette, era proprio l’immagine del suo.
Non avevo spiegazioni per il fenomeno, che di certo non s’inseriva nella scia delle tradizioni che mi erano state trasmesse sin da bambina. All’epoca mio padre, che era un pastore presbiteriano di grande fede, aveva un forte ascendente su di me. Ma come capita a molti, crescendo ero cambiata. La fede ormai non aveva un ruolo tanto centrale nella mia vita quotidiana, perciò non avevo una risposta chiara per spiegare il rapporto che quell’impronta poteva avere con il paradiso o la vita nell’aldilà. L’unica cosa che sapevo era che stavo facendo esperienza di una dimensione del tutto altra. Ero confusa e sconcertata da quel mistero.
Mi venne da chiedermi se poteva trattarsi di un evento paranormale. Un fantasma? Max era morto in casa: forse una parte di lui era rimasta? Mi stava facendo visita per dirmi che lui c’era ancora? Aveva trovato un modo, che aveva a dir poco del miracoloso, per mettersi in contatto con me? Ero sempre stata aperta al nuovo e volevo continuare a esserlo, anche in quel momento. Ma ero anche spaventata. Varcare la soglia dell’ignoto faceva paura.
Da un punto di vista pratico non avevo il tempo per lasciarmi distrarre o impaurire. Perciò misi da parte l’accaduto, ripromettendomi di rifletterci meglio quando ne avessi avuto la possibilità. Dopotutto avevo un figlio da crescere e un lavoro di cui occuparmi. Ero impegnata a superare il dolore del lutto. La morte di Max mi aveva stravolto la vita e non potevo far altro che continuare a tenermi salda nei miei ruoli di madre e dirigente di un’impresa editoriale, che amavo entrambi, perché mi appagavano. Riuscire era imprescindibile. Non potevo permettermi cedimenti.
Nell’accantonare l’evento ebbe un peso anche la mia educazione. Mio padre, essendo pastore, era una figura importante nella comunità e a noi bambini aveva insegnato che la nostra condotta non rappresentava solo noi stessi, ma anche la nostra famiglia e, per estensione, la sua immagine pubblica. Ci si aspettava che ci comportassimo di conseguenza e non oltrepassassimo i limiti dettati dalle convenzioni. Questa regola mi aveva accompagnata anche da adulta.
Divenuta publisher e presidente di “The Sacramento Bee”, quotidiano della città capitale dello Stato della California, ero io stessa una figura pubblica. Il nostro giornale era influente non solo a livello locale, ma anche statale e federale, ed era il fiore all’occhiello della McClatchy Company. Quando mi avevano assunta, ricordo che un dirigente della McClatchy mi aveva domandato se l’attenzione pubblica mi facesse sentire a disagio. Fu solo quando ebbi preso dimestichezza con il lavoro che compresi il senso di quella domanda. Era scontato che la mia vita venisse passata al setaccio e io non avevo alcuna intenzione d’incoraggiare le critiche che sarebbero state causate dalla rivelazione di un evento così strano. Perciò me lo tenni per me.
Non sapendo cosa fare dell’impronta che avevo scoperto, mi limitai a lasciarla sullo specchio, fino a mercoledì, quando Helen Dennis, la mia collaboratrice domestica, come al solito venne a fare le pulizie. Helen era stata vicina a Max e ci aveva dato un grandissimo aiuto, quando lui faceva le terapie. Ci fidavamo di lei e la consideravamo parte della famiglia. Aveva usato la massima discrezione sulla malattia di Max, proteggendo la nostra privacy. Prima di andare al lavoro l’accompagnai in bagno per mostrarle l’impronta. Ero curiosa di vedere come avrebbe reagito. Osservando lo specchio, si mostrò stupita, ma calma. Ci chiedemmo se, visto il legame con l’anniversario della scomparsa, non fosse un segnale da parte di Max. Dopo qualche minuto mi resi conto che proprio dovevo andare, perciò le dissi che poteva pulire lo specchio. Non vedevo ragione di tenerlo ancora così. Più tardi Helen mi raccontò che con il detergente per i vetri era riuscita a rimuovere l’impronta, ma aveva dovuto strofinare parecchio.
E così la vita andò avanti. Nonostante la mia determinazione, tuttavia, non riuscivo a smettere di pensare al curioso mistero che avevo scoperto sullo specchio del bagno. Era un’immagine potente, che mi aveva lasciato un segno indelebile nella mente.
Mio padre ha avuto un ascendente immenso su di me, assolutamente decisivo. È stato un uomo straordinario, un self-made man sotto ogni punto di vista.
Sua madre si chiamava Agnes Olson – il suo cognome prima di sposarsi era Anderson – ed era nata il 16 aprile 1884 nella contea svedese della Scania. Il giorno prima del suo dodicesimo compleanno s’imbarcò tutta sola per l’America, salpando da Göteborg, con un biglietto che le aveva comprato sua madre. La nostra storia familiare non chiarisce perché Agnes fosse partita per l’America, ma noi riteniamo che l’avesse fatto per trovare migliori opportunità economiche, come spesso era accaduto a tanti giovani svedesi immigrati negli Stati Uniti nel corso dell’Ottocento. Agnes, tuttavia, era eccezionalmente giovane per andare così lontano da sola, nelle terribili condizioni di un viaggio per nave in terza classe. Appena arrivata a New York, andò a vivere a Brooklyn da una zia. Per mantenersi faceva le pulizie nelle case della gente, ma riusciva anche a spedire dei soldi alla famiglia.
A sedici anni fece ritorno in Svezia e poi, a diciotto, s’imbarcò nuovamente – da sola – alla volta dell’America. Dieci anni più tardi rientrava ancora in Svezia e di lì a poco, nel gennaio 1912, sposava Axel Wilhelm Olson.
Axel, soldato della cavalleria svedese, ricevette in pagamento del suo servizio un appezzamento di terra in America. La coppia allora decise di cominciare la sua nuova vita matrimoniale a Ong, nel Nebraska, dove vivevano altri svedesi. A corto di soldi e di risorse, acquistarono i biglietti di terza classe per imbarcarsi su una nave che salpava dall’Inghilterra. Le condizioni del viaggio dalla Svezia al porto inglese di Southampton erano difficili e capitò che Axel e Agnes arrivassero tardi, quando la nave era già partita. Il nome del transatlantico era Titanic.
Quando finalmente nonno Axel e nonna Agnes giunsero nella contea di Clay, in Nebraska, la prateria era ancora abitata dai bisonti, dai lupi, dai bufali. L’esploratore John Frémont aveva perlustrato la zona in cerca di una via più breve per il West e i primi coloni erano arrivati nel 1857. Axel e Agnes crebbero i loro figli in quelle terre aspre, dove la vita era dura. A metà degli anni Trenta, fra la Grande Depressione e la siccità del cosiddetto Dust Bowl, solo i più caparbi resistevano. Il nonno si guadagnava da vivere facendo il falegname, mentre la nonna badava a sei figli.
Per loro, che avevano una grande fede in Dio, l’istruzione era la chiave della nuova vita in America, il paese delle opportunità. Tutti i figli arrivarono alla laurea. Il fatto che la famiglia desse tanta importanza alla fede e all’istruzione senza dubbio influenzò mio padre, che si convinse, come raccontava, di avere la vocazione per diventare ministro di Dio. Dopo avere sposato mia madre ed essersi laureato, nel 1946 si specializzò allo Union Theological Seminary di New York.
Parlava spesso di quei tempi e diceva di aver goduto di un privilegio, perché aveva potuto studiare con alcuni dei più grandi teologi dell’epoca. Tra i suoi insegnanti c’erano Reinhold Niebuhr e Paul Tillich, mentre Henry Sloane Coffin era rettore emerito del seminario. Papà andava fiero della sua formazione e non smise mai di amare la teologia, né di essere un uomo profondamente religioso.
Quello che so del paradiso l’ho imparato da mio padre e dalla nostra Chiesa. Il credo presbiteriano che mi è stato trasmesso dice che, quando si muore, l’anima si ricongiunge con Dio. Non solo il catechismo, i sermoni e le letture, ma anche molte conversazioni con mio padre hanno contribuito a formare la mia idea del paradiso o dell’aldilà. C’è un episodio, in particolare, che mi è rimasto impresso nella memoria. Doveva essere il 1960, più o meno, io avevo nove o dieci anni. Ero a passeggio con papà per le strade di Hamilton, dove abitavamo allora, una cittadina di settantacinquemila abitanti nei pressi di Cincinnati, nell’Ohio meridionale. Ci trovavamo in una stradina laterale dalle parti della chiesa presbiteriana di Front Street, nella quale lui era pastore. Può darsi che stessimo andando a catechismo o alle prove del coro. Ricordo benissimo di avergli toccato la mano, chiedendogli di fermarsi e di chinarsi a parlare con me. Avevo una domanda da fargli. Sì, il paradiso esisteva, ma dove si trovava? Mi recitò un passo de...