Dictator
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Dictator

  1. 408 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Dictator

Informazioni su questo libro

C'era stato un tempo in cui Cicerone teneva in pugno Giulio Cesare. Ma ora è quest'ultimo ad avere il comando e Cicerone, il più grande oratore dell'Impero romano, è un uomo distrutto.

Destituito da ogni potere, privato di tutti i suoi beni, separato dalla moglie e dai figli, si trova in esilio con il fidato segretario Tirone, tormentato dalla consapevolezza di aver sacrificato il potere per salvaguardare i suoi principi.

Ma quando tutto sembra perduto, Cicerone decide coraggiosamente di far ritorno a Roma e per un breve e glorioso periodo riconquista il Senato, tornando a essere la figura politica dominante. Ma nessun uomo di Stato, per quanto abile e scaltro, può proteggersi dall'ambizione e dalla corruzione degli altri.

Impetuoso e coinvolgente, Dictator è il terzo e ultimo romanzo della trilogia dedicata da Robert Harris alla figura di Cicerone, dopo Imperium e Conspirata, e abbraccia alcuni degli eventi più epici della storia dell'umanità, dalla caduta di Roma all'assassinio di Pompeo e di Giulio Cesare.

Con quest'opera formidabile l'autore ci regala anche il ritratto intimo di un uomo acuto e geniale, un eroe moderno, così come di grande attualità è l'interrogativo che egli ci pone: come si può salvaguardare la libertà politica dal pericolo dell'ambizione personale, degli interessi finanziari di pochi e dalla corruzione?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804614951
eBook ISBN
9788852068515
Argomento
Literatura
Parte prima

ESILIO

(58-47 a.C.)
Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi ea memoria rerum veterum cum superiorum aetate contexitur?
(“Ignorare tutto quello che accadde prima che tu nascessi equivale a essere sempre fanciullo. Cos’è infatti la vita di un uomo se non la si riallaccia con quella degli antenati attraverso la memoria storica?”)
CICERONE, Orator, 46 a.C.

1

Ripenso ai suoni lamentosi dei corni di guerra di Cesare che ci inseguivano nei campi bui del Lazio – struggenti urla funeree, versi di animali in calore – e a come, quando quei gemiti finalmente cessarono, rimase soltanto il trepestio dei calzari sulla strada ghiacciata e l’ansimare frenetico del nostro respiro.
Agli dèi immortali non bastava che Cicerone fosse insultato e trattato con disprezzo dai suoi concittadini e che venisse allontanato dai focolari e dagli altari della sua famiglia; non bastava neppure che, mentre fuggivamo da Roma, dovesse guardare dietro di sé e vedere la sua casa in fiamme. A tutti questi tormenti i numi immortali ritennero necessario aggiungere un tocco finale: Cicerone doveva essere costretto ad ascoltare l’esercito del suo nemico levare le tende dal Campo Marzio.
Anche se era il più vecchio del gruppo, Cicerone manteneva lo stesso passo veloce di tutti noi. Non molto tempo prima aveva avuto la vita di Cesare nelle sue mani. Avrebbe potuto schiacciarlo facilmente, come un uovo. Ma ora le fortune dei due si erano completamente rovesciate e, mentre Cicerone scappava verso sud per sfuggire ai suoi nemici, il fautore della sua caduta marciava in direzione nord per assumere il comando delle province della Gallia.
Cicerone procedeva a testa bassa, senza dire una parola, e io immaginai che fosse troppo abbattuto per parlare. Solo all’alba, quando ci fermammo a Bovillae per prendere i cavalli e stavamo per iniziare la seconda fase della nostra fuga, si bloccò all’improvviso con il piede già sul predellino del suo carro.
«Tu pensi che dovremmo tornare indietro?»
La domanda mi colse di sorpresa. «Non so» risposi. «Non ci ho riflettuto.»
«Be’, riflettici adesso. Secondo te, perché stiamo fuggendo da Roma?»
«A causa di Clodio e della sua marmaglia.»
«E perché Clodio è così potente?»
«Perché è un tribuno, e può far approvare delle leggi contro di te.»
«E chi ha fatto in modo che diventasse un tribuno?»
Esitai. «Cesare.»
«Esatto. Tu credi che la partenza di Cesare per la Gallia proprio a quell’ora sia stata una coincidenza? Certo che no! Prima di ordinare al suo esercito di muoversi, ha aspettato che i suoi informatori gli riferissero che avevo lasciato la città. Perché? Ho sempre pensato che le sue macchinazioni per promuovere Clodio fossero un modo di punirmi per aver parlato contro di lui. E se invece fosse stato tutto un piano per allontanarmi da Roma? Ma quale progetto gli impone di essere assolutamente certo che io me ne sia andato prima di andarsene a sua volta?»
Avrei dovuto afferrare la logica di quello che stava dicendo e sollecitarlo a tornare a Roma. Ma ero troppo esausto per ragionare con lucidità... e c’era dell’altro, se devo essere sincero: avevo troppa paura di ciò che i tagliagole di Clodio avrebbero potuto farci, se ci avessero sorpresi mentre rientravamo in città.
Così dissi invece: «È una buona domanda e non posso pretendere di avere la risposta. Ma non daresti un’impressione di indecisione se, dopo avere detto addio a tutti, ricomparissi all’improvviso? E in ogni caso Clodio ormai ha bruciato la tua casa: dove ritorneremmo? Chi ci accoglierebbe? Io credo che sarebbe più saggio attenerci al tuo piano originale e restare alla larga da Roma».
Cicerone appoggiò la testa contro la fiancata del carro e chiuse gli occhi. Nella pallida luce del mattino, rimasi stupefatto nel constatare quanto smarrito sembrasse dopo una notte all’addiaccio. Erano settimane che non si radeva né si tagliava i capelli; la sua toga era nera in segno di lutto. Nonostante avesse appena quarantanove anni, il suo aspetto era quello di un uomo molto più vecchio: assomigliava a un pio, anziano mendicante. Dopo un po’ disse: «Non so, Tirone. Forse hai ragione tu. Non dormo da così tanto tempo e sono talmente stanco che non riesco più a pensare».
E così, più per indecisione che per vera scelta, fu commesso l’errore fatale e proseguimmo verso sud per il resto di quella giornata e per i dodici giorni successivi, mettendo quella che ritenevamo essere una distanza di sicurezza tra noi e il pericolo. Viaggiavamo con un seguito minimo per evitare di attirare l’attenzione: solo il conducente e tre schiavi armati a cavallo, uno davanti e due dietro. Sotto il sedile avevamo nascosto il piccolo forziere di monete d’oro e d’argento che Attico, il più vecchio e caro amico di Cicerone, ci aveva fornito per le spese del viaggio. Alloggiammo solo in case di amici – mai più di una notte in ognuna – ed evitammo i luoghi in cui ci si poteva aspettare che Cicerone si fermasse, per esempio la sua villa al mare di Formiae, il primo posto in cui qualsiasi inseguitore lo avrebbe cercato, e la baia di Napoli, le cui sorgenti calde stavano già cominciando ad affollarsi a causa dell’esodo da Roma alla ricerca di una vacanza invernale. Puntammo invece il più velocemente possibile verso la punta estrema dell’Italia.
Il piano di Cicerone, concepito mentre eravamo in viaggio, consisteva nel raggiungere la Sicilia e restarci fino a quando l’ostilità politica nei suoi confronti non si fosse calmata. “Alla fine la folla si rivolterà contro Clodio” aveva sentenziato “perché questa è la natura delle folle. Sarà sempre mio mortale nemico, ma non sarà per sempre un tribuno, non dimentichiamolo. Tra nove mesi scadrà il mandato della sua carica e noi potremo ritornare.” Contava su un’accoglienza amichevole da parte dei siciliani, non fosse stato altro che per l’accusa che aveva sostenuto con successo nel processo contro il tirannico governatore dell’isola, Verre, anche se quella brillante vittoria risaliva ormai a dodici anni prima, e più di recente Clodio era stato magistrato nella provincia. Io avevo inviato in anticipo alcune lettere annunciando l’intenzione di Cicerone di cercare asilo e, quando arrivammo nel porto di Regium, noleggiammo una piccola imbarcazione a sei remi perché ci traghettasse attraverso lo stretto fino a Messina.
Lasciammo il porto in una chiara e fredda mattina. Il cielo e il mare erano di un azzurro intenso, il primo più chiaro, il secondo più scuro; la linea che li divideva era affilata come una lama, la distanza di appena tre miglia. La traversata durò meno di un’ora. Arrivammo così vicini a Messina da riuscire a vedere i sostenitori di Cicerone allineati sulla scogliera per dargli il benvenuto. Ma posizionata tra noi e l’ingresso al porto c’era una nave da guerra con il vessillo rosso e verde del governatore della Sicilia, Gaio Virgilio; mentre ci avvicinavamo al faro, la nave tolse l’ancora e avanzò lentamente per intercettarci. Virgilio comparve al parapetto circondato dai suoi littori e gridò un saluto, al quale Cicerone rispose in termini amichevoli. I due si erano frequentati per molti anni in Senato.
Poi Virgilio chiese a Cicerone quali fossero le sue intenzioni.
Cicerone gli rispose che naturalmente intendeva sbarcare.
«È quello che avevo sentito dire» disse Virgilio. «Purtroppo non posso permetterlo.»
«Perché no?»
«A causa della nuova legge di Clodio.»
«E quale sarebbe? Ormai ce ne sono così tante che se ne perde il conto!»
Virgilio fece un cenno a uno dei suoi uomini, il quale estrasse un documento e si sporse in avanti per passarmelo. Si trattava di una distanza notevole: dovetti tendermi sulla punta dei piedi per afferrarlo, poi lo consegnai a Cicerone. Ancora oggi ricordo come quel foglio gli svolazzasse tra le mani nella brezza leggera, quasi fosse stato una cosa viva, producendo l’unico suono che si sentiva nel silenzio. Cicerone lesse con calma e, quando finì, mi passò il documento senza fare commenti.
Lex Clodia in Ciceronem
Poiché Marco Tullio Cicerone ha mandato a morte cittadini romani senza processo e senza condanna e che a tale fine ha falsificato l’autorità e il decreto del Senato, si ordina: che egli subisca la privazione dell’acqua e del fuoco fino a una distanza di quattrocento miglia da Roma; che nessuno osi offrirgli asilo o accoglierlo, pena la morte; che tutte le sue proprietà e i suoi beni vengano confiscati; che la sua casa a Roma sia demolita e al suo posto venga consacrato un tempio alla Libertà; e che chiunque agisca, parli, faccia voti o compia qualsiasi passo perché egli ritorni sia trattato come nemico pubblico, a meno che coloro che Cicerone ha illegalmente messo a morte non vengano prima riportati in vita.
Per Cicerone doveva essere stato un colpo terribile. Ma trovò la forza di liquidare la cosa con un gesto noncurante della mano. «Quando è stata resa pubblica questa sciocchezza?» domandò.
«Mi è stato detto che il documento è stato esposto a Roma otto giorni fa. Nelle mie mani è arrivato ieri.»
«Bene, allora non è ancora legge e non potrà esserlo finché non sarà stato letto per la terza volta. Il mio segretario te lo confermerà. Tirone» aggiunse, rivolgendosi a me «di’ al governatore la data più vicina in cui quel documento potrà essere approvato.»
Cercai di calcolare. Prima che una proposta di legge potesse essere messa ai voti doveva essere letta ad alta voce nel Foro per tre successivi giorni di mercato. Ma la mia mente era ancora in subbuglio a causa di ciò che avevo appena letto: non riuscivo nemmeno a ricordare quale giorno della settimana fosse, figurarsi quando sarebbero stati i giorni di mercato. «Venti giorni da oggi» azzardai. «Forse venticinque?»
«Vedi?» gridò Cicerone. «Ho tre settimane di grazia, anche nel caso in cui la proposta dovesse passare, cosa che sono sicuro non succederà.» In piedi sulla prua, cercando di mantenere l’equilibrio nel dondolio dell’imbarcazione, spalancò le braccia in un gesto di appello. «Ti prego, mio caro Virgilio, in nome della nostra antica amicizia: visto che arrivo da tanto lontano, consentimi almeno di sbarcare e di passare un paio di notti con i miei sostenitori.»
«No. Come ho già detto, mi dispiace, ma non posso correre il rischio. Ho consultato i miei esperti legali: anche se tu raggiungessi l’estrema punta occidentale dell’isola, Lilybaeum, saresti ancora entro un raggio di trecentocinquanta miglia da Roma. E Clodio se la prenderebbe con me.»
A quel punto Cicerone smise di essere così amichevole. In tono gelido disse: «In base alla legge, tu non hai alcun diritto di ostacolare il viaggio di un cittadino romano».
«Io ho ogni diritto di salvaguardare la tranquillità della mia provincia. E qui, come sai, la mia parola è la legge...»
Virgilio era dispiaciuto, addirittura imbarazzato oserei dire. Ma fu irremovibile e, dopo qualche altro rabbioso scambio di battute, non ci rimase altro da fare che invertire la rotta e tornare a Reggio. La nostra partenza suscitò un grido di costernazione a riva, quasi fossimo stati uomini già condannati, e mi accorsi che, per la prima volta, Cicerone era seriamente preoccupato. Virgilio era suo amico. E se quella era la reazione di un amico, allora ben presto l’Italia intera sarebbe stata contro di lui. L’idea di rientrare a Roma per opporsi alla legge era eccessivamente rischiosa. Cicerone aveva lasciato la città troppo tardi. A parte i pericoli fisici che un viaggio del genere avrebbe comportato, era quasi certo che la proposta di legge sarebbe passata e a quel punto ci saremmo ritrovati bloccati a quattrocento miglia dal limite legale prescritto. Per rispettare in sicurezza i termini dell’esilio, Cicerone avrebbe dovuto fuggire immediatamente all’estero. Ovviamente la Gallia era fuori questione a causa di Cesare, quindi doveva essere un qualche luogo a est: la Grecia magari, o l’Asia. Ma purtroppo ci trovavamo sul lato sbagliato della penisola per poter fuggire attraversando gli insidiosi mari invernali. Dovevamo raggiungere la costa opposta, arrivare a Brundisium, sull’Adriatico, e trovare una grossa nave in grado di affrontare un lungo viaggio. La nostra situazione era decisamente orribile... senza dubbio come Cesare, l’ideatore e primo promotore di Clodio tribuno, aveva inteso che fosse.
Impiegammo due faticose settimane per superare le montagne, spesso sotto piogge scroscianti e perlopiù su pessime strade. Ogni miglio sembrava gravato dal rischio di un’imboscata, anche se i villaggi primitivi che attraversammo si dimostrarono abbastanza accoglienti. La notte dormivamo in locande gelide e fumose e cenavamo con pane duro e carne grassa che il vino acido non rendeva certo più gradevoli al palato. L’umore di Cicerone oscillava tra la rabbia e la disperazione. Ora si rendeva conto con chiarezza di avere commesso un terribile errore andandosene da Roma. Era stata una pazzia abbandonare la città e lasciare Clodio libero di diffondere la calunnia secondo la quale lui, Cicerone, aveva mandato a morte cittadini “senza processo e senza condanna”, quando in realtà a ogni prigioniero era stato concesso di parlare in propria difesa e la sentenza era stata ratificata dall’intero Senato. La fuga equivaleva a un’ammissione di colpa. Cicerone avrebbe dovuto seguire il suo istinto e tornare indietro quando aveva sentito le trombe di Cesare annunciare la partenza. Pianse per il disastro che la sua follia e i suoi timori avevano causato alla moglie e ai figli.
E quando ebbe finito di fustigare se stesso per la propria debolezza, rivolse la frusta contro Ortensio “e il resto di quella banda di aristocratici” che non gli avevano mai perdonato di essere arrivato fino alla carica di console, date le sue umili origini, e di avere salvato la Repubblica: l’avevano deliberatamente spinto a fuggire proprio allo scopo di rovinarlo. Avrebbe dovuto seguire l’esempio di Socrate, che considerava la morte preferibile all’esilio. Sì, doveva suicidarsi! Afferrò di colpo un coltello dal tavolo della cena. Si sarebbe ucciso! Io non dissi nulla. Non prendevo seriamente quella minaccia. Cicerone non sopportava la vista del sangue altrui, figurarsi quella del proprio. Per tutta la vita aveva cercato di evitare spedizioni militari, giochi, pubbliche esecuzioni, funerali... qualsiasi cosa potesse ricordargli l’umana mortalità. Se il dolore lo spaventava, la morte lo terrorizzava, il che, anche se non sarei mai stato così impertinente da farglielo notare, era proprio il motivo che ci aveva spinti a fuggire da Roma.
Quando finalmente arrivammo in vista delle mura fortificate di Brundisium, Cicerone decise di non avventurarsi all’interno della città. Il porto era così vasto e trafficato, così pieno di stranieri e così prevedibile come sua destinazione che era convinto fosse il posto più ovvio per assassinarlo. Cercammo quindi rifugio un po’ più su lungo la costa, nella residenza del suo vecchio amico Marco Lenio Flacco. Quella notte dormimmo in letti decenti per la prima volta dopo tre settimane e la mattina seguente scendemmo in spiaggia. Le onde erano decisamente più alte di quelle della costa siciliana. Un forte vento scagliava incessantemente l’Adriatico contro le rocce e i ciottoli. Cicerone detestava i viaggi per mare anche nel migliore dei momenti, e quel viaggio prometteva di essere particolarmente pericoloso. Tuttavia era la nostra unica via di fuga. Centoventi miglia oltre l’orizzonte c’era la costa dell’Illiria.
Notando la sua espressione, Flacco disse: «Fortifica il tuo spirito, Cicerone: forse la proposta di legge non passerà, oppure l’uno o l’altro dei tribuni porrà il veto. A Roma deve pur essere rimasto qualcuno disposto a schierarsi al tuo fianco... Pompeo sicuramente, no?».
Ma Cicerone, lo sguardo ancora fisso al largo, non rispose e, pochi giorni più tardi, venimmo a sapere che la propo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. DICTATOR
  4. NOTA DELL’AUTORE
  5. Parte prima. ESILIO (58-47 a.C.)
  6. Parte seconda. IL RITORNO (47-43 a.C.)
  7. GLOSSARIO
  8. DRAMATIS PERSONAE
  9. RINGRAZIAMENTI
  10. Copyright