La felicità lo salvò dalla gelosia, ma non si può dire che lo arricchisse di salute. La sua vita divenne più attiva, veloce, asciutta, e le docce fredde più frequenti. Egli appariva veramente forte, ma la paura di rimanere privo di forze non lo lasciava un solo momento durante la giornata, e talvolta diventava maniaca.
«Non ho mai fatto un esercizio, nella mia vita!» disse un giorno a Ninetta, guardando verso il proprio passato. «Ho avuto un’adolescenza da vera bestia!… Puah!… Sarei stato un altro, se avessi praticato un po’ di ginnastica a quindici anni!»
«Puoi farla adesso!» mormorò distratta la moglie.
«Ora è tardi!»
«Non è mai tardi per queste cose!»
“Forse ha ragione!” pensò Giovanni; e dal domani, ogni mattina, eseguì alcuni esercizi sugli appoggi e le parallele, ed altri, da camera, consistenti nell’aprire e chiudere la bocca e camminare sulle punte dei piedi. In seguito a ciò, le sue mandibole presero un risalto violento e i pettorali gli sforzarono la giacca. Però cominciava a soffrire di disturbi alla vista, e, in quel suo viso da lottatore, gli occhi erravano appannati e come desiderosi di aiuto.
Sicuramente per maligna istigazione della moglie, Luisi gli fece, una sera, un maligno regalo. «Vi ho portato un libro molto interessante» gli disse porgendogli un volume involtato accuratamente. «Non parlatene però a vostra moglie!» aggiunse a voce bassa.
Giovanni fece un buco con l’unghia nel mezzo dell’involto, e lesse, arrossendo come un bambino: Amplexus interruptus (Effetti deleteri alla salute con particolare riguardo all’organo della vista).
Quella sera stessa, però, il caso diede l’opportuna risposta alla cattiveria di Luisi e della moglie. Mentre stava seduta in una poltrona, Ninetta divenne bianca come un giglio al lume di luna, e rovesciò indietro la testa.
«Che succede, Madonna Santa?» esclamò la signora Luisi, sostenendo quella testa perfetta, la cui bellezza, raddoppiata dal malessere, rendeva di sasso Giovanni sì da impedirgli di muoversi e porgere un po’ di aiuto.
Ninetta riaprì gli occhi, e disse due parole nell’orecchio dell’amica: «Oh!» fece costei, e guardò Giovanni con un sorriso; poi guardò gli altri, e anche gli altri capirono, e guardarono Giovanni. I “bene” e “bravo” scoppiarono da tutte le parti, verso di lui, e i complimenti, specie delle signore, furono tanti e tali che riuscirono a strappargli una frase priva di senso, ricordando la quale non dormì per tutta la notte: «Che c’entro io? È lei che!…».
L’indomani, mentre stava nel solito angolo del balcone, di là dalle tende, fu raggiunto dalla signora Valenti:
«Adesso lascerete in pace vostra moglie!» disse costei, dopo mille esitazioni e frasi monche: «Siamo uomini, creature ragionevoli!…».
Che voleva dire? Giovanni si voltò verso la signora, e le scoprì negli occhi un’umiltà e una furia mescolate insieme in un fremito che pareva dicesse: “Quanto ai vostri sensi, poiché nella vita c’è anche questa parte dolorosa e bassa, pazienza, me ne incarico io!”.
Del resto, non solo lei, ma tutte indistintamente le signore sue amiche cominciarono a fargli capire che la povera Ninetta… no, badiamo!… correttezza!… egli, insomma avrebbe dovuto aver bisogno che l’amicizia di una di loro divenisse più stretta e confidente!
Si tornarono a parare davanti a Giovanni le tovaglie rischiarate dalla lampada gialla, le camere di albergo col lavamano di coccio, le macchine ferme nelle strade di campagna, i viali solitari. «No, no, e no!» rispondeva egli a tutte queste immagini, di cui nemmeno una era improntata a felicità.
Le signore, per di più, erano così poco accorte da iniziare i loro tortuosi discorsi con le lodi di Ninetta: «È bellissima, vostra moglie, di questi tempi! La gravidanza le dona!». Giovanni si sentiva fremere di gioia, e, rapito dall’immagine della moglie, non sentiva nemmeno il resto del discorso, pieno di consigli, d’inviti, di moine.
In verità, Ninetta era diventata bellissima. Egli se ne stupiva sempre più: seduto su di un bracciuolo di poltrona, la guardava camminare per il salotto spirando qualcosa di celeste, e si domandava come mai fosse sua moglie.
Spesso, quand’erano soli, rimaneva talmente turbato di aver chiuso la porta, e di trovarsi a quattr’occhi con una donna così bella, che doveva sentirne parecchie volte la voce e lo scoppio del riso per tornare nell’antica confidenza. Poco ci volle che, a furia di ammirarla, non l’amasse di meno. Ma questo fu impedito dal costante pensiero, col quale si incoraggiava come un bambino di notte col proprio canto, che nelle “pure e divine” forme di quella perfetta bellezza, la curva leggera, che sollevava la veste, custodiva l’immagine, ancora scialba come il barlume prima della luce, di suo figlio.
Però, Signore dei cieli, avere la Bellezza in casa non è affare da poco!… Perfette le mani che smuovono gli oggetti, perfetti i piedini che sprofondano nei tappeti, perfetti gli occhi che vi guardano, incantevole la voce che chiama il vostro nome! Non c’è affetto o consuetudine, che di tante e sì terribili cose, per ciascuna delle quali sono impalliditi gli uomini nel corso dei tempi, possa fare una “donna di casa”, una “persona della famiglia”…
L’aveva preso in questo modo, ormai, e non c’era verso di cambiarlo!
Una ragazza, Eleonora Lascasas, cominciò a frequentarli. Era bella; e Ninetta, guardando nel viso di lei come in uno specchio, disse subito: «Ma io ero così, a diciotto anni!». Bastarono queste parole perché Giovanni si mettesse a brontolare, fra sé e con la moglie: «Eh, Eleonora, Eleonora è un’altra cosa!».
La ragazza aggiunse alla qualità di somigliare a Ninetta quella di mostrarsi scontrosa, irritabile, mai ferma e seduta in un posto, ma sempre in fuga come una cerva, quando all’intorno c’erano uomini. Non sopportava né le parole di costoro né i sorrisi, e il contatto troppo prolungato della loro mano sulla propria la riempiva di collera: sbuffando, ella strappava le dita da quelle che la stringevano, e andava a rifugiarsi vicino ai vetri del balcone.
Giovanni la seguiva, con l’occhio torbido di un bue che veda spostarsi un papavero rosso per un campo d’erba. Le pressioni sempre crescenti delle signore acché egli “si decidesse”, i primi malesseri di Ninetta, l’amore furioso per lei, un’inquietudine dei sensi dovuta alla debolezza dei nervi, e il fatto che Eleonora somigliasse all’immagine, scontrosa e inafferrabile, che della donna si aveva a Catania, lo spinsero lentamente verso questa ragazza, con l’aiuto della quale, come per una via meno diretta e più segreta, gli pareva di entrare in una parte assai intima della vita di Ninetta. Eleonora lo avvicinava incredibilmente alla moglie, e, d’altro canto, con la sua collera e repugnanza per gli uomini, non gli dava la paura che le altre solevano dargli: tanto simile alla paura del povero che entri in una sala da gioco.
La loro amicizia fu, in un primo tempo, una congiura contro gli uomini, giudicati odiosi, fastidiosi, insistenti, asfissianti. Poi contro le donne: stupide, fameliche, insistenti, asfissianti. Pareva che il loro amore si librasse nell’aria rada di un terzo sesso; tuttavia, la sera in cui Giovanni baciò Eleonora, la cosa accadde minutamente come al solito.
Due settimane di passeggiate e di brevissimi baci resero felice Giovanni, che, rincasando, non provava alcun rimorso verso Ninetta; anzi, pareva dirle con gli occhi: “So com’eri, a diciannove anni!”.
La sua confidenza nella moglie crebbe fortemente. Fu in questo periodo che, soffrendo di acidità allo stomaco, specie quando sedeva dietro il tavolo, nel negozio di stoffe, osò scrivere a matita: «Cara Ninetta, ti prego di mandarmi col porgitore quattro pastiglie di magnesia bisurata».
Sfortunatamente Eleonora Lascasas, passati i primi giorni, smise d’un tratto di essere scontrosa, e si rivelò più insistente e fervida delle altre. La sua collera contro gli uomini ella la mise tutta nel suo amore per Giovanni che fu stordito di grida, battere di piedi, pianti di stizza, alcuni dei quali gli giungevano fino a casa per mezzo del telefono. Gl’insulti più atroci, che un ragazzo di strada abbia mai detto a un compagno che gli ha pestato il berretto, scoppiavano su quella bocca ancora infantile. Alcuni, Giovanni non li capiva perché erano del dialetto milanese, altri, invece, lo facevano arrossire fino al bianco degli occhi. Allora egli si chiudeva la faccia tra le mani, e mormorava: «Mamma mia, che coltre mi sono buttato addosso!».
Non c’era altra uscita che quella di diventare freddo, indifferente, e ironico. Ed egli la imboccò alla men peggio, sebbene quel dover sempre sorridere con mezza bocca lo riempisse di amaro come una foglia di aloe. Ma insomma, sia fatta la volontà di Dio! Sistemò la sua giornata in modo, che oltre la doccia fredda, la veglia del pomeriggio, il lavoro, la ginnastica svedese, ci fossero anche le grida di Eleonora, i suoi insulti rabbiosi e i suoi baci non meno rabbiosi. Gli occhi gli divennero lucidissimi; cravatte di raso, scelte da Eleonora, e ogni sera sciolte e riannodate da lei spinsero Ninetta a battere le mani.
«Tu sei un altro!» disse ella. «Sei veramente un altro!»
Giovanni si riempiva di un respiro d’orgoglio il petto magro, muscoloso e stanco.
Una sera, Ninetta lo pregò di non respingere una sua preghiera.
«Parla, cara!» disse egli.
«Facciamo una corsa in Sicilia, e torniamo subito!»
Giovanni rimase sopra pensiero: «Lasciami riflettere!».
L’indomani, rifletté continuamente.
Era maggio, e il sole di Milano non riusciva ancora a riscaldare: c’era sempre qualcheduno, nella strada, che si soffiava le mani; e i soprabiti leggeri brillavano ancora in mezzo alla nebbia. Ricordò che, in questi giorni, a Catania, il gatto dorme nei balconi, e non si sveglia nemmeno quando Barbara, innaffiando i fiori, gli fa cadere un po’ d’acqua sulla coda; nelle carrette, sgombre di verdura, dorme al sole, con la testa poggiata sulla sponda, un ragazzo mal vestito, e colui che lo trascina sonnecchia anch’egli trottando fra i passanti dagli abiti scuri rivestiti di luce rosa.
«Andiamo!» disse, la sera, a Ninetta.
«Oh, grazie, caro! Non ti riconosceranno più, vedrai! Sei proprio un altro uomo!»
Due giorni dopo, Ninetta poteva attuare il proposito di riportare quell’“altro uomo” in Sicilia. I due sposi erano saliti in treno.
Ridevano, si afferravano le mani, s’indicavano col dito teso il primo forte raggio di sole che fosse apparso a Milano e che pareva mordere come una fiamma una delle rotaie. Poi il treno si mosse, e i due sposi caddero sui divani l’uno di faccia all’altra, nell’atto di chi si accinge a fare un discorso. Essi cominciarono col parlar male della Sicilia. Che gente! Arabi, tristi, maldicenti, pigri!… Giovanni svelò alla moglie alcuni segreti maschili dei catanesi: «Se ci stai attenta, vedrai che nessuno dei miei amici ti guarderà negli occhi! Han paura di turbarsi, perché tutti credono di avere il sangue caldo!».
«Davvero?» fece Ninetta, ridendo con le lacrime agli occhi.
«Anche i vecchi dicono di soffrire per la donna, vecchi che non hanno la forza di spiccicare i piedi dal pavimento!»
«Oh, Dio mio!» fece Ninetta, divertendosi come mai nella sua vita. «Oh, Dio mio!»
Intanto il raggio di sole era scomparso, la nebbia copriva i campi, e il freddo tornava a pungere. Giovanni, d’un tratto, divenne pensieroso: si sentiva la bocca amara e le spalle stanche come se fosse stato lui a portare i bauli. Si guardò nello specchietto del divano: «Ehi, come sono dimagrito!».
«Stai molto meglio!» disse Ninetta.
«Oh, sì, certo!» fece egli con convinzione, e tornò a sedere poggiando la guancia alla tendina.
«Vuoi coprirti?» disse Ninetta. «Nella valigia, che ti regalò tua sorella, sai cosa ho trovato?»
«Che?»
«Uno scialle! Guarda!»
Ninetta cavò dalla valigia di cuoio, regalata da Rosa, uno scialle di lana.
«A pensare che mia nonna usciva con lo scialle!» disse Giovanni, avvolgendosi le gambe e i fianchi, e ridendo sempre più debolmente a misura che il sonno cresceva.
Dentro quello scialle, l’aria si riscaldò subito, ma Giovanni, dormendo, cominciò a sognare i lunghi pomeriggi d’inverno, a Catania, quando i soffi entrano dalle imposte e ti toccano nei più disparati punti, come birichini dal dito freddo; e tu alzi il bavero o abbassi lo scialle, o calchi il berretto, secondo che il freddo ti colpisca il collo, le spalle o i fianchi; e stropicciando forte le ma...