Arrigoni e il caso di Piazzale Loreto
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Arrigoni e il caso di Piazzale Loreto

Milano, 1952

  1. 180 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Arrigoni e il caso di Piazzale Loreto

Milano, 1952

Informazioni su questo libro

Milano, 1952. In una gelida mattina di dicembre, nei pressi di via Porpora, il corpo di una giovane e bella donna bionda viene ritrovato senza vita all'interno della sua Topolino amaranto. L'autopsia rivela che è stata uccisa da una letale iniezione di cianuro. Non ci vuole molto ad accertare l'identità della donna assassinata, Gilda Dell'Acqua, proprietaria di un bar tabacchi in piazzale Loreto. L'inchiesta viene affidata a Mario Arrigoni, commissario capo del Porta Venezia, e coinvolge il pittoresco mondo dei frequentatori del locale, dalla gemella della vittima a uno zio sfuggente e lascivo, passando per un enigmatico marchese, il gestore di una bisca clandestina e una splendida amica di Gilda dai costumi disinvolti...Gli investigatori si muovono in un contesto intricato dove fanno capolino eccitanti festini, relazioni ambigue, la droga e il gioco d'azzardo. Ma l'indagine non procede di un passo: non emergono moventi attendibili né tantomeno prove, e le piste si dissolvono come neve al sole. Tanto che Arrigoni sembra ormai sul punto di alzare bandiera bianca e chiudere l'indagine con un nulla di fatto, quando, in modo del tutto inaspettato, i giochi si riaprono...Torna, in una versione riveduta e corretta dall'autore, la quarta avventura di Arrigoni e dei suoi agenti del Porta Venezia, i personaggi che hanno saputo far innamorare di sé i lettori e hanno reso Crapanzano uno dei punti di riferimento del noir italiano.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804659877
eBook ISBN
9788852069864

1

Faceva un freddo boia la mattina di domenica 7 dicembre, Sant’Ambrogio. Ciò nonostante, alle otto in punto, il ragionier Spartaco Spezzaferro, lasciato a malincuore il calduccio della sua abitazione in via Sacchini, partiva per la consueta passeggiata in compagnia del fido Volpino. Volpino con la V maiuscola, perché quello non era solo il nome della razza della bestiola, ma anche il suo personale, per una curiosa scelta, al tempo stesso banale e anticonvenzionale, del padrone. Un lungo e pesante cappotto grigio, cappello Borsalino dello stesso colore ben calcato in testa, ampia sciarpa blu e guanti foderati di pelliccia proteggevano il ragioniere dai rigori di un clima quasi polare.
Le passeggiate in compagnia di Volpino erano praticamente l’unico svago che si concedeva: una la mattina prima di recarsi in ufficio e una la sera, in attesa della cena. Per il resto, i suoi piaceri di modesto funzionario di banca e maturo consorte di una altrettanto matura signora consistevano nell’ascolto della radio o nella lettura di qualche romanzo, preferibilmente non troppo impegnativo. Omino dall’aspetto anonimo nonostante il cognome altisonante, prossimo alla sessantina, aspettava con un misto di desiderio e apprensione l’arrivo del momento della pensione, che avrebbe sì comportato una vita più comoda e senza vincoli di orario, ma anche il problema di trovare un modo alternativo per passare il tempo, dilemma di non facile soluzione per una persona assolutamente priva di interessi, e per di più senza figli e nipoti. Ma al giorno fatidico, 22 aprile 1954, mancavano ancora un anno e quattro mesi...
Il lungo giro, mattutino o serale che fosse, seguiva più o meno sempre lo stesso itinerario: lasciata via Sacchini, i due procedevano a zig zag fra le tranquille stradine sulla destra di via Porpora, dedicate a musicisti più o meno famosi, dove palazzi di tre o quattro piani convivevano con villette impreziosite da graziosi giardini.
Prima sosta in piazza Aspromonte, dove Volpino, liberato dal giogo del guinzaglio, scorrazzava in mezzo al verde, mentre il ragioniere si concedeva la prima sigaretta della giornata (sì, almeno questo vizio ce l’aveva!), marca Africa, dal pacchetto riconoscibilissimo per la silhouette di una ragazza di colore (faccetta nera?) disegnata su sfondo giallo carico. Altra fermata obbligatoria in via Vallazze, davanti alla sede della Davide Caremoli, quella che aveva inventato la Golia. Pasticca prodotta sul posto, come provava il caldo effluvio al profumo di liquirizia che fuorusciva dai finestroni aperti dello scantinato, per il piacere del tutto gratuito dei passanti, che ne aspiravano l’aroma a pieni polmoni.
Cane e padrone stavano percorrendo via Frescobaldi quando Volpino diede forti segni di nervosismo, tirando disperatamente guinzaglio e padrone verso il marciapiede di sinistra, dove era parcheggiata una Topolino amaranto. Sarà stato per via del giorno festivo, della fitta nebbia o della temperatura proibitiva, fatto sta che la stradina era completamente deserta, e il ragioniere si domandava seccato il perché di tutto quello strattonare. Tira tira, il cane si fermò abbaiando vicino alla piccola vettura, costringendo il padrone ad avvicinarsi fino a scoprire che, seduta immobile al posto di guida, c’era una giovane donna bionda, avvolta in un cappotto beige. L’uomo prima bussò al vetro, poi, non ottenendo alcuna reazione, aprì la portiera: la ragazza sembrava addormentata ma, alla prima leggera scossa sulla spalla, anziché svegliarsi si afflosciò letteralmente fra i due sedili, spaventando non poco il suo soccorritore. “Qui c’è sotto qualcosa di brutto, questa se non è morta poco ci manca” pensò il ragioniere, mentre Volpino continuava ad agitarsi: il suo istinto animalesco aveva captato anche da lontano che in quell’auto c’era qualcosa che non andava, avvisandone a modo suo il padrone. Questi, preso da encomiabile senso civico, anziché dileguarsi rifugiandosi nel classico “Non sono affari miei, meglio non immischiarsi”, suonò al campanello di una villetta e, informando gli abitanti della situazione, chiese di poter telefonare alla polizia e alla Croce Rossa, restando poi disciplinatamente in attesa del loro arrivo.
Per prima comparve l’ambulanza. Il medico, cercando prudentemente di non spostare il corpo della donna, eseguì un primo controllo e in un minuto emise la sua sentenza: non c’era nulla da fare, polso e cuore non battevano più. Mentre ancora il sanitario stava intorno al cadavere, arrivarono due poliziotti del commissariato Porta Venezia: l’ispettore Giovine e l’agente Di Pasquale, il giovane napoletano prediletto dal commissario capo Mario Arrigoni, che quella mattina era di riposo, come il suo vice Mastrantonio. Quest’ultimo certamente impegnato a godersi il giorno di festa con la piacente signora Marisa, finalmente libera dagli impegni del portierato che l’assorbivano per il resto della settimana. D’altronde, come dargli torto? Quella con la bella portinaia di via Juvara era la sua prima relazione sentimentale, alla tenera età di cinquantaquattro anni!
Raccolta la dichiarazione dello Spezzaferro, dopo uno scambio di idee con il responsabile della Croce Rossa, l’ispettore decise di convocare anche il medico legale e la Scientifica, secondo la prassi richiesta dalla scoperta di un cadavere in condizioni anomale. Nell’attesa del loro arrivo, si rivolse a Di Pasquale:
«Non credo sia il caso di disturbare il commissario capo prima di avere le idee più chiare sull’accaduto. Anche se, per quel che ho potuto vedere, non ho notato sulla ragazza segni o indizi che possano far pensare a chissà cosa...»
In men che non si dica, si materializzarono gli uomini della Scientifica e il medico legale, nella persona del responsabile del servizio, dottor Mariotto, al lavoro nonostante il giorno festivo. Mariotto esaminò attentamente il cadavere e subito dopo comunicò le sue decisioni.
«Ispettore, verificato a mia volta il decesso, la informo ufficialmente che effettueremo l’autopsia, per più di un motivo. Primo, perché è alquanto strano, anche se in teoria possibile, che una ragazza così giovane possa morire per un infarto, e quanto meno la cosa va controllata; secondo, perché potremmo trovare qualche traccia che ci indirizzi verso un’altra ipotesi, anche se apparentemente non si rilevano segni di violenza; terzo, perché prima lo facciamo e prima arriviamo con maggior approssimazione a stabilire l’ora della morte, visto il freddo barbino che ha fatto per tutta la notte» concluse, non rinunciando a una battuta finale sul commissario capo. «E se lo sentite, salutatemi il mio amico Arrigoni: dovrebbe essere qui anche lui al gelo, invece di starsene rintanato in casa con la sua bella mogliettina!»
Partito il medico, Giovine chiese alla Scientifica di poter dare un’occhiata, con le dovute cautele, alla borsetta che giaceva sul sedile posteriore. Rinviando l’analisi approfondita del contenuto a un successivo eventuale controllo in commissariato, l’ispettore trovò una carta d’identità intestata a Gilda Dell’Acqua, nata a Milano il 7 gennaio 1931, abitante in viale Lombardia. La foto sul documento toglieva ogni dubbio: il bel viso sorridente, contornato da lunghi capelli biondi, era quello della defunta. “Un sorriso che nessuno vedrà più dal vivo” pensò Giovine con tristezza, mentre un giovanotto si avvicinava timidamente alla vettura, dove la ragazza stava ancora sdraiata, in attesa della fine del lavoro della Scientifica. Il giovanotto si rivolse ai due agenti, mostrando uno spirito collaborativo non così diffuso nella maggior parte dei cittadini, che meno avevano a che fare con poliziotti e carabinieri più erano contenti.
«Posso disturbarvi? Mi chiamo Adalberto Ambrosioni» si presentò, «io so chi è questa ragazza. È una delle gemelle Dell’Acqua, le proprietarie del caffè Le Gemelle, un bar tabacchi di piazzale Loreto a un centinaio di metri da qui, del quale sono cliente abituale.»
«Gilda Dell’Acqua è infatti il nome scritto sulla carta d’identità che abbiamo trovato nella borsetta» confermò Di Pasquale.
«Sì, lei allora è la Gilda, la riconosco dall’anello con pietra nera che intravedo sul dito della mano sinistra. Per distinguersi, le gemelle, che sono identiche, portano una un anello con pietra nera, la Gilda appunto, e l’altra, che si chiama Violetta, con un rubino.» L’attenzione che gli veniva riservata, con Di Pasquale che addirittura prendeva appunti, gli diede il coraggio di continuare nella sua testimonianza. «Sono orfane e vivono con una vecchia zia, mentre il locale è gestito dallo zio Donato Magnaghi e dalla moglie, la signora Elvira. Le ragazze, pur essendone le proprietarie, si fanno vedere solo di tanto in tanto, per la gioia di noi clienti...», e qui si interruppe rendendosi conto di averla detta forse un po’ grossa, visto il contesto. Passò quindi immediatamente a un’affermazione meno frivola e irriverente: «Ci mancherà molto la Gilda, sempre così allegra e vivace...».
«Grazie per la collaborazione, signor Ambrosioni» lo fermò Giovine, ritenendo non fosse il caso di procedere nella conversazione, in assenza di una vera e propria indagine. L’istinto e l’esperienza gli suggerirono però di non chiudere del tutto il rapporto con un personaggio così loquace e disponibile, in vista di eventuali sviluppi della vicenda. «Ci lasci per cortesia il suo nome, indirizzo e numero di telefono, potremmo avere ancora bisogno di lei.»
I due agenti, congedati il giovanotto e la coppia Spezzaferro/Volpino, ringraziarono i proprietari della villetta e, mentre la Scientifica era ancora al lavoro, si diressero verso un vicino caffè per mandar giù qualcosa di bollente e scambiare due parole al caldo.
«Caro Di Pasquale, mai come in questo caso saranno determinanti gli esiti dell’autopsia. Mi sembra infatti poco credibile che una ventenne muoia d’infarto, per di più mentre la sua vettura è perfettamente parcheggiata in una viuzza nemmeno tanto vicina all’abitazione. Comunque, per il momento il nostro primo e unico compito è quello di informare la famiglia dell’accaduto. Con ogni probabilità, a quest’ora nessuno in casa si è ancora accorto della scomparsa della ragazza. Dirò una bestialità, ma per fortuna i genitori non ci sono più. Comunicare loro la morte di una figlia sarebbe stato ancora più penoso.»
«Se permette, suggerirei di andare direttamente all’abitazione di viale Lombardia. A far circolare la notizia al bar mi sa tanto che prima o poi ci penserà quell’Ambrosioni che abbiamo appena incontrato.»
«D’accordo, Di Pasquale, mi sembra un ottimo suggerimento. Ci limiteremo a dare la brutta notizia, non abbiamo alcun titolo o motivo per metterci a fare chissà quali domande, non essendoci niente su cui indagare, almeno per ora.»
I due raggiunsero lo stabile signorile in viale Lombardia dove vivevano le due gemelle. Furono accolti dalla zia, Ada Dell’Acqua, in un ingresso scarsamente illuminato, il cui arredamento consisteva in un tavolino con sopra l’apparecchio telefonico, un grande specchio finto antico dalla cornice dorata e, posizionato vicino alla porta di quello che si indovinava essere un grande soggiorno, una baroccheggiante pendola a muro.
La zia Ada, una zitella oltre la sessantina, dimessa e insignificante, con indosso una semplice vestaglia marrone, accolse i visitatori con sospettosa diffidenza. Ancora non si era accorta dell’assenza della nipote, assenza che si premurò di controllare pedantemente aprendo la porta della sua stanza e trovandola in effetti vuota, mentre nella sua camera stava ancora dormendo l’altra gemella.
Alla comunicazione della morte di Gilda, la donna reagì sulle prime con un isterico rifiuto: «Non è possibile, controllate meglio, si tratta di sicuro di un errore di persona» balbettava, più per convincere se stessa che i suoi interlocutori. Messa però di fronte agli inequivocabili dati di fatto dovette arrendersi e scoppiò in un pianto dirotto, invano confortata dalle solite parole di circostanza dei due poliziotti.
Quando si fu un po’ calmata, Giovine le spiegò l’iter da seguire per il riconoscimento della salma e la richiesta della stessa per il funerale, che poteva avvenire solo dopo l’autopsia.
«Perché l’autopsia?» riprese la poveretta. «Cosa devono farle ancora alla mia Gilda?!»
Ribadito cortesemente che quelle erano purtroppo le procedure da seguire nella circostanza, e trascritti su un foglietto gli indirizzi e i numeri di telefono da contattare, i due riuscirono a lasciare l’appartamento, senza avere visto l’ignara gemella ancora immersa nel sonno. Proprio mentre stavano uscendo, squillò il telefono. L’inesorabile tam-tam del bar tabacchi cominciava a far sentire la sua voce.
«Non ci si abitua mai a queste situazioni» furono le prime parole dell’ispettore. «Anch’io, che sono vecchio del mestiere, fatico a reggerle. Si fa più il callo alla scoperta di un cadavere che al dolore dei parenti di chi, in un modo o nell’altro, ha lasciato questa valle di lacrime. E adesso possiamo tornarcene in commissariato, quel che dovevamo fare l’abbiamo fatto... penseremo più avanti ad avvisare il capo, ha diritto anche lui di starsene un po’ in pace con la sua famiglia, almeno quando è festa!»

2

Nei giorni di festa, la famiglia Arrigoni se la prendeva molto comoda. Sveglia dopo le otto, lunghe abluzioni e una prima colazione consumata e gustata con la massima calma: due caffè e nient’altro per il commissario, caffellatte con pane per la moglie Lucia e lo stesso, ma con biscotti, per la regina della casa, la dodicenne figlia Claudia.
Il programma della mattina di Sant’Ambrogio era stato deciso la sera prima: messa nella basilica e, a seguire, un’accurata perlustrazione alle bancarelle della fiera degli Oh bèj! Oh bèj!, per finire in gloria con un ricco pranzo casalingo, che prevedeva lasagne al forno e coniglio in umido, preparato secondo la ricetta della nonna, l’ottantenne signora Giulia, vedova Arrigoni.
Usciti di casa intorno alle nove, padre, madre e figlia, ben equipaggiati con i capi e gli accessori caldi e pesanti che il clima richiedeva, si imbarcarono sul tram per raggiungere la basilica. Saliti dalla porta posteriore (le altre due erano abilitate alla sola discesa), acquistarono i tagliandi di viaggio, consistenti in sottili strisce di carta bianca o rossastra, dal bigliettaio che, appollaiato su una specie di trespolo con sedile di legno, li consegnava ai passeggeri riscuotendone il relativo importo in denaro, secondo la tariffa esposta dietro le sue spalle. Per la cronaca, il costo del biglietto era allora di 25 lire, mentre i bambini sotto il metro viaggiavano gratis. A evitare contestazioni, una targhetta in metallo posizionata a un metro di altezza permetteva al bigliettaio di misurare la statura dei candidati all’esenzione dal pagamento.
Scesi dalla vettura, gli Arrigoni ascoltarono la messa, intimiditi di fronte alla grandiosità dell’antico tempio dedicato al patrono della città, della quale era stato eletto vescovo proprio il 7 dicembre, nell’anno 374 dopo Cristo.
A due passi dalla chiesa si snodava la fila delle bancarelle della fiera, che dalla prima sede di piazza Mercanti si era trasferita, alla fine dell’Ottocento, nelle vie intorno a piazza Sant’Ambrogio, dove sarebbe rimasta fino all’ultimo recente trasloco nella zona del Castello Sforzesco.
Nei primi anni Cinquanta, lo spirito della manifestazione non si discostava molto da quello originario: una distesa di banchetti che proponevano soprattutto vestiti e libri usati, vecchi giocattoli, casalinghi e prodotti gastronomici, mentre erano ancora di là da venire gli antiquari e i rigattieri che si sarebbero impadroniti della fiera negli anni Sessanta/Settanta.
La nutrita rappresentanza di venditori di giocattoli spiegava la presenza di una miriade di bambini e ragazzini, che razzolavano eccitati in mezzo alle bancarelle dove erano esposti balocchi di ogni genere. Da questo punto di vista, nessun mercatino reggeva il confronto con gli Oh bèj! Oh bèj!, nemmeno la fiera di Senigallia, la cui vasta offerta di prodotti, curiosità e anticaglie contemplava solo pochissimi esemplari adatti a un pubblico infantile.
Come da tradizione, non mancavano i baracchini dei venditori di castagnaccio e caldarroste, presi d’assalto da grandi e piccini. Appartato, quasi nascosto, esibiva timidamente la sua merce un anziano, solitario venditore di firòn, cioè castagne prima affumicate nel forno, poi intinte generosamente nel vino bianco e infine infilzate in un lungo, sottile pezzo di corda. Nei tempi più antichi, quando ancora la diffusione di caldarroste e castagnaccio era limitata, i firòn erano l’unica proposta alimentare “dolce” della fiera.
La più irrequieta degli Arrigoni era Claudia che, anche se ormai grandicella, si comportava con l’entusiasmo e la fre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Arrigoni e il caso di piazzale Loreto
  4. Nota dell’autore
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  6. 2
  7. 3
  8. 4
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  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. Copyright