
- 192 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Lazarillo de Tormes
Informazioni su questo libro
Nella Spagna del '500, il giovane Lazarillo, prototipo del protagonista del romanzo picaresco, racconta il suo vagabondaggio attraverso il paese, misero e fatiscente, le avventurose peripezie e gli impieghi temporanei che non riescono a cacciare il fantasma della povertà. Una narrazione mobile e affascinante che inaugura un filone di grande successo anche nei secoli successivi.
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Informazioni
Print ISBN
9788804459903eBook ISBN
9788852068249LAZARILLO DE TORMES
Prologo
Credo sia bene che cose tanto degne di nota e forse mai viste né udite vengano fatte conoscere ai più e non rimangano sepolte nella tomba dell’oblio, perché potrebbe darsi che qualcuno, leggendole, ci trovi qualcosa di piacevole, e chi non ama tanto approfondire ci si diverta. E a questo proposito Plinio dice che non c’è libro, per quanto cattivo, che non abbia qualcosa di buono;1 tanto più che non tutti hanno gli stessi gusti, e se uno non mangia una cosa, un altro ne va matto. E così vediamo certe cose che, tenute in poco conto da alcuni, non lo sono da altri. Ecco perché non si dovrebbe distruggere o mandare al macero nessuna cosa, a meno che non sia proprio detestabile, ma bisognerebbe farla conoscere a tutti, specialmente se non reca danno e se ne può trarre qualche frutto. Infatti, se così non fosse, ben pochi si metterebbero a scrivere per un solo lettore, perché non è fatica da niente, e chi vi si sobbarca vuole essere ricompensato, non con denaro, ma con la certezza che le sue opere circolino e vengano lette e, se lo meritano, elogiate. E a questo proposito dice Cicerone: “L’onore alimenta le arti”.2
Chi pensa che il soldato che è primo sugli spalti sia quello che ha più in odio la vita? Certo nessuno; ma è il desiderio di lode che lo spinge a sfidare il pericolo, e così è anche nelle lettere e nelle arti. Predica molto bene l’aspirante maestro in teologia, ed è certo persona che ha molto a cuore il bene delle anime; ma domandate a sua signoria se gli dispiace quando gli dicono: «Oh, che meraviglia il sermone di Vostra Reverenza!». Don Tizio giostrò in maniera disastrosa e diede la sua cotta al buffone che lo lodava per gli ottimi colpi di lancia. Cosa avrebbe fatto se fosse stato vero?
Così vanno le cose, per cui, confessando di non essere più santo dei miei simili, non mi dispiacerà che di questa inezia, scritta nel rozzo stile che vedete, partecipino e si dilettino tutti coloro che ci troveranno qualche sugo, potendo così conoscere la vita di un uomo passato attraverso tante disgrazie, sfortune e avversità.
Supplico Vossignoria di accettare questo povero omaggio dalle mani di chi lo avrebbe reso più ricco, se desiderio e potere andassero d’accordo. E poiché Vossignoria mi dice di scriverle e riferirle il fatto estesamente, mi è sembrato opportuno non cominciare dalla metà, ma dal principio, perché si abbiano notizie il più possibile complete sulla mia persona; e anche perché coloro che hanno ereditato una nobile condizione possano comprendere quanto poco abbiano fatto per meritarla, avendo la Fortuna favorevole, e quanto più fecero coloro, che, avendola contraria, remando con vigore e destrezza giunsero a buon porto.
Capitolo primo
Lazzaro racconta la sua vita e di chi fu figlio.
Sappia dunque Vossignoria, prima di tutto, che mi chiamano Lazzaro del Tormes, figlio di Tommaso González e Antonia Pérez, nativi di Tejares, borgo di Salamanca. La mia nascita avvenne in mezzo al fiume Tormes, questa fu la ragione del mio soprannome; e andò così: mio padre, Dio lo perdoni, era addetto alla macina in un mulino situato sulla riva di quel fiume, dove fu mugnaio per più di quindici anni; e una notte che mia madre, incinta di me, si trovava al mulino, fu colta dalle doglie e mi partorì. Cosicché posso dirmi veramente nato nel fiume.
Poi, quand’ero un ragazzino di otto anni, mio padre fu accusato di certi brutti salassi praticati ai sacchi della gente che andava a macinare, ragion per cui fu arrestato, confessò e non negò e patì persecuzione per la giustizia. Spero che Dio lo abbia in gloria, poiché il Vangelo quelli come lui li chiama beati.3 In quell’epoca fu fatta una spedizione contro i Mori4 e mio padre, che allora era al bando per il guaio che ho detto, finì in mezzo a loro come mozzo di stalla di un cavaliere che era andato là; e con il suo signore, da servo fedele, concluse i suoi giorni.
La mia vedova madre, vedendosi senza marito e senza protezione, decise di mettersi con i buoni per diventare una di loro,5 e andò a vivere in città; affittò una casetta e si mise a far da mangiare a certi studenti. In più lavava i panni per certi stallieri del commendatore6 della Maddalena, sicché cominciò a frequentare le scuderie.
Fece conoscenza con un moro,7 di quelli che curavano le bestie. Costui a volte veniva a casa nostra e se ne andava la mattina dopo. Altre volte si presentava all’uscio di giorno, con la scusa di comperare uova, e si ficcava in casa. Io all’inizio non lo sopportavo e, vedendo il colore della pelle e la brutta faccia che aveva, ne avevo paura; ma quando mi accorsi che la sua presenza migliorava il mangiare, cominciai a volergli bene, perché portava sempre pane e pezzi di carne e d’inverno legna per riscaldarci.
Così, continuando soste e conoscenza, mia madre finì col darmi un bel morettino, che io facevo saltare sulle ginocchia e aiutavo a riscaldarsi. Mi ricordo che quando il moro mio patrigno si intratteneva a giocare con il piccolo, il bambino, vedendo me e mia madre bianchi e lui no, correva tutto spaventato da mia madre, e facendo segno col dito, diceva:
«Mamma, l’orco!»
E lui rispondeva ridendo:
«Figlio di puttana!»
Benché ragazzo, io notai quella parola del mio fratellino e dissi fra me: “Chissà quante persone ci saranno al mondo che fuggono gli altri perché non vedono se stesse!”.
Sfortuna volle che la relazione dello Zaide – si chiamava così – venisse alle orecchie del maggiordomo, e, fatte le dovute indagini, si scoprì che rubava circa la metà della biada fornitagli per le bestie, faceva sparire legna, striglie e brusche e dava per perduti lenzuoli e coperte dei cavalli, e, quando non c’era altro, sferrava le bestie, e con tutto questo aiutava mia madre ad allevare il mio fratellino. Non c’è da meravigliarsi se un prete ruba ai poveri e un frate al convento per aiuti del genere alle loro devote, quando l’amore spinge a tanto anche un povero schiavo.
Furono trovate le prove di quanto ho detto e anche di altro; perché fui interrogato con le minacce e io, bambino com’ero, rispondevo dicendo per la paura tutto quello che sapevo: persino di certi ferri di cavallo che dietro incarico di mia madre avevo venduto a un maniscalco. Quell’infelice del mio padrigno fu fustigato e sbollentato, e mia madre, oltre a beccarsi il solito centinaio,8 fu condannata a non mettere più piede nella casa del suddetto commendatore e a non ricevere più nella sua il misero Zaide.
Per non buttare il secchio dietro l’acqua sporca,9 la poveretta si fece forza e obbedì alla sentenza. Per evitare ogni rischio e liberarsi dalle male lingue andò a servire le persone che alloggiavano stabilmente alla locanda della Solana, e lì, fra mille tribolazioni, finì di allevare il mio fratellino finché non seppe camminare, e me finché non divenni un buon garzone, che correva dagli ospiti per vino e candele e per tutto il resto che ordinavano.
In quel tempo si fermò alla locanda un cieco, il quale, pensando che potevo fargli da guida, mi richiese a mia madre, e lei mi affidò a lui, dicendogli che ero figlio di un uomo dabbene, il quale era morto in quel di Gerba10 per il trionfo della fede. Confidava così che non sarei stato da meno di mio padre, e lo pregava di trattarmi bene e di aver cura di me, perché ero orfano. Lui rispose che lo avrebbe fatto e che mi prendeva con sé non come un servitore, ma come un figliolo. E così cominciai a servire e guidare il mio nuovo vecchio padrone.
Restammo a Salamanca alcuni giorni, ma il cieco, che non era abbastanza soddisfatto dei guadagni, decise di andarsene di lì; e quando fu il momento di partire, andai a salutare mia madre. Piangevamo entrambi, e lei mi diede la sua benedizione dicendo:
«Figlio mio, so che non ti vedrò più. Cerca di essere buono, e che Dio ti guidi. Ti ho cresciuto e ti ho messo con un buon padrone. Ora devi fare da te.»
E così andai dal mio padrone, che mi stava aspettando. Uscendo da Salamanca, quando si arriva al ponte, si trova all’entrata un animale di pietra che ha quasi la forma di un toro,11 e il cieco mi ordinò di avvicinarmi all’animale, e, una volta lì, mi disse:
«Lazzaro, accosta l’orecchio a questo toro e ci sentirai dentro un forte rumore.»
Io ingenuamente lo feci, credendo che fosse vero. Ma non appena lui si accorse che avevo accostato la testa alla pietra, allungò la mano con forza e mi fece dare una tale zuccata contro quel toro del diavolo, che il dolore della cornata mi durò più di tre giorni. E mi disse:
«Sciocco, impara, ché il ragazzo del cieco deve saperne una più del diavolo!»
E rise molto dello scherzo.
Mi parve in quel momento di svegliarmi dall’ingenuità in cui nella mia fanciullezza avevo dormito. Dissi fra me: “Costui dice la verità: devo tenere gli occhi aperti e stare all’erta, perché sono solo, e pensare a come cavarmela”.
Ci mettemmo in cammino e in pochissimi giorni mi insegnò il gergo dei vagabondi; e vedendo che avevo ingegno, ne era molto contento e diceva:
«Io non posso darti oro o argento, ma di consigli per la vita te ne posso dare a bizzeffe.»
Fu così che, dopo Dio, costui mi diede la vita e, cieco, mi illuminò e mi guidò nel cammino della vita.
Sono lieto di raccontare a Vossignoria queste minuzie per mostrare quanta virtù ci sia in quegli uomini che stando in basso salgono e quanto vizio in quelli che stando in alto scendono.
Ma, per tornare al mio buon cieco e raccontare di lui, sappia Vossignoria che, da quando Dio ha creato l’uomo, non ne ha mai fatto uno più astuto e sagace di lui. Nel suo mestiere era un’aquila. Sapeva a memoria cento e più preghiere. Aveva un tono basso, pacato e sonoro, che faceva risuonare la chiesa dove pregava; una faccia umile e devota, che atteggiava a molta compunzione quando pregava, senza fare smorfie o movimenti con la bocca e con gli occhi, come è abitudine di tanti altri. Oltre a ciò, aveva in serbo mille altri modi e manie...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- Bibliografia
- LAZARILLO DE TORMES (traduzione italiana)
- LAZARILLO DE TORMES (originale)
- Note
- Copyright