Il latino mi ha insegnato il primato della parola.
La parola, il verbum, è «materia prima»: come «la pietra, il legno, il ferro»;1 alla parola tutto è possibile, aveva teorizzato già nel V-IV secolo a.C. il sofista Gorgia di Leontini (480 ca. - 380 ca. a.C.). Maestro indiscusso della téchne verbale e dei suoi incantamenti, nell’Elogio di Elena (frammento 11, 8 Diels-Kranz) egli definisce la parola, il logos, un «sovrano potente»; quella parola che, «minuta e invisibile, compie i più grandi miracoli ... La parola può spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione». Nulla è impossibile alla parola, nemmeno vincere cause manifestamente deboli, come quella di Elena, la donna più discussa e screditata dell’antichità. Alla parola la retorica classica, l’ars dicendi, affidava il triplice compito di «insegnare» (docere), «affascinare» (delectare), «convincere» (movere). E per questi scopi gli autori antichi plasmeranno la lingua fino a diventarne tiranni.
Lingua dinamica
Una parola non statica ma dinamica, quella latina: che rivela ora una nuova forma, ora un nuovo ordine, ora un nuovo significato.
Tre soli esempi: Lucrezio, Orazio, Seneca.
Il poeta Lucrezio, l’apostolo della ragione, nel poema La natura, consapevole di dover cambiare il mondo non con le armi (armis) ma con le parole (dictis, 5, 50), confessava di creare, durante la veglia delle notti stellate, quelle parole nuove, inaudite, rivoluzionarie (verba nova, 1, 138) che gli schiudessero nuovi cieli e nuove terre: vale a dire che gli consentissero di diffondere nella tradizionalista e ormai collassata Roma repubblicana idee nuove, inaudite, rivoluzionarie (res novae). Discepolo di Epicuro, egli elogia la vita ritirata (otium) e nega gli dèi, minando in tal modo alla base i due capisaldi dell’ideologia stoica e dell’identità romana, vale a dire l’impegno politico (negotium) e la pratica religiosa (religio).
Lucrezio applica agli atomi, ai princìpi della materia e del cosmo, i princìpi propri della «grammatica», le «lettere dell’alfabeto» (grámmata in greco) che presiedono alla formazione delle parole: concursus («incontro, combinazione»), motus («movimento»), ordo («ordine»), positura («posizione»), figura («forma»); e instaura così una corrispondenza e una solidarietà tra gli elementa vocis («lettere») e gli elementa mundi («atomi»), per cui il poema si configura come un’esecuzione linguistica del cosmo. Lucrezio stesso ci spiega l’incrocio dei due piani, linguistico e fisico, in 1, 820 sg.: «infatti i medesimi atomi costituiscono (constituunt) il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, i medesimi le messi, gli alberi, i viventi»; e in 2, 1015 sg.: «infatti le medesime lettere indicano (significant) il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, le medesime le messi, gli alberi, i viventi». La coincidenza fra gli elementi primi delle res (i corpi) e gli elementi primi dei verba (le parole) e il trasferimento della terminologia grammaticale alla terminologia atomistica spiegano la «mostruosa regolarità» (direbbe Mandel’štam) del poema, consentono la leggibilità del cosmo e proiettano all’origine del tutto il modello alfabetico. Come a dire che in principio era la grammatica. La lingua modello della realtà, il testo del cosmo, l’etimologia dell’atomologia. In questa direzione andavano anche la lettura lucreziana di Italo Calvino («la scrittura modello d’ogni processo di realtà») e più in generale la teoria di Roland Barthes, per il quale la parole non è quasi mai «una creazione pura» ma «essenzialmente una combinatoria».
Lucrezio rifugge dalla sfera personale e soggettiva e si eclissa nel testo, riducendosi a sguardo del reale e affidandosi alla parola, la protagonista del poema: la quale non narra, non interiorizza, non allude, ma si pone o piuttosto s’impone, immediatamente, come gli oggetti. Una parola basilare come gli atomi, univoca come le cose. Di qui i potenti e originali nessi linguistici lucreziani costruiti sulla trama della figura etimologica, come mors immortalis (3, 869) per segnare l’eterno avvicendamento cosmico di vita e morte, e come anxius angor («angoscia straziante») per definire la condizione dell’innamorato (3, 993) e accomunarlo all’appestato (6, 1158); di qui il ritmo martellante dei verbi in -sco (i cosiddetti «incoativi», più di cento nel poema) quanto mai funzionali a descrivere e quasi rappresentare visivamente la continua e progressiva trasformazione di tutte le realtà, obbedienti a quella legge paritaria e non più gerarchica che segna la fine dell’antropocentrismo stoico; di qui una scrittura regolata da una vera e propria «legge del due», vale a dire del raddoppio, nelle molteplici forme del contrario, della simmetria, del parallelismo, dell’analogia, dell’incrocio tra piano orizzontale e piano verticale dei versi. Vale ancor più per Lucrezio quel che Mandel’štam ha detto della Divina Commedia di Dante: «una collezione di minerali sarebbe un commento perfetto».
Orazio, il poeta del sermo simplex, «linguaggio essenziale» – a differenza di Lucrezio creatore di verba nova, «parole nuove» –, per poter competere con Pindaro e Alceo, che disponevano di una tradizione linguistica più ricca, giocherà sulla potenzialità della lingua esistente ricorrendo alla callida iunctura (Arte poetica 47 sg.): vale a dire quell’abbinamento verbale, quel «nesso accorto, ingegnoso, furbo» – vogliamo dire smart? – che rende nuove (nova) le parole note (nota); ne deriva l’effetto straniante e insieme illuminante che è proprio della poesia. Fondamentale per Orazio è «la disposizione delle parole» (ordo verborum): un ordine che produce un riverbero luminoso (lucidus) sull’intero verso (Arte poetica 41). A soccorrerlo in questa strategia stilistica ora interviene la metafora audace, come nel caso del carpe diem (Odi 1, 11, 8), che vede il connubio tra l’atto concretissimo di un verbo agricolo («sfogliare, piluccare») e la dimensione esistenziale e inafferrabile del tempo («il giorno, l’attimo»); ora interviene l’ossimoro (oxýs, «acuto», e morós, «ottuso»), ovvero l’accostamento di due parole di significato opposto, come strenua inertia (Epistole 1, 11, 28), «smaniosa inerzia», letteralmente «operosa inoperosità»: un indubbio effetto contrastivo, dal momento che strenuus è detto del soldato, mentre l’inertia è propria dell’infingardo. Si comprende come questa essenzialità linguistica oraziana abbia generato espressioni divenute pressoché proverbiali, come l’aurea mediocritas (Odi 2, 10, 5) o la concordia discors (1, 12, 19).
Tale stile garantiva un duplice risultato: la sorpresa dell’interlocutore e la maggior economia linguistica che consentirà a Nietzsche di dire che Orazio col «minimum nell’estensione e nel numero dei segni» raggiunge «il maximum nell’energia dei segni». Una lezione durevole per la poesia occidentale.
Seneca, di fronte alla conclamata povertà (paupertas), anzi all’«indigenza» (egestas) del latino rispetto al greco, opererà una vera rivoluzione linguistica: attribuire alle parole un significato nuovo rispetto a quello abituale, operando il loro passaggio dall’ambito concreto a quello astratto. Questa sarà una grande e originale officina linguistica, dal momento che quella dei Romani era all’origine una lingua di agricoltori e soldati, e non di poeti e filosofi. Di qui la sua opera di riconversione della lingua latina e di trasferimento dei significati dal mondo esteriore a quello interiore: ovvero la creazione di quel «linguaggio dell’interiorità» (Traina) che – ereditato principalmente da Agostino e da Petrarca – caratterizzerà la potentia del latino rispetto alla gratia del greco. Quel linguaggio che l’uomo europeo assumerà come medicina dell’anima, sì, come psicoterapia – dirà Montesquieu (Lettere persiane 33) – quando gli capita una disgrazia. Qualche esempio? Per l’ambito giuridico, valga vindica te tibi (Epistola 1, 1), «riprendi possesso di te stesso»; per quello politico, in te ipse secede (25, 6), «ritirati in te stesso»; per quello militare, vivere militare est (96, 5), «vivere è fare il soldato»; per quello economico, precisamente bancario: dispunge ... vitae tuae dies (La brevità della vita 7, 7), «fa’ il bilancio dei giorni della tua vita».
Io credo che a un concorso Quale classico per il terzo millennio? Seneca risulterebbe vincitore non tanto per la sua opera di scienziato, tragediografo, politico o moralista, quanto per il suo ruolo di innovatore linguistico, per come ha scritto, più che per cosa ha scritto. Egli oggi sarebbe un grande titolista.
Il grande nel piccolo
Lingua duttile e composita, il latino tramite minuti segmenti fonici preposti (de-, e-/ex-, con-, per-), chiamati «prefissi» o «preverbi», perfeziona l’azione del verbo còlta nel suo aspetto momentaneo, che può essere iniziale (aspetto «ingressivo») o finale (aspetto «egressivo» o «terminativo»). Non appaia gratuito sadismo ricordare che, mentre bello significa «faccio la guerra», debello significa «termino la guerra»; loquor «parlo», eloquor «parlo bene»; morior «muoio», emorior «riesco a morire» o meglio, con le parole di David Maria Turoldo, «finisco di morire»; meritus (sottinteso stipendia), «colui che guadagna il soldo del militare, il soldato», emeritus, «colui che ha terminato il servizio militare, il congedato»; sequor, «seguo», e consequor, «conseguo, raggiungo»; uro, «brucio», e comburo, «riduco in cenere»; cado, «cado», concĭdo, «cado all’improvviso, stramazzo»; labor, «scivolo», collabor, «crollo» (il nostro «collasso» è dal participio collapsus); facio, «faccio», perficio, «porto a termine, compio».
Alcune volte questi prefissi non hanno valore aspettuale, ma mantengono il loro valore semantico pieno: è il caso del prefisso con-, che presenta il suo valore sociativo («insieme») in collaboro (con- e laboro, «lavoro insieme», e quindi «collaboro», diverso dal con- aspettuale del citato collabor); colloquor, «parlo con, colloquio»; coeo, «vado con, mi unisco, mi accoppio» (il nostro «coito» è da coitus, come pure «ceto», inteso come «gruppo umano»); convenio, «mi raduno, mi accordo»; oppure il caso del prefisso e-/ex- in educo, «conduco fuori, estraggo»; evado, «fuggo da, evado»; exeo, «vengo da, esco» (diverso da e- nei ricordati emeritus ed emorior).
Quando il segmento fonico è posposto al verbo, siamo in presenza di «suffissi». Tra i più significativi, il suffisso -to, detto frequentativo, iterativo o intensivo perché indica azione frequente, ripetuta o intensa: per cui, se dico significa «dico», dicto significa «dico ripetutamente» e quindi «dètto»; specio o spicio, «guardo», specto, «guardo in continuazione» e quindi «contemplo»; e ancor più produttivo è il suffisso -sco, detto «incoativo» (da inchoare, «incominciare»), che indica la progressione o lo svilupparsi di un processo: albeo significa «sono bianco», albesco, «divento bianco; ardeo, «ardo», ardesco, «mi infiammo»; floreo, «sono in fiore», floresco, «comincio a fiorire»; luceo, «splendo», lucesco, «comincio a splendere»; palleo, «sono pallido», pallesco, «divento pallido»; rubeo, «sono rosso», rubesco, «divento rosso» (gradatamente, detto dell’aurora), che si differenzia da erubesco, «arrossisco» (improvvisamente, detto del volto: il preverbio perfettivizzante e- conferisce il valore aspettuale momentaneo).
Più frequenti i suffissi negli aggettivi: -ax indica eccesso e prevalentemente caratteristiche morali negative. Se audens è «chi osa, il coraggioso», audax è «chi osa troppo, il temerario», per cui il proverbio corretto è audentes fortuna iuvat, «la fortuna aiuta i coraggiosi», e non audaces, come comunemente si cita: quelli, i temerari, la fortuna piuttosto li acceca. Notevole anche il suffisso -bundus, che assegna all’aggettivo valore dinamico-rappresentativo («con l’aria di, nell’atteggiam...