
- 336 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Sorelle Materassi
Informazioni su questo libro
Sorelle Materassi racconta la vicenda di due anziane zitelle che si lasciano spogliare dei risparmi accumulati in lunghi anni di lavoro come ricamatric da un nipote, il bellissimo Remo. La loro decadenza economica è però ripagata dalla gioia esuberante del ragazzo, che dona loro l'illusione di partecipare in modo vitale all'esistenza. Nel romanzo, qui presentato nella sua edizione del 1960, Palazzeschi realizza pienamente quella sorta di specularità espressiva, tematica, linguistica e psicologica che lo porterà per tutto l'arco della sua attività letteraria a giocare e a "divertirsi" con i contrasti, conducendo la narrazione sempre sospesa sul filo fra comicità e tragedia, fra il riso e la malinconia.
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Informazioni
eBook ISBN
9788852068379Categoria
Literature GeneralTeresa e Carolina stanno a vedere Giselda canta Niobe va a vendemmiare
Molte sono le fasi attraverso le quali, durante questi otto anni, erano passate le zie nei riguardi del nipote. Credettero sulle prime che la fortuna del giovane si sarebbe ottenuta esclusivamente per via di studi gravi, regolari e lunghi, ai quali egli si sarebbe assoggettato con inflessibile volontà approfittando felice dei mezzi di cui poteva disporre la sua famiglia di adozione. Si direbbe che le buone sorelle, alle quali il lavoro aveva preso la mano sopra ogni altro potere, per la prima volta dedicassero un attimo a fare i loro conti invece di quelli delle clienti, a voltarsi indietro per accorgersi stupite che le loro risorse erano di tale importanza da permettere molte cose. E non di vivere esse più umanamente seguitando a lavorare con un ritmo meno febbrile, concedendosi qualche ora di riposo e di pace, di spasso, uno svago, una distrazione; no, ma fare di quel ragazzo caduto dal cielo in mezzo ad esse, un cittadino ragguardevole e da bene. La quale cosa oltre a rappresentare la più intima aspirazione e riceverne un benessere sconosciuto, avrebbe suscitato e riscosso il plauso di tutti. A queste gioie terrene si aggiungevano quelle celesti, le benedizioni che la buona e infelice sorella dal cielo lasciava cadere come petali di rosa sopra le loro teste. E siccome non era difficile accorgersi, fino dai primi giorni, quale trasporto avesse il ragazzo per la meccanica e come fosse franco nel confessarlo, decisero di comune accordo di farne un ingegnere, un ingegnere meccanico; un costruttore di macchine, di navi, forse; per quanto avessero del mare una nozione tanto fantastica e primordiale; un uomo che un giorno sarebbe stato a capo di un’officina, di un cantiere, che avrebbe comandato migliaia di operai, che avrebbe inventato una nuova macchina o almeno perfezionate quelle in corso, ricco a milioni, che sarebbe diventato deputato, senatore, ministro, probabilmente. Le piccole operaie e possidenti della pianura fiorentina sognavano un’ascesa incalcolabile: come un faro il nipote doveva elevarsi da quel punto per illuminare il mondo.
Teresa architettava questi sogni mentre Carolina li abbelliva di particolari, ci ricamava intorno proprio come faceva per la scollatura delle camicie e lungo le bande delle mutandine che la sorella le dava tagliate; ogni tanto si sentiva assalire da brividi di vertigine, da un capogiro che la esaltava. Non alzavano la testa dal lavoro, non rallentavano il loro sforzo se non per godere il panorama delle aspirazioni nascenti.
Ma Remo, ahimè, amava quella meccanica che esercitava con Palle in una stanza dietro la casa, strappata al contadino non senza gravi difficoltà, e da essi trasformata in rimessa, in officina, in cantiere; provvista di una saracinesca, e dove si potevano ammirare i più disparati arnesi e congegni tenuti in bell’ordine e gelosia, fino a un motorino da applicarsi alle barche, al quale lavoravano da tempo con misterioso accanimento. Chi aveva insegnato all’uno e all’altro quella sia pur rudimentale meccanica? Nessuno. Per l’ardente passione la scienza gli si rivelava giorno per giorno da sé: la scienza si respira, è nell’aria.
Sfumata, non senza molta pena, la speranza del costruttore, dell’ingegnere, dell’inventore di macchine, scesero a voli più accessibili verso una scuola industriale dalla quale sarebbe uscito un organizzatore di stile, un uomo di minore scienza ma di pratica assai più grande; che avrebbe raggiunto una cima ugualmente passando per le scorciatoie, sottraendosi al peso di studi lunghissimi e gravi per i quali non pareva inclinato, in un tempo come il nostro in cui la pratica è il coefficiente maggiore d’ogni successo. Teresa assicurava che i grandi uomini non avevano fatto studi regolari e che dalle università uscivano i mediocri, gli sgobboni; e che in Italia, come in America, uomini che sapevano fare a stento la loro firma erano pervenuti ad iperboliche vette. Anche Carolina la pensava così, diceva che Remo aveva l’occhio dell’uomo pratico, e in questo forse non diceva male, dell’uomo pratico e di azione, e non quello dello sgobbone; l’uomo che sa creare un mondo dal nulla, senza altro sussidio che la propria volontà e il proprio valore. Questo le dava dei brividi e una vertigine ancor più forte delle solite.
Ma piano piano anche la grande arteria delle industrie s’impicciolì, divenne un vicolo, un vicolo cieco, un cul di sacco in fondo al quale si trovarono, privi di movimento, il nipote con le zie.
Si dové uscirne e trasportare le mire sopra un campo più ragionevole.
Remo sarebbe stato un giorno padrone del podere, e delle case che fruttavano bene, e di una certa somma con la quale avrebbe potuto ingrandire il possesso: sapevano che sarebbe stato facile acquistare nuova terra nei dintorni, sapendole quattrinaie erano andate ad offrirgliela; avrebbero potuto avere un altro podere, in seguito due, che loro si erano guardate bene dal prendere non potendosi occupare della terra e, soprattutto, non avendo per essa il più piccolo trasporto. Ora se ne dolevano insieme e vedevano nel giovane il futuro agricoltore come il nonno, un semplice contadino, e questo non lo dicevano nemmeno sottovoce per quanto lo bandissero gli altri con le trombe, che dal nulla era riuscito a fare una piccola fortuna, da questa era facile farne una grande. Un agricoltore indipendente, non un sottoposto, con impianti moderni quali ancora non si conoscevano in quelle zone. Parlando con le ricche clienti, con molto riguardo e falso timore, chiedevano chi fosse il loro signor fidanzato, quel fortunato che esse pure si arrabattavano con ogni mezzo per affascinare, o per mantenerne i fascini in ebollizione: nobile certamente, e spesso si sentivano rispondere che era un possidente e aveva le terre in questa o in quella provincia, che si occupava di terre, che aveva impianti agricoli con allevamenti di bestiame. Iniziare a Santa Maria coltivazioni sconosciute, impiantarvi grandi cascine con fabbrica di burro e di formaggi, culture di primizie con serre… un nuovo sogno nel quale la fantasia dilagava fino a vedere il nipote proprietario di tutta la pianura fruttifera: il sogno si fermava laddove le strade incominciavano a salire, per la collina nutrivano odio e rancore etnico, inestinguibile: “la collina è una macìa di sassi, diceva il povero nonno che se ne intendeva di terre”.
Senza levar la testa dal telaio costruivano insieme, ed era un canto il loro pensiero e il loro almanaccare. Si dolevano di essere state esse poco amanti della terra, di aver tenuto sempre a rispettosa distanza il buon Fellino coi suoi puzzi e il suo bestiame non meno puzzolente; e dimenticavano per un momento la scarsissima considerazione nella quale tenevano una mucca e il suo vitello, e in quale obbrobrio un povero ciuco, e di non voler nemmeno vedere le galline davanti alla loro porta, e di aver dato per ciò una fiera consegna. Ora, se una per disgrazia vi si fosse avventurata, non l’avrebbero mandata via, le avrebbero dato qualche briciola di pane.
Remo fu mandato alla scuola agraria, e stavolta con accompagnamento di raccomandazioni autorevoli e l’interessamento di personaggi ufficiali.
Ogni autunno vi fu un progetto nuovo, un nuovo piano minuziosamente stabilito, iniziato con auspici magnifici, e che finiva a coda di pesce con l’avvicinarsi dell’estate. La colpa del fallimento veniva riversata, prima sul nipote che non aveva voglia di studiare, quindi sui professori che non sapevano insegnare, sulle scuole organizzate male.
Era possibile che non riuscisse a andare avanti un ragazzo che in tre mesi soltanto di preparazione era riuscito a prendere a pieni voti la licenza elementare, con tutti gli onori, degli insegnanti e della direttrice, compreso un pranzo, quasi storico, a cui avevano partecipato non solo la direttrice e la Calliope Bonciani, ma la madre di questa, di novantadue anni, la signora Cherubina che da giovane aveva fatto la modista, e che andò a Santa Maria vestita color pulce, con la mantellina di pizzo e gè appuntata al collo da un bel cammeo di corallo rilegato in oro, dono di nozze, e nel quale era scolpita una scena del diluvio universale. E sulla testa bianca, con tre torcoli neri applicati a guisa di crocchia che pareva si fossero dimenticati d’imbiancare, un’acconciatura nera simile a un puliscipenne. Anzi, si può dire ch’ella avesse portato a Santa Maria due puliscipenne, uno sul cranio e uno sulle spalle. Proprio così quel frullino, quella trottola, quel granello di pepe, quello schizzapiscio della signora Cherubina che in quel giorno idillico e memorabile aveva mangiato per tre, col naso e la bazza che un po’ si becchettavano e un po’ facevano all’amore, onorando il pranzo preparato da Niobe con arte magistrale, e servito dalla Tonina che da mela erasi trasformata, per il trambusto del salotto e il calore della cucina, in una ciliegia lì lì per schizzare il sangue dalle gote. La signora Cherubina aveva raccontato aneddoti e barzellette per tutto il tempo del desinare, tanto da tener testa alla direttrice il cui eloquio erasi appannato quel giorno, smorzato, coperto di un velo roseo; pareva concedersi un’ora di tregua benigna e dolce, tutta illuminata da un sorriso inestinguibile, come il gigante che dopo avere atterrato l’uomo, il leone o il toro, disteso sull’erbetta giuocherella fanciullo con gl’insetti e le farfalle. In quell’ora grandiosa Niobe si era limitata ad osservare, rallegrandosi con lei rispettosamente, che alla signora Cherubina il Signore aveva fatto le fognature buone; a cui l’arzilla vecchietta aveva risposto che durante tutta la gioventù aveva sofferto di male allo stomaco, e che i medici non sapevano come avrebbe fatto a tirare avanti. “Figlia d’un cane! Se il Signore non le avesse mandato il male allo stomaco c’era da guardarsi la pelle.” Questo Niobe pensò e non disse, ma pensò alla sua maniera, tanto coloritamente, che possiamo dirlo noi senza tema di sbagliare.
Il nuovo sogno illuminava tutto di nuova luce, tutto tornava a sorridere fino alla nuova catastrofe.
In tanto almanaccare il fenomeno per noi più interessante si è che Remo manteneva un contegno irreprensibile: non solo non recalcitrava ai cambiamenti di rotta, ma accoglieva la nuova via, non con entusiasmo che non era del suo carattere, ma con prontezza esemplare, fredda prontezza che le zie prendevano per decisione bella e buona, profonda, virile, senza bisogno di esclamazioni o smancerie; per modo che ogni volta erano sicure, con gran sollievo, di aver trovato il bandolo della matassa, la strada giusta; e che a noi lascia capire come egli si trovasse disposto a ripetere il giuoco senza fine. E allorquando anche il nuovo progetto andava a monte, diveniva evasivo, misterioso, impenetrabile; guardava lungi, come chi scruta nel futuro con acume per arrivare a un risultato eccezionale. Ciò che manteneva sospeso l’animo delle donne le quali leggevano nei suoi occhi tanta volontà e penetrazione, e una fiducia che non poteva mentire; e insieme la tranquillità e la sicurezza di chi ha in sé, fino dal primo momento, quello che ci affanna a cercare Si sentivano disorientate nelle loro aspirazioni e ricerche.
Le scuole agrarie, industriali e scientifiche, si eran risolte in passeggiate bellissime, fatte con Palle per le vie di Firenze e delle campagne, nei paesi del circondario, in Arno, alle Cascine, in ogni specie di giuochi o luoghi dove si studiavano le macchine e si sfruttavano i benefici effetti delle piante, le riposanti ombre e i saporiti frutti, senza il bisogno di andare a scuola, e soprattutto s’imparava a vivere. E mentre teneva la scuola nel più remoto cantuccio dei propri pensieri, non appena interrogato diceva a tutti con sollecitudine, assumendo una dignità giovanile tanto edificante: “faccio l’ingegnere, sono studente d’ingegneria; sono alla scuola industriale; sono alla scuola agraria, faccio l’agricoltore”, quasiché fosse avviato a divenire il capo di tutti gl’ingegneri, di tutti gl’industriali, di tutti gli agricoltori.
L’un dopo l’altro, con la naturalezza e la giocondità dei fantocci nei bersagli umoristici dietro i colpi assestati bene, tutti i sogni, piani e progetti, fra le risa degli spettatori erano andati a gambe levate.
Smarrite, interdette, incapaci di organizzare un nuovo piano, le zie ebbero crisi di nervi acutissime, perdettero la calma: strillarono, piansero, fecero delle scenate al nipote, lo coprirono d’ingiurie, di contumelie, minacciarono di disinteressarsi di lui, di mandarlo all’officina, a fare un mestiere da povera gente, il facchino come faceva suo padre, o il barrocciaio come il padre del suo degno amico Palle. Non avevano obblighi verso di lui, e quanto facevano era per pura bontà, non per dovere.
A queste sfuriate Remo sorrideva appena, ma sorrideva così pacifico e, soprattutto, così bene, che ad esse pareva di leggere nel suo sorriso come il minacciato abbandono e disinteresse non lo atterrissero minimamente, e che senza una parola di rimprovero o di preghiera se ne sarebbe potuto andare anche da sé: lo avrebbero veduto scomparire. E fin qui non ci potevano arrivare.
A pochi uomini è dato di sorridere così bene. Un bel sorriso può nascondere o lasciar vedere tante cose, anche quando non sia che la grazia e l’illusione uscenti da una bocca modellata e colorita perfettamente. E soprattutto non intendeva di aver fra i piedi quel maledetto Palle.
Non appena si affacciava l’idea di perdere il nipote buttavano a mare Palle: lui, almeno, la doveva scontare, doveva andarsene. Lo lasciasse per i suoi venti, non erano disposte a mantenere due bighelloni di quella specie… Una marmotta che se taluno non gli diceva di levarselo, si sarebbe seduto a tavola col berretto in testa. È bene sapere che a poco a poco, per l’arte invincibile di Remo, Palle si era insediato lì a mangiare e bere, specialmente la mattina quando a casa non c’era la madre, e se occorreva anche a dormire; e la madre, a casa, per nulla addolorata o sgomenta di non averlo presso di sé, viveva felice sapendo che il figliolo aveva trovato della brava e buona gente che gli voleva bene, e sapendo quanto egli meritasse un tale affetto. All’ora del pranzo, dopo le scenate, mentre Palle rimaneva sul cancello incapace di farsi avanti, disposto a correre a casa sua a prendere un pezzo di pane, Remo diceva ridendo: “via Palle, vieni Palle, si va a mangiare”. E allora i fantocci umoristici da mandare a gambe all’insù sotto i colpi assestati bene, erano proprio le zie attraverso le loro lambiccate architetture.
Esaurite anche le furie dopo esaurita l’immaginazione, spossate, vinte, le due sorelle rimasero in posizione di attesa, guardandosi l’una l’altra sospese come per dire: “si starà a vedere”. E ritrovata un po’ la calma, col medesimo atteggiamento presero a riguardare il nipote senza le vecchie mire né il rancore susseguente: “si starà a vedere”, esprimevano guardandolo come guardandosi senza dir nulla: “si starà a vedere”. E Remo, che mai si era sottratto alle precedenti esperienze prendendo la nuova attitudine come una nuova via, se ne mostrava convinto, sodisfatto, sicuro di sé; e anche stavolta, prestandosi al giuoco come se l’ultima decisione fosse sempre la migliore, con la prontezza della sua consueta impassibilità, offrendo lo spettacolo più gradevole pareva rispondere alle zie: “state a vedere”. La risoluzione di stare a vedere che sembra, così a colpo, tanto facile, non lo è, invece, quanto si pensa o si crede e non fu presa, infatti, che dopo tante altre: quando la mente, stanca di cercare, si sentì vuota, scarica, e quasi non fosse...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Aldo Palazzeschi
- Bibliografia
- Sorelle Materassi
- Santa Maria a Coverciano
- “Sorelle Materassi”
- “Remo! Remo!”
- Palle
- Teresa e Carolina stanno a vedere Giselda canta Niobe va a vendemmiare
- “Giselda! Niobe!”
- Peggy
- Sepolte vive
- Copyright