
- 154 pagine
- Italian
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eBook - ePub
L'immortalità dell'anima
Informazioni su questo libro
In questo libro uno dei più grandi maestri spirituali del nostro tempo indica una via per affrontare un interrogativo universalmente avvertito come fondamentale da tutti gli uomini: l'anima è immortale? Nella sua riflessione Osho spiega quindi come affrontare la morte senza timori, vincendo con la meditazione tutte le paure che ad essa si accompagnano ed entrando in sintonia col tutto.
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Informazioni
Vedere la vita come un sogno
Il discorso precedente ha sollevato alcuni interrogativi.
Un amico ha chiesto: «È possibile morire in totale consapevolezza, ma com’è possibile essere pienamente consapevoli quando si nasce?».
In realtà nascita e morte non sono due eventi separati, ma due poli dello stesso fenomeno, due facce della stessa medaglia. Se un uomo tiene in mano un lato di una medaglia, automaticamente terrà anche l’altro. Non è possibile averne in mano uno e chiedersi come avere l’altro: automaticamente hai anche quello.
Morte e nascita sono due poli dello stesso fenomeno. Se la morte sopravviene consapevolmente, inevitabilmente lo sarà anche la nascita; se la morte è inconscia, inconscia sarà anche la nascita. Se una persona muore in piena consapevolezza, sarà totalmente consapevole al momento della nascita.
Poiché tutti moriamo nell’inconsapevolezza e rinasciamo nello stesso stato, non abbiamo alcuna memoria delle nostre vite passate. Tuttavia il loro ricordo resta sempre vivo in un angolo della mente e può essere riportato alla luce, se lo vogliamo.
Con la nascita non si può fare nulla, direttamente; tutto ciò che si può fare, va fatto in relazione alla morte. Dopo, non è più possibile far nulla: tutto ciò che va fatto, deve essere compiuto prima della morte. Una persona che muoia in stato di inconsapevolezza non può fare nulla fino alla prossima nascita: non ha alternativa. Se muori inconsapevole, rinascerai inconsapevole. Ciò che va fatto, va fatto prima della morte; e prima che avvenga abbiamo moltissime opportunità, l’opportunità di una vita intera. In questo lasso di tempo, è possibile fare uno sforzo verso il risveglio.
Quindi, aspettare la morte per risvegliarsi è un grandissimo errore. Non puoi risvegliarti al momento della morte. La sadhana, il viaggio verso il risveglio, dovrà cominciare molto prima. La morte richiede preparazione; senza, si può essere certi che la morte ci coglierà inconsapevoli. Ma se non sei ancora pronto a una nascita consapevole, in un certo senso l’inconsapevolezza gioca a tuo favore.
Intorno al 1915, il governatore di Kashi subì un’operazione all’addome. Si trattava della prima operazione al mondo effettuata senza anestesia. Tre medici inglesi si erano rifiutati di praticarla, sostenendo che era impossibile tenere aperta la pancia di un uomo per una o due ore senza anestesia. Temevano che, per il dolore insopportabile, il paziente urlasse, si muovesse bruscamente o addirittura cadesse: poteva accadere di tutto. Per questo i dottori non si sentivano di operare.
Ma il governatore sostenne che, finché fosse rimasto in meditazione, non c’era motivo di preoccuparsi, e in quello stato avrebbe potuto restare insensibile al dolore anche per una o due ore. Non era assolutamente disposto a subire alcuna anestesia, voleva essere operato in stato cosciente. I medici rimasero riluttanti, perché pensavano fosse rischioso far subire dolori così acuti a una persona non anestetizzata. Comunque, non vedendo alternative, gli chiesero di entrare in meditazione per fare un esperimento come prova. Gli praticarono un’incisione su una mano e non ci fu nemmeno un sussulto. Solo due ore dopo il governatore si lamentò della ferita: fino ad allora non aveva sentito nulla. A quel punto, si decise di operarlo come lui voleva.
Questa è stata la prima operazione al mondo in cui i medici abbiano aperto lo stomaco di un paziente senza anestetizzarlo. E il governatore rimase perfettamente cosciente per tutto il tempo. Tanta consapevolezza richiede una meditazione profonda. La meditazione dev’essere così profonda da rendere perfettamente consapevoli, senza ombra di dubbio, che il corpo e il Sé sono separati. Anche la più leggera identificazione con il corpo può essere pericolosa.
La morte è la più grande operazione chirurgica che esista. Nessun medico ha mai praticato un’operazione così estrema, perché con la morte tutta l’energia vitale, il prana, viene trapiantata da un corpo fisico a un altro. Nessuno ha mai eseguito un’operazione così spettacolare, né potrà mai farlo. Possiamo amputare o trapiantare parti del corpo, ma con la morte tutta l’energia vitale viene prelevata da un corpo e immessa in un altro.
La natura, benevolmente, ha fatto sì che fossimo completamente inconsci durante questo evento. È per il nostro bene: forse non sopporteremmo tanto dolore. È possibile che il motivo per cui entriamo nell’incoscienza sia questo: il dolore della morte è assolutamente insopportabile. È nel nostro interesse cadere nell’incoscienza; la natura non ci permette di ricordare il passaggio attraverso la morte.
In ogni vita ripetiamo praticamente tutti gli errori che abbiamo ripetuto in quelle passate. Se solo potessimo richiamare alla memoria ciò che abbiamo fatto nelle vite passate, potremmo non ricadere negli stessi baratri. E se solo potessimo ricordarci cosa abbiamo fatto nell’arco di tutte le vite precedenti, non potremmo più restare ciò che siamo ora. Sarebbe impossibile, perché ogni volta abbiamo accumulato ricchezze che in punto di morte si sono rivelate prive di qualsiasi valore. Se riuscissimo a ricordarcelo, potremmo non portare più dentro di noi la stessa folle cupidigia di denaro. Ci siamo innamorati migliaia di volte, ma ogni volta si è rivelata una cosa priva di senso. Se potessimo ricordarcelo, la follia di innamorarci di qualcun altro, e di farlo innamorare di noi, scomparirebbe. Migliaia e migliaia di volte siamo stati ambiziosi ed egoisti, abbiamo ottenuto successo e posizioni elevate, e alla fine tutto si è rivelato inutile, nient’altro che polvere. Se potessimo ricordarcelo, forse la nostra ambizione perderebbe la sua forza e noi non saremmo più la stessa persona che siamo adesso.
Poiché non ci ricordiamo delle vite passate, continuiamo a muoverci praticamente nello stesso cerchio. L’uomo non comprende di avere già attraversato le stesse cose moltissime volte, e che sta tornando a farlo ora, con le stesse speranze di sempre. E alla fine la morte manda in frantumi ogni speranza. E ancora una volta il ciclo ricomincia… L’uomo si muove in cerchio come un asino alla ruota del pozzo.
È possibile uscire da questa spirale, ma è necessaria una grande consapevolezza e una pratica continua. Non si può cominciare ad attendere la morte tutto a un tratto, perché è impossibile diventare improvvisamente consapevoli durante un avvenimento e un trauma tanto grandi. Dovremo fare esperienze graduali, cominciando lentamente, da piccoli dolori, per vedere come restare consapevoli mentre avvengono.
Per esempio, hai mal di testa. Inevitabilmente, quando ne diventi consapevole, cominci a sentire che sei tu ad avere mal di testa, non che il dolore è nella testa. Ebbene, si dovrà fare esperienza con piccoli mal di testa e imparare a sentire: «Il dolore è nella testa e io ne sono consapevole».
Quando Swami Ram andò in America, la gente all’inizio aveva difficoltà a capire ciò che diceva. Anche il presidente americano rimase sconcertato quando si recò a fargli visita, e commentò: «Che modo di parlare è mai questo?», perché Ram parlava sempre in terza persona. Non diceva: «Ho fame», o «Mi fa male la testa», bensì: «Ram ha fame», e «Ram ha mal di testa».
All’inizio la gente trovava difficile seguirlo. Per esempio, una volta disse: «L’altra notte Ram stava congelando». Quando gli chiesero a chi si stesse riferendo, rispose: «A Ram». E alla domanda: «Quale Ram?» rispose, indicando se stesso: «Questo Ram, il povero diavolo che l’altra notte stava congelando. Non abbiamo fatto che ridere, con me che gli chiedevo: “Come sta Ram il freddoloso?”».
Diceva: «Ram stava camminando per la strada quando qualcuno ha cominciato a insultarlo. Ci siamo fatti una bella risata e io gli ho chiesto: “Ti piacciono gli insulti, Ram? Se vorrai essere rispettato, dovrai abituarti agli insulti”». Quando la gente gli chiedeva: «A chi stai parlando? Quale Ram?», lui indicava se stesso.
Comincia facendo esperienza con piccoli dolori. Tutti i giorni ne incontri qualcuno, non mancano mai. E nell’esperimento dovrai includere non solo i dolori, ma anche la felicità, perché è più difficile essere consapevoli quando si è felici che non quando si è infelici. Non ci vuole molto a sperimentare che la testa e il dolore sono due cose distinte, ma è più difficile sentire: «Il corpo e la gioia data dallo stare bene sono separati da me: io non sono neppure quello». È difficile conservare questa distanza quando siamo felici, perché in quel caso vorremmo essere più vicini al corpo, mentre nell’infelicità vorremmo esserne separati. Se fosse certo che il dolore è distinto da noi, vorremmo che fosse sempre così per poterne essere liberi.
Dovrai sperimentare come restare consapevole sia nell’infelicità che nella felicità. Chi decide di fare queste esperienze spesso si infligge dolori volontari. Ecco il segreto alla base di qualsiasi ascetismo: è un esperimento di dolore volontario. Per esempio, un uomo digiuna. Digiunando, tenta di vedere quali effetti abbia la fame sulla sua consapevolezza. Di solito, una persona che digiuni non ha la minima percezione di cosa sta facendo: sa solo di essere affamato e spasima al pensiero del cibo che mangerà domani.
Scopo fondamentale del digiuno è sperimentare che: «C’è la fame, ma è lontana da me. Il corpo è affamato, “io” no». Quindi, digiunando volontariamente, si prova a conoscere se dentro di noi essa esista realmente. Ram ha fame, ma «io» no. So che è presente, e questa deve diventare una consapevolezza costante fino a quando si crea una distanza tra me e la fame: a quel punto, anche se è presente, «io» non ho fame. Solo il corpo è affamato: «io» resto semplicemente colui che ne è informato. In questo caso il digiuno ha un significato assai profondo e non è più la condizione di chi è affamato.
Di solito chi digiuna ripete ventiquattr’ore al giorno di avere fame, di non aver mangiato nulla per tutto il giorno. La sua mente fantastica continuamente sul cibo che mangerà il giorno dopo e fa programmi in merito. Questo tipo di digiuno non ha senso: è pura privazione di cibo. La differenza tra astenersi dal cibo e digiunare, upvasa, è questa: digiuno vuol dire avvicinarsi sempre più. A che cosa? Al Sé, creando una distanza con il corpo.
La parola upvasa non significa astinenza dal cibo; significa approssimarsi sempre più al Sé, essere più vicini al Sé e più lontani dal corpo. A quel punto potrebbe anche essere possibile mangiare rispettando il digiuno. Se un uomo mangiasse sapendo che questa azione avviene altrove e la sua coscienza ne è completamente distinta, avremmo l’upvasa. Ed è anche possibile che un uomo non stia davvero digiunando, pur astenendosi dal cibo; potrebbe essere troppo consapevole di soffrire la fame e di stare per morire a causa di questa. Upvasa è consapevolezza psicologica della separazione tra il Sé e la fame fisica.
Si possono creare di propria volontà altre sofferenze di questo tipo, ma una così intensa è un’esperienza molto profonda. È possibile sdraiarsi sulle spine solo per sperimentare che le spine pungono il corpo e non il Sé; dolori simili possono essere sollecitati per sperimentare la separazione tra consapevolezza e piano fisico.
Ma al mondo esiste già abbastanza infelicità non voluta, per sollecitarne ancora. Il dolore disponibile è già enorme: si dovrebbe cominciare da quello. Le sofferenze arrivano comunque, anche senza stimoli. Se durante una sofferenza involontaria si conserva questa consapevolezza: «Io sono separato dal mio dolore», il dolore diventa sadhana, disciplina spirituale.
Questa sadhana andrà continuata anche con la felicità che giunge da sola. Nella sofferenza, è possibile ingannarsi perché a noi piacerebbe credere: «Io non sono il dolore». Ma quando arriva la felicità, l’uomo vorrebbe identificarsi con essa perché crede già di essere felice. Per questo la sadhana è ancora più difficile con la felicità.
Nulla, in effetti, è più doloroso che sentire di essere separati anche dalla nostra felicità. In realtà, l’uomo vorrebbe immergersi completamente in essa, fino a dissolversi e dimenticare di esserne separato. La felicità ci ubriaca; la tristezza ci disconnette e ci separa dal Sé. In qualche modo, arriviamo a credere che la nostra identificazione con il dolore avviene solo perché non abbiamo altra scelta, ma alla felicità diamo il benvenuto con tutto il nostro essere.
Sii consapevole del dolore e della felicità che giungono da sole, ma qualche volta, come esperienza, sii consapevole anche del dolore che hai generato tu, perché è leggermente diverso. Non possiamo mai identificarci completamente con qualcosa che suscitiamo noi stessi. Lo stesso sapere che la cosa è voluta da noi crea la distanza. L’ospite che arriva in casa tua non è il proprietario, ma un ospite. Allo stesso modo, quando invitiamo la sofferenza come nostra ospite, è già qualcosa di separato da noi.
Mentre cammini a piedi nudi, una spina ti si conficca nel piede; questo è un infortunio molto doloroso, ed è diverso da quando prendi una spina e intenzionalmente la premi contro il piede: a ogni istante sai che ti stai bucando il piede con una spina e osservi il dolore. Non ti sto dicendo di andare a torturarti, perché già esiste dolore a sufficienza; voglio dire questo: prima sii consapevole della sofferenza e della felicità; poi, un giorno, sollecita il dolore e osserva quanto lontano da esso puoi spingere la consapevolezza.
Ricorda, l’esperimento di provocare il dolore ha un grande significato, perché tutti desiderano la felicità e nessuno il dolore. E questa è la cosa interessante: il dolore che non vogliamo arriva da solo, mentre la felicità che cerchiamo non arriva mai. Anche quando arriva per caso, resta fuori dalla porta. La felicità che sollecitiamo non arriva mai, mentre quella che non chiediamo entra immediatamente. Quando una persona raccoglie tanta forza da poter accogliere il dolore, vuol dire che è molto felice: è tanto estatica che non ha più alcun problema a sollecitare il dolore; adesso l’infelicità può entrare nella sua vita e restarci.
Ma è un esperimento molto profondo. Fino a quando non saremo pronti per un esperimento simile, dovremo provare a essere consapevoli di qualsiasi dolore si presenti di per sé.
Se ogni volta che la sofferenza entrerà nella nostra vita resteremo consapevoli, riusciremo a restare coscienti anche quando arriverà la morte. A quel punto la natura ci permetterà di restare svegli anche in quel momento: capirà che, se un uomo riesce a essere consapevole nel dolore, può esserlo anche nella morte. Nessuno può restare consapevole nella morte tutto a un tratto, senza una preparazione specifica fatta in precedenza.
Alcuni anni fa è morto P.D. Ouspensky, un grande matematico e filosofo russo: era l’unica persona, in questo secolo, che avesse fatto tanti esperimenti legati alla morte. Tre mesi prima di morire si ammalò gravemente. I dottori gli consigliarono di restare a letto, ma lui non li ascoltò, e fece sforzi al di là di ogni immaginazione: di notte, invece di dormire, camminava, correva, viaggiava, era sempre in movimento. I dottori erano inorriditi, dicevano che aveva bisogno di riposo assoluto. Ouspensky chiamò tutti gli amici più cari vicino a sé, ma non disse loro nulla.
Gli amici che rimasero con lui quei tre mesi, fino alla sua morte, hanno detto di aver visto con i loro occhi, per la prima volta, qualcuno che accettava la morte in modo consapevole. Gli chiesero perché non seguiva i consigli dei medici, e lui rispose: «Voglio sperimentare tutti i tipi di dolore, per paura che quello della morte sia così grande da rendermi incosciente. Prima di morire voglio attraversare tutte le sofferenze; ciò può creare in me una resistenza così grande da permettermi di essere completamente consapevole quando arriverà la morte». E per tre mesi fece uno sforzo esemplare per attraversare tutti i tipi di dolore.
Gli amici hanno scritto che una persona forte e sana si sarebbe stancata, non Ouspensky. I dottori insistevano sul riposo assoluto per evitare che si aggravasse, ma inutilmente. La notte in cui morì, Ouspensky non fece altro che andare avanti e indietro per la stanza; i dottori che lo visitarono dissero che nelle sue gambe non c’era più forza sufficiente per muoversi, e tuttavia lui camminò tutta la notte. Disse: «Voglio morire in piedi, per paura di morire incosciente, sedendomi o addormentandomi». E sempre camminando, diceva agli amici: «Ancora un po’, altri dieci passi e sarà tutto finito. Sto per andarmene, ma continuerò finché avrò fatto l’ultimo passo. Voglio continuare a fare qualcosa fino alla fine, altrimenti la morte potrebbe arrivare mentre sono incosciente. Potrei rilassarmi e addormentarmi, e non voglio che questo succeda nel momento della morte».
Ouspensky morì muovendo l’ultimo passo. Pochissima gente sulla Terra è morta camminando come fece lui. Cadde al suolo mentre camminava: cioè, cadde solo quando arrivò la morte. Compiendo l’ultimo passo disse: «Ecco, questo è l’ultimo passo: ora sto per cadere. Ma prima di andarmene lasciatemi dire che avevo abbandonato il corpo molto tempo fa. Adesso vedrete il corpo che se ne va, ma io già da molto tempo ho visto che se n’è andato, anche se ci sono ancora. I legami con il corpo si sono spezzati completamente e tuttavia, all’interno, io ci sono ancora. Adesso solo ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- L’immortalità dell’anima
- Non esiste bugia più grande della morte
- Vedere la vita come un sogno
- L’intero universo è un tempio
- Ritornare alla fonte
- Trova la tua strada
- Copyright