«Mia figlia mi salva dalle violenze»
Ho tanta rabbia dentro, e stanchezza e delusione alle quali vorrei tanto poter dare voce, una voce che sia costruttiva; ma mi sento impotente. L’impotenza di chi subisce violenze domestiche e che nonostante le denunce si ritrova a dover lottare disperatamente per difendersi anche dalle autorità e dagli enti competenti che dovrebbero, al contrario, offrire tutela.
Detto questo vorrei parlare del lato bello di tutto ciò, che si chiama Matilde, la mia bambina. La donna della mia vita, che oggi ha quasi 7 anni. L’ho sentita solo mia sin dal primo istante. Per 9 mesi siamo esistite solo io e lei; e già allora, tanto piccola, e ancora invisibile agli occhi, ha saputo darmi tutta la forza che mi serviva per salvarmi. E da quando l’ho messa al mondo, è stata poi lei a rimettere al mondo me. E questa magia ancora continua.
Non avevo idea di cosa potesse significare vivere l’amore materno, finché non ho potuto provarlo. È un dolcissimo dolore… sì, perché il petto è troppo piccolo per contenere tanta potenza e tanta forza che spingono, si fanno spazio, avanzano fino a farmi male, quel male fisico che non posso curare se non stringendo a me la mia bambina, e riempiendola di baci… e quando la guardo dormire… quel viso caldo, soffice e così profumato, di un profumo che può appartenere solo a lei, pieno di quanto di più bello possa esistere al mondo; quel viso che finalmente si può rilassare, senza dover difendere nessuno, e che rilascia tutta la tenerezza, la dolcezza e l’innocenza di una persona così piccola, ma tanto immensa; quel «buongiorno mamma», detto con la sua splendida voce, che mi dà una carica indescrivibile; la sua presa da «koala», come la chiamiamo noi due, che mi fa sentire così al sicuro… perché, finché potrò, vorrò continuare a portarla in braccio, dal suo lettino al tavolo, per fare colazione insieme.
È stata proprio Matilde a salvarmi, con il suo amore, la sua dolcezza, la sua allegria e simpatia, la sua intelligenza… il suo essere Matilde insomma. Ha saputo darmi la forza di reagire, prima per lei e subito dopo per me stessa, e continua a darmela tutt’oggi. Ed è a lei che devo la mia libertà e la mia forza. Perché quello che è lei, vive in me.
Angela Carpino
«Nonna Santa in America»
La donna che più ha influenzato la mia vita è Santa, la mia nonna paterna che non ho mai conosciuto, ma di cui porto il nome. Vissuta all’inizio del Novecento in un piccolissimo paese dell’Appennino modenese, era povera e analfabeta come la maggior parte dei suoi compaesani.
Questa è la sua storia: suo marito, Giovanni, decide con altri di emigrare in America lasciandola al paese con due bimbi piccini e arriva in Illinois per fare il minatore. Dopo due anni, attraverso lettere che lui si faceva scrivere e lei si faceva leggere, le comunica che può raggiungerlo. E lei, a 22-23 anni coi suoi due bimbi, obbedisce. Dio solo sa come, senza mai aver visto un’automobile, un treno, una nave, il mare, una città , arriva a Nantes dove si imbarca sul piroscafo The Britain, destinazione New York. Dopo la quarantena a Ellis Island riesce a raggiungere il nonno a Springfield, Illinois, e subito mostra la sua intraprendenza diventando una specie di ristoratrice per i minatori cui prepara da mangiare dietro compenso arrivando a guadagnare più del marito. Nel frattempo nascono altri due bambini ma lui si rompe per ben due volte una gamba in miniera e, convinto che l’America gli porti male, con lei incinta per la quinta volta e disperata perché non vuole tornare, la costringe a tornare al paese dove apriranno un negozietto di tessuti. La famiglia aumenta: nascono altri sette figli (di cui due morti in fasce) ed è duro tirare avanti.
A questo punto i racconti di famiglia diventano vaghi: mio nonno è caduto in una grave depressione che lo ha indotto a tentare il suicidio ed è stato portato nel manicomio di Reggio Emilia, dove a 44 anni è morto e io non ho mai scoperto come.
Santa, rimasta vedova con nove figli, prende in mano la gestione della sua famiglia andando anche per 5 mesi l’anno in «pianura», cioè nel Polesine, accompagnata con un biroccio dal figlio maggiore a vendere maglie, calze, guanti di lana che le donne del paese confezionano durante il lungo inverno. Muore a 65 anni, ma le rare foto che la ritraggono sembrano quelle di una novantenne!
Ecco, questa è la sua storia: storia che mi ha sempre affascinato e inorgoglito.
Santa Muzzarelli
«Maria, badante e mamma»
Maria è la mia badante e mi ha salvato la vita. Lo ha fatto con i suoi silenzi rispettosi, con i suoi «sì», con la presenza continua. Maria viene tutti i giorni a casa mia da sedici anni, io l’attendo ogni mattina e cominciamo a vivere. Ha la sua famiglia, ma dalle nove in poi sono io la sua altra esistenza. Io so infatti che lei, da quel momento, farà ogni azione per me.
Il giorno di mercato ascolto le urla dei venditori al cellulare, mentre lei si aggira fra loro e mi descrive ciò che vendono. Vocio e confusione. Mi dice pure di certi tessuti colorati, i loro disegni che mi entusiasmano senza vederli. «Compra tutto» le dico, e sorrido e sorrido. E sono lì con lei e con tutti. E credo di vivere. Poi le sue sporte che si svuotano sul tavolo della cucina – io prigioniera in questa casa, lei libera e con lo sguardo che non si sofferma – cucirà abiti per me, e tovaglie e cuscini e copriletti. Perché sa che sarò felice, poi, nel poi che conosciamo. Rifarà il mio letto, mi laverà e riordinerà la casa aggirandosi discreta. Maria cucina nel fumo dei fornelli senza stancarsi, mi ha portato in giro per la città quando era necessario, compra tutto ciò che desidero sostituendosi a me.
Molte volte, dovendola chiamare, lei più giovane, le ho detto «mamma». Non credo di essere per lei una figlia, no, questo mai. Ma siamo qualcosa. Il suo esserci costante, la sicurezza che infonde, il saluto del mattino e quello del congedo, quando mi sento triste nel vederla andar via… la sua risata improvvisa e rara, i consigli necessari, il racconto dei nostri giorni, il dirci della stanchezza e dei malanni inevitabili, la mia solitudine nei giorni di festa, quando non viene e la casa è diversa… Sì, Maria è la mia badante e mi ha salvato la vita.
Letizia Dimartino
«Mia madre ha sconfitto il cancro»
Mia madre Angela è morta a 90 anni. Aveva ancora voglia di vivere, di vedere le sue figlie, di abbracciare i nipoti e il bisnipotino, di sentire chiaro il profumo dei fiori e l’annuncio della primavera, di assaporare polenta, pizza, cipolline, di guardarci vivere a pieno mentre lei era costretta sulla poltrona accanto alla finestra.
Mia madre era la maggiore di sei figli. Dai 15 ai 20 anni Angelina (come tuttora la chiama la 82enne signora che allora era uno dei due bambini di cui mia madre si prese cura) fu mandata a servizio fra Genova e Refrancore (dove la famiglia presso la quale lavorava era sfollata durante la guerra); amò molto e si fece amare dai componenti di una famiglia che ha accompagnato anche in seguito – con rari incontri, molte lettere, regali, telefonate in occasione di compleanni e festività – la sua vita e anche quella mia e di mia sorella Diana.
Nel primissimo dopoguerra incontrò mio padre in un locale da ballo dove era stata trascinata da non so quale parente: lui era un giovanotto fascinoso e «malandrino», inseguito dalla fama di partigiano e comunista che già gli creava problemi con tutti: dalla sua stessa cattolicissima famiglia all’ambiente intorno, dove la ricostruzione e la ripresa spesso escludevano quelli con la sua storia.
È stato al mio penultimo anno di liceo che è arrivata la grande prova per mamma: il cancro, anzi il carcinoma mammario, come il chirurgo luminare dell’epoca (parliamo di ben 47 anni fa) annunciò a mio padre nei pressi del letto di mia madre ancora assopita, dopo l’operazione che le aveva tolto un seno e scarnificato costato e ascella. Solo passati vent’anni lei ci disse che aveva sentito tutto: che sarebbe morta dopo 6/12 mesi, che non c’era da farsi illusioni.
Ma lei voleva vivere per aiutare la sua famiglia ad esistere, soprattutto per arrivare a capo del grande progetto – l’affrancamento sociale, la libertà intellettuale e la forza morale che gli studi, la laurea e il lavoro avrebbero dato alle figlie – intrapreso con mio padre una ventina di anni prima e allora ancora incompiuto.
Così cominciò la sua battaglia tenace e silenziosa.
Alla fine la mamma è guarita e ha vissuto ancora una vita lunga e laboriosa. Una vita normale, ma resa degna di considerazione dall’ordinarietà solo apparente delle grandi cose ottenute.
Nadia Raimondi
«Mamma non volle sposare l’uomo che l’aveva tradita»
Mia madre, Rosa Luigia, figlia di proprietari terrieri, ultima di una numerosa famiglia, cresce nella campagna attorno a Venezia: verde brillante, fiori, cavalli. Cresce e diventa bellissima, con lunghi capelli neri e due occhi grandissimi, neri come la notte, che usa per quasi tutta la vita per ricamare merletti.
Diventando sempre più bella, la famiglia decide di trovarle marito, un buon partito come si usava ai tempi, possibilmente di buona famiglia; così le viene presentato un bel giovane, figlio di un proprietario terriero che la famiglia conosceva. Rosa Luigia accetta, non curante di quanto si diceva circa la reputazione del giovane. Il matrimonio è alle porte, quindi nulla di più ovvio che cedere alle lusinghe del ragazzo che portarono a una gravidanza inaspettata. Ma si scopre che anche un’altra giovane aspetta un bebè da lui. A questo punto, come da copione, si deve ricorrere al riparo immediatamente, e si avviano le pratiche per un veloce matrimonio considerato lo stato di gravidanza di mia madre, i pettegolezzi del paese e gli accordi presi. Tutta la famiglia di mia madre aveva ormai deciso. Tutti, tranne lei.
Furiosa per il torto subìto, decide che mai e poi mai avrebbe sposato quell’uomo dall’aspetto così gentile ma dai modi così bugiardi e comunica alla famiglia che avrebbe tenuto il bambino e sarebbe andata avanti da sola. La reazione fu terribile. Niente da fare, Rosa Luigia resta irremovibile nella sua decisione di portare a termine la gravidanza e farcela con le sue sole forze, così continua a ricamare, ma questa volta gli oggetti non sono commerciabili perché si dedica esclusivamente ai bavaglini, ai vestitini, ai cappellini per il bambino che aspetta. A Natale, il 19 dicembre, partorisce un bellissimo bambino con gli occhi azzurri al quale verrà dato il nome Natale Alessio.
Un giorno a un banchetto mia madre incrocia lo sguardo di Antonio, un giovanotto, alto, ben piazzato, con i capelli neri («sembrava uno spagnolo» amava raccontarci) ma con gli occhi chiari, azzurri o forse grigi, poco più vecchio di lei. Si sorridono, si guardano, e tutto sembra finire lì. Ma non è così! Si frequentano, decidono di sposarsi.
Apriti cielo, la famiglia di mia madre tenta di opporsi a questo matrimonio, nella speranza che il padre del bambino si rifacesse vivo. Invece lei sposa Antonio e vuole altri figli.
Io sono nata il 10 febbraio 1943, periodo di guerra e di grandi privazioni, prima figlia femmina di sette maschi. Quando chiedo a mia madre cosa gli fosse venuto in mente, nel fare altri figli in quel periodo, mi ha sempre risposto che lei voleva una bambina e che alla fine, come sempre, l’aveva vinta lei. Così oggi sono qui a scriverle di questa storia che non ho mai raccontato a nessuno, ma con il passare degli anni ho capito di dover scrivere quel che è successo nella vita di mia madre e che c’era qualcosa con quel fratello che si chiama Natale Alessio.
Mio padre Antonio, nel frattempo, andava e veniva dalla Germania, dove lavorava, esattamente a Berlino, e si trovava proprio lì quando fu bombardata. Mio padre parlava tedesco ed è grazie a questo che la vita gli fu risparmiata nonostante la prigionia nei campi di concentramento da dove è riuscito a fuggire salvando la vita a un altro italiano, che si caricò sulle spalle e che riportò in salvo. Mia madre negli anni di prigionia di mio padre continuò a prendersi cura di tutti, ricamando, leggendo e scrivendo per quasi tutto il paese.
Passa il tempo, avevo ormai 5 anni, non avevo mai conosciuto mio padre dal vivo, a causa delle sue trasferte tedesche e degli anni della prigionia. Mia madre mi raccontava spesso di lui e un bel giorno me lo vedo che avanza nel giardino. «Questo è tuo padre» mi disse allora mia madre. Io scappai per la paura.
Entrambi i miei genitori sono ormai morti, mio padre da 30 anni e mia madre da 20, e oggi mi mancano tantissimo.
Franca Balliana
«Il mio anno con Maria»
Era un periodo veramente buio: la mamma si frattura un femore e finisce in casa di riposo; l’azienda per la quale lavoravo da quasi quarant’anni mi «prepensiona» mio malgrado; la moglie, compagna di sempre e sposa da trentatré anni, dice di non amarmi più e mi lascia.
Ma ecco che a casa di cari amici conosco Maria, ed è bastato uno dei suoi sguardi dolcissimi per farmi innamorare come un ragazzo anche se avevamo entrambi quasi sessant’anni, salvandomi dalle tenebre della depressione, davvero rimettendomi al mondo.
Diventiamo compagni, un anno quasi, bellissimo, senza mai una discussione, intendendoci solo con lo sguardo, tanti progetti di vita insieme; sempre d’accordo, anche con i suoi figli ormai grandi, felici di vedere la mamma (separata da tempo) felice con me.
Ma purtroppo un brutto giorno gli esami clinici effettuati a seguito di un malessere persistente danno u...