C’era fermento quel mattino di maggio in corso Buenos Aires. Mancava poco alle otto e studenti di ogni età, cartella alla mano, si affrettavano per raggiungere la scuola dove di lì a poco sarebbero iniziate le lezioni. In mezzo alla strada, sfrecciavano le biciclette dei garzoni di negozio, degli operai e degli impiegati, avvisando della loro presenza con squillanti colpi di campanello, così come le decise strombazzate di clacson delle poche auto richiamavano all’ordine qualche incauto pedone che attraversava il corso troppo distrattamente. Ma il signore indiscusso del traffico era il tram, strapieno di passeggeri, qualcuno addirittura abbarbicato sul predellino fuori della vettura: si faceva sentire con scampanellii forti e insistiti, come a dire: “Attenti tutti, fatevi da parte che arrivo io!”.
Nell’aria si percepivano un’allegria e un’euforia che non erano dovute solo alla bella giornata di primavera, ma anche alla diffusa sensazione che i tempi grami erano finiti, Milano stava rinascendo dopo le distruzioni e i disastri provocati dalla guerra. Il segno più tangibile della ripresa era la lenta ma graduale scomparsa delle macerie. Che pian piano lasciavano posto prima ai cantieri e poi a nuovi caseggiati.
In mezzo alla folla che procedeva lungo il corso svettava la figura di Giambattista Gamberini, un ventiduenne alto e robusto, di professione muratore, che, godendosi la tiepida brezza primaverile, marciava di buon passo diretto al posto di lavoro, uno stabile in costruzione in via Boscovich, più o meno all’angolo con via Tadino. Veniva da un paesino del Bergamasco, terra famosa per la bravura e la perizia dei suoi figli, impegnati soprattutto nel settore dell’edilizia. Dalla Stazione Centrale, il giovanotto tutte le mattine raggiungeva corso Buenos Aires, svoltava in via Boscovich e alle otto in punto era pronto per iniziare il lavoro. Quel martedì tutto procedeva secondo la solita routine: l’incontro con il carro dell’uomo del ghiaccio, pronto a consegnare alle massaie i gelidi blocchi che, messi nella ghiacciaia, avrebbero conservato la freschezza degli alimenti; il buongiorno del portinaio Giovanni che spazzava il marciapiede antistante il suo palazzo; infine, lo scambio di un saluto e di un sorriso con le graziose cameriere della pensione Promessi Sposi, che spalancavano le finestre per dare aria alle camere.
Al cantiere, una brutta sorpresa attendeva però il giovane muratore: a pochi metri di distanza dall’ingresso giaceva, supino e immobile, il corpo di una donna, vestita di tutto punto con camicetta bianca e gonna blu, calze di seta e scarpe nere con tacco. “Cosa ci fa questa qui sdraiata in terra, dorme o sta male?” pensò, incuriosito e leggermente allarmato, il giovane bergamasco. La donna non dava segni di vita, e quando Giambattista si avvicinò, chinandosi per osservarla meglio, notò un grumo di sangue in mezzo alla folta capigliatura nera, e strisce rossastre, anch’esse rapprese, che dalla fronte arrivavano fino alla gola. Accanto al corpo, oltre a una borsetta di pelle marrone, aperta, c’era un robusto martello che, soprattutto nella parte a due punte, era costellato di macchie di sangue, visibili anche sul manico di legno.
La prima reazione del Gamberini fu quella di darsela a gambe: non ci voleva l’acume di Sherlock Holmes per capire che la donna era stata ammazzata, per di più con un martello che avrebbe anche potuto essere suo. “Quasi quasi me ne vado e torno fra mezz’ora, quando saranno arrivati anche gli altri” pensò in un primo momento, ma in un attimo recuperò il suo sangue freddo e, cercando di ragionare con calma, si rese conto, essendo tutt’altro che stupido, che nessuno avrebbe potuto accusarlo di essere l’assassino, perché, a occhio e croce, il sangue rappreso provava che la giovane non era morta da pochi minuti, ma probabilmente molte ore prima, quando lui se ne stava ancora al paesello, o al massimo sul treno. A queste considerazioni, degne di un medico legale, si aggiunse la voce del suo senso civico, che lo spingeva a segnalare il fatto a chi di dovere. Pertanto, il giovanotto prese la decisione di avvisare subito la polizia: si recò in un bar di via Tadino distante una ventina di metri, raccontò della sua scoperta al padrone del locale e si fece chiamare il commissariato di zona, il Porta Venezia, denunciando l’accaduto all’agente che ricevette la chiamata.
Il centralinista Maiocchi, davanti a un caso di omicidio, passò la comunicazione direttamente al commissario capo Mario Arrigoni. Il quale, ascoltato il resoconto del muratore, lo pregò di non muoversi e di aspettare il suo arrivo. Dopo di che, avvisati la Scientifica e l’ufficio del medico legale, convocò immediatamente i suoi più stretti collaboratori: l’ispettore Giovine e l’agente Di Pasquale. Il vicecommissario capo Mastrantonio era in permesso per motivi familiari.
«Buongiorno a tutti, abbiamo giusto il tempo di un caffè, che Maiocchi ci sta già preparando, e poi ci dobbiamo catapultare in un cantiere in via Boscovich, dove, pochi minuti fa, è stato rinvenuto il cadavere di una giovane donna, molto probabilmente uccisa a martellate. Non chiedetemi altro, perché non saprei che cosa rispondere, spero di scoprire qualcosa di più sul posto. Siete disponibili questa mattina?»
«Non ho niente in ballo che non possa essere rimandato di qualche ora» rispose l’ispettore, mentre Di Pasquale si limitò a un cenno di assenso.
«Di Pasquale, è di cattivo umore?» chiese Arrigoni, cui non era sfuggita l’aria assente del giovane napoletano. «Se la preoccupa la sua futura nomina a brigadiere, stia tranquillo. Gli esami li ha passati, abbiamo la parola del vicequestore, è cosa fatta: superata qualche lungaggine burocratica, fra non molto avremo finalmente un brigadiere in commissariato. Ecco, bravo, si faccia tornare quel sorriso che mette allegria» commentò notando il repentino cambio di umore del sottoposto. «E adesso, via verso il cantiere!»
Quando i tre poliziotti raggiunsero il cantiere, erano già sul posto gli uomini della Scientifica e due rappresentanti dell’ufficio del medico legale, compreso il gran capo dottor Mariotto. Questi era una vecchia conoscenza di Arrigoni, tra i due negli anni si era instaurato un rapporto quasi di amicizia, nonostante l’inguaribile vizio del medico di tenere sulla corda l’interlocutore, non risparmiandogli battute improntate alla più perfida ironia, come quella con cui accolse il commissario:
«Caro Arrigoni, eccole scodellato un altro delitto. Senz’altro il suo leggendario acume investigativo in quattro e quattr’otto ne scoprirà l’autore» esordì indicando il cadavere.
«Fa presto lei a parlare» ribatté Arrigoni. «Il suo compito finisce subito: taglia, cuce, ci dà le informazioni che vuole quando vuole, e poi tocca a noi sbrigarcela. Mi lasci dare un’occhiata.»
Seguito da Giovine e Di Pasquale, il commissario si avvicinò al cadavere e verificò l’esattezza della descrizione fornita dal muratore in merito alla posizione della donna, alla probabile causa della morte e all’arma del delitto. Decise di lasciar lavorare in pace i tecnici della Scientifica e partì all’assalto del dottor Mariotto:
«Dottore, mi potrebbe dire...»
«Arrigoni, non le posso dire proprio niente» lo bloccò subito il medico. «Sono qui da pochi minuti e vedo quello che può vedere anche lei: c’è una fanciulla morta, alla quale hanno spaccato la testa, molto probabilmente con il martello che le giace accanto, che infatti reca più che evidenti tracce di sangue. Non so che cos’altro potrei dirle. Porti pazienza...»
«Non le sto chiedendo di fare un’autopsia all’ingrosso» insistette Arrigoni, «ma almeno sull’ora della morte potrebbe un pochino sbilanciarsi, anche a spanne...»
«Ah, benedett’uomo, e dire che lei non è un novellino... che domande mi fa? Ma siccome sono generoso, una cosa gliela anticipo: la giovane non è stata uccisa né mezz’ora né poche ore fa, questo è sicuro. Mi lasci fare il mio mestiere e sarò più preciso. Quando la Scientifica avrà finito i suoi rilievi, porteremo via il cadavere e ci lavoreremo sopra, il prima possibile. Contento?»
Borbottando un ringraziamento, il commissario si avvicinò agli uomini della Scientifica, il cui capo, tale Violano, riferì le prime evidenze emerse dai controlli:
«Il martello è sicuramente l’arma del delitto, ma le dico subito che le molte impronte sul manico sono talmente confuse e sovrapposte che sarà impossibile decifrarle. Nella borsetta, oltre alle solite cose, abbiamo trovato un mazzo di chiavi e un portafogli contenente il documento d’identità della defunta, ma, stranamente, nemmeno l’ombra di una banconota.»
«Grazie, Violano. Le rilascio regolare ricevuta e mi prendo la carta d’identità e le chiavi. Resto in attesa del suo rapporto definitivo.»
Prima di abbandonare il cantiere, Arrigoni decise di scambiare due parole con il giovanotto che aveva trovato il cadavere, il quale se ne stava in disparte insieme con altri colleghi che nel frattempo avevano raggiunto il posto di lavoro.
L’emozionatissimo Gamberini non aggiunse nulla al contenuto della sua comunicazione telefonica, precisando, a domanda del commissario, di non aver incontrato nessuno nelle vicinanze, né prima né al momento del ritrovamento del cadavere. In quanto alla vittima, non l’aveva mai vista né conosciuta. Il fatto che fosse arrivato di prima mattina dal suo paese nel Bergamasco, con tanto di compagni di viaggio che potevano confermarlo, rifletté Arrigoni, lo escludeva automaticamente da ogni sospetto in merito all’omicidio. A ogni buon conto, lasciò Di Pasquale a raccogliere dichiarazioni e generalità delle maestranze occupate nel cantiere, mentre lui e l’ispettore si sedettero sul bordo della fontana di via Benedetto Marcello per esaminare il materiale consegnato dalla Scientifica.
Quel punto era un angolo di Milano molto amato dal commissario, per alcune sue piccole perle architettoniche, a cominciare dalla fontana stessa. Una vasca di dimensioni modeste, molto graziosa e ben proporzionata, dal perimetro in cemento molto “mosso” che alternava le parti arrotondate con quelle squadrate rettangolari. L’acqua usciva allegramente sia dalla vaschetta centrale sia da tre piccole sculture a forma di pigna. Di fronte, c’era la caserma dei pompieri, un basso edificio di inizio secolo, con la facciata di un giallo carico nella parte bassa che terminava al piano superiore con una parete di mattoni pieni a vista e un ardito triangolo proteso verso il cielo. Il palazzo era in realtà la prima di tre costruzioni perfettamente identiche che, partendo da via Benedetto Marcello, proseguivano in via Boscovich e finivano con la sede dei Vigili Urbani, in via Settala, di fronte all’Oratorio di San Gregorio. Infine, poco prima di via San Gregorio, si ergeva la Casa del Soldato, un edificio in stile littorio-razionalista, sede di una caserma che, la domenica pomeriggio, si trasformava in una sala da ballo frequentata soprattutto da militari e donne di servizio. Opere realizzate nel rispetto della solidità e dell’armonia con il panorama circostante, benché destinate a usi pubblici (caserme, scuole e quant’altro).
Sotto un bel sole primaverile, rallegrati dal chioccolìo dell’acqua, Arrigoni e Giovine esaminarono le chiavi e i documenti rinvenuti nella borsetta della vittima.
«Queste sono delle normalissime chiavi da serratura più o meno casalinga, niente a che fare con cassette di sicurezza o casseforti» iniziò Arrigoni. «Vediamo che cosa ci dice il documento d’identità. Dunque: Gemma Salvadori, nata a Brescia il 12 marzo del 1931, dunque ventiduenne, nubile, di professione infermiera. In quanto all’abitazione, la poveretta viveva a due passi da dove l’hanno ammazzata, in via Tadino, probabilmente con la famiglia.»
«Commissario, via Tadino è proprio nel nostro destino, anche se questa volta non vi è stato commesso alcun delitto» fece notare l’ispettore.
«Destino o no, adesso il dovere ci impone di andarci, in via Tadino, per comunicare la notizia del decesso ai familiari. Giovine, lei torni pure in commissariato, ci vado con Di Pasquale, due persone bastano e avanzano.»
Dirigendosi verso l’abitazione della vittima, Di Pasquale riferì la sintesi dei suoi colloqui con gli operai del cantiere, escludendo ogni loro possibile coinvolgimento nel delitto.
Toccò poi al commissario esporre quelle che sarebbero state le prime mosse dell’inchiesta:
«Prima di ogni passo ufficiale, vorrei tentare di portare a casa qualche informazione sulla vittima, approfittando del fatto che fra pochi minuti incontreremo la portinaia dello stabile. La quale, se renderà onore alla tradizione della categoria, le farà riempire il taccuino di appunti, caro Di Pasquale. Attenzione, però: non le riveleremo subito che la sua inquilina è stata uccisa... voglio che si esprima con la massima libertà, senza essere condizionata da più o meno autentici sensi di rispetto verso una defunta.»
I due si fermarono davanti a un edificio ben tenuto, con la facciata di una calda tonalità di giallo rinfrescata di recente. Varcato il portone, sulla destra c’era la guardiola della custode, al momento vuota, in quanto la titolare era impegnata a spazzare il cortile con una robusta ramazza di saggina. La donna, come minimo sessantenne, alta e molto magra, capelli bianchi raccolti sulla nuca, indossava un vecchio grembiule grigiastro, pieno di macchie dall’origine indecifrabile. Completava l’abbigliamento un paio di sdrucite pantofole marroni risalenti probabilmente al periodo anteguerra. Squadrata la coppia di visitatori, la ben nota divisa del giovane agente le rivelò chi si trovava di fronte. “Quando c’è di mezzo la pula, ci sono guai in vista!” pensò con un misto di apprensione e curiosità, interpellando immediatamente Arrigoni, che, essendo in borghese, era secondo lei il più alto di grado.
«Buongiorno, capo. Sono Onorina Ferrario, la custode. In che cosa posso servirvi?» esordì.
Arrigoni, dopo essersi presentato, astutamente iniziò il colloquio gratificando la donna con un accenno alla comune milanesità:
«Signora, dal suo accento ho capito che siamo tutti e due figli del nost Milàn, ambrosiani nati all’ombra della Madonnina!»
«La mia famiglia è milanese da generazioni, caro commissario. Si sente che anche lei è di queste parti, ma il suo agente el me pàr propi un terùn» rispose prontamente la custode, non rinunciando a un poco simpatico riferimento al povero Di Pasquale.
«Un meridionale, ma di quelli buoni, si fidi, ghel dìsi mì!»
Rotto il ghiaccio con il preambolo meneghino, Arrigoni reindossò i panni dell’investigatore, mentre Di Pasquale metteva mano al taccuino.
«E adesso veniamo al motivo della nostra visita, cara signora. Vorremmo che lei ci desse qualche informazione su una inquilina della casa, la signorina Gemma Salvadori.»
Rassicurata e galvanizzata dalla “parentela” con l’illustre poliziotto, la donna partì in quarta. Tanta era la voglia di compiacere l’interlocutore e di dimostrare quanto la sapesse lunga su fatti e persone del caseggiato che nemmeno le venne in mente di chiedere al commissario il motivo della richiesta:
«Ah, la Gemma, la conosco bene! È arrivata qui che era ancora una bambina, una decina di anni fa, quando il padre, impiegato alle Ferrovie Nord, è stato trasferito a Milano. La madre lavora a mezza giornata da una modista. Brava gente, insomma.»
«E la figlia?»
«Eh, la Gemma è sempre stata, come si dice, croce e delizia per i genitori, una ragazza con tanti grilli per la testa e una passione esagerata per i vestiti. Meno male che adesso si è sistemata come aiuto infermiera alla clinica Santa Sabrina, in via Benedetto Marcello. Se la passa molto bene, a quanto dicono, è entrata nelle grazie del padrone, il dottor Francesco Vinciguerra, un medico molto conosciuto in zona, anche...» aggiunse facendo impudentemente l’occhiolino al commissario «per la sua fama di cacciatore di sottane.»
Arrigoni, benché soddisfatto per le parole che, pur se alla rinfusa, la custode gli aveva spontaneamente riversato addosso, ritenne opportuno interromperla per invitarla a dare un ordine più logico alle sue esternazioni:
«Mi scusi, signora Onorina: lei prima mi dice che la signorina è ...