
- 348 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Voglio una vita a forma di me
Informazioni su questo libro
Non voglio fare la figura della cicciona che finisce con il sedere per terra.
Non sono così ingenua. So benissimo che non vincerò.
Nemmeno lo voglio, del resto.
Quello che voglio è salire su quel palco e dimostrare al mondo che ho tutti i diritti per farlo.
Domande frequenti
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Informazioni
Print ISBN
9788804664956eBook ISBN
97888520760461
Tutte le cose più belle della mia vita sono cominciate con una canzone di Dolly Parton. Compresa la mia amicizia con Ellen Dryver. La canzone che ha siglato il nostro sodalizio è stata Dumb Blonde, dall’album di esordio del 1967, Hello I’m Dolly. L’estate prima dell’inizio delle elementari, mia zia Lucy aveva legato con la signora Dryver per via della comune passione per Dolly Parton. Mentre loro due sorseggiavano tè freddo in sala da pranzo, io e Ellen ce ne stavamo sul divano a guardare cartoni alla tivù, senza sapere bene come prenderci. Un pomeriggio, però, dallo stereo della signora Dryver è uscita quella canzone. Ellen si è messa a battere il tempo con il piede, io a canticchiare a labbra strette e, prima ancora che Dolly iniziasse a intonare il ritornello, stavamo girando in tondo cantando a squarciagola. Per fortuna, la nostra amicizia e la passione per Dolly è durata molto più a lungo di una canzone.
Aspetto Ellen davanti alla jeep del suo ragazzo, con i piedi che affondano nell’asfalto arroventato del parcheggio della scuola. Mi sforzo di non farmi prendere dallo sconforto mentre la osservo sgusciare nel flusso di studenti all’uscita.
El è tutto quello che io non sono. Alta, bionda, e con quel modo di fare da svampita, tipico dei personaggi femminili delle commedie romantiche, eppure paradossalmente sexy, di chi si è sempre sentito bene nella propria pelle.
Non vedo Tim, il suo ragazzo, ma di sicuro le starà al traino con il naso immerso nel cellulare per rifarsi del tempo perduto durante le lezioni.
La prima cosa che ho notato di lui è che era più basso di Ellen di quasi dieci centimetri, ma per lei non è mai stato un problema. Quando le ho fatto osservare la differenza di altezza, lei è arrossita fino al collo e ha sorriso: «Non è tenero?».
El arriva di corsa e mi si pianta davanti con il fiatone. «Stasera lavori, giusto?»
Mi schiarisco la voce: «Già ».
«Fai ancora in tempo a trovarti un lavoretto estivo al centro commerciale, Will.» Si appoggia all’auto e mi dà un colpetto con la spalla. «Insieme a me.»
Scuoto la testa. «Io mi trovo bene da Harpy’s.»
Un enorme SUV si dirige a tutta velocità verso l’uscita del parcheggio.
«Tim!» strilla El.
Tim si ferma di botto e ci saluta, evitando per un pelo di essere investito dal SUV che gli sfreccia accanto in quell’istante.
«Porca miseria!» dice El a un volume di voce che solo io posso sentire.
Sono decisamente fatti l’uno per l’altra.
«Grazie per l’avvertimento!»
Nel bel mezzo di un’invasione aliena Tim non troverebbe niente di meglio da dire che «Forte!».
Una volta attraversato il parcheggio, si infila il cellulare in tasca e la bacia. Non un bacio di quelli volgari, con una spanna di lingua, ma piuttosto del tipo: ciao, mi sei mancata, sei carina come il giorno del nostro primo appuntamento.
Mi lascio sfuggire un gemito sommesso. Se potessi evitare di avere continuamente davanti agli occhi gente che si bacia, sono convinta che la mia vita sarebbe almeno del due per cento più appagante.
Non che sia invidiosa di Ellen e Tim, o che consideri Tim un rivale. E non voglio nemmeno essere al posto di Ellen. Vorrei solo avere quello che hanno loro. Qualcuno da salutare con un bacio.
Rivolgo lo sguardo oltre loro due, verso la pista di atletica che circonda il campo da football. «Che stanno facendo quelle?» Un gruppetto di ragazze in calzoncini rosa e top coordinato sta correndo lungo la pista.
«Si allenano per il concorso di bellezza» spiega El. «Il corso preparatorio dura tutta l’estate. Lo so perché ci va una delle ragazze che lavora insieme a me.»
Non tento nemmeno di nascondere l’esasperazione. Clover City non è certo una località rinomata. Ci sono stagioni in cui la nostra squadra di pallacanestro si qualifica per i play-off e ogni tanto qualcuno riesce ad andarsene per realizzare qualche impresa degna di nota. L’unica gloria della nostra cittadina è il concorso per reginette di bellezza più antico del Texas. Il concorso di Miss Teenager Bluebonneta risale agli anni Trenta, e con il passare del tempo è diventato una manifestazione sempre più pomposa e ridicola. Io ne so qualcosa, dato che da quindici anni a questa parte mia madre è a capo del comitato organizzativo.
Dopo aver sfilato le chiavi della macchina dalla tasca davanti dei calzoncini di Tim, El allunga un braccio e mi stringe a sé. «Buon lavoro. Stai attenta a non schizzarti di unto o di chissà quale altra schifezza.» Apre la portiera dal lato di guida e fa a Tim, dall’altra parte: «Tim, augura buona giornata a Will». Nell’istante in cui fa capolino da sopra il tettuccio, vedo quel sorriso che piace tanto a El. «Will.» Anche se sta con il naso costantemente immerso nel cellulare, quando parla… be’, ha quel qualcosa che fa presa su una ragazza come El. «Ti auguro una buona giornata» e si piega in un inchino a quarantacinque gradi.
El alza gli occhi al cielo, si sistema dietro il volante e si infila una gomma in bocca.
Rispondo al saluto con un cenno della mano. Ho quasi raggiunto la macchina quando mi sfrecciano accanto e Ellen mi urla di nuovo ciao, con Why’d You Come in Here Lookin’ Like That di Dolly Parton sparata a tutto volume dagli altoparlanti.
Mentre cerco le chiavi nella borsa, con la coda dell’occhio vedo Millie Michalchuk scendere dal marciapiede e attraversare il parcheggio con la sua andatura da papera.
Capisco subito quello che sta per succedere. Addossato alla monovolume dei genitori di Millie c’è Patrick Thomas, probabilmente il più grande stronzo mai esistito sulla faccia della terra. Patrick possiede la particolare abilità di trovare sempre un soprannome per chiunque. A volte sono nomignoli azzeccati, ma per lo più tira fuori chicche come Haaaaannaaah pronunciato imitando il nitrito di un cavallo, perché la ragazza in questione ha… insomma, una dentatura da cavallo. Divertente, eh?
Devo ammettere, con una certa vergogna, che guardando Millie mi sono sempre detta: poteva andare peggio. Io sono grassa, ma Millie è costretta a portare solo pantaloni con la cintura elastica perché non esistono pantaloni della sua taglia con i bottoni o la cerniera. Ha gli occhi troppo vicini e le narici strette. Porta sempre camicie a fantasia di gattini o cagnolini, purtroppo senza nessuna ironia.
Patrick blocca la portiera dal lato di guida e i suoi compari si sono già messi a grugnire come un branco di maiali. Millie ha preso la patente da poco, ma da come sgomma sulla monovolume dei suoi si direbbe alla guida di un’auto sportiva.
Un attimo prima che Millie svolti l’angolo e scorga quella manica di idioti intorno alla macchina, la chiamo: «Ehi, Millie! Vieni qui!».
Lei si sistema lo zainetto sulle spalle e cambia direzione, venendomi dritta incontro con un sorrisone che spinge le sue guanciotte rosee così in alto che quasi toccano l’orlo delle palpebre. «Ehilà , Willie!»
Sorrido. «Ciao!» Non so bene che cosa dirle ora che è di fronte a me. «Congratulazioni per la patente.»
«Grazie.» Sorride di nuovo. «È molto carino da parte tua.»
Oltre la sua spalla vedo Patrick Thomas schiacciarsi la punta del naso con il dito per imitare il grugno di un maiale.
Ascolto Millie che mi racconta di aver dovuto cambiare la preselezione delle stazioni radio di sua madre e della prima volta che ha fatto benzina.
Patrick rivolge la sua attenzione su di me. È il genere di ragazzo da cui speri di non farti mai notare, ma è inutile da parte mia illudermi di essere invisibile. Un elefante non si può nascondere.
Millie continua a chiacchierare finché Patrick e i suoi amici si stufano e se ne vanno. Lei gesticola, indicando la macchina alle sue spalle: «Cioè, a scuola guida mica ti insegnano a fare benzina, eppure…».
«Ehi» la interrompo, «scusami, ma devo andare, altrimenti faccio tardi al lavoro.»
Millie annuisce.
«E comunque, congratulazioni ancora.»
Resto a guardarla mentre raggiunge la macchina e aggiusta gli specchietti prima di uscire in retromarcia dalla piazzola nel parcheggio semideserto.
Posteggio dietro Harpy’s Burgers & Dogs, passo dal drive-in e suono alla porta di servizio. Dato che non risponde nessuno, suono di nuovo. Il sole texano mi picchia sulla testa.
Mentre aspetto, un tipo viscido con un cappello da pesca e una canottiera lercia accosta al drive-in e ordina un hamburger, elencandone puntigliosamente gli ingredienti, fino al numero esatto di cetriolini. La voce al citofono gli comunica l’importo da pagare. Il tipo mi squadra da sopra le lenti arancioni degli occhiali da sole e dice: «Ehilà , bella culona».
Io mi giro di scatto, tirandomi il vestito sulle cosce e pigio il campanello quattro volte di fila. Mi si stringe lo stomaco per l’imbarazzo.
Il fatto è che non sono obbligata a portare la gonna. La divisa da lavoro prevede anche un’opzione pantaloni, ma la cintura elastica dei pantaloni in poliestere non è abbastanza elastica per i miei fianchi. La colpa è dei pantaloni. Tendo a considerare i miei fianchi un pregio piuttosto che una iattura. Tipo, se fossimo, che so, nel 1642, il mio florido bacino farebbe salire le mie quotazioni a un discreto numero di mucche, per dire.
Finalmente la porta si schiude e sento la voce di Bo. «Ti avevo già sentito le prime tre volte.»
Mi tremano le ossa. Non lo vedo finché non apre un po’ di più la porta per farmi entrare. La luce naturale gli passa radente la faccia. Ha un’ombra di barba su mento e guance. Segno di libertà . La scuola di Bo – un esclusivo collegio cattolico con regole ferree sull’abbigliamento – è finita prima questa settimana.
L’auto alle mie spalle tossicchia e io mi intrufolo di corsa. Mi ci vuole un secondo per abituarmi alla luce fioca. «Scusa il ritardo, Bo.» Bo. Mi piace il modo in cui quella sillaba mi sobbalza nel petto. Apprezzo la perentorietà di un nome così corto. È il genere di nome che esprime certezza: Sì, sono sicuro.
Sento montare dentro una vampa che sale fino ad accendermi le guance. Mi passo le dita lungo il profilo della mascella mentre i piedi mi affondano nel cemento come nelle sabbie mobili.
La verità è che ho una cotta tremenda per Bo dalla prima volta che l’ho visto. Con quella meravigliosa zazzera di capelli castani arruffati e la ridicola divisa bianca e rossa. Sembra un orso in tutù. Le maniche in poliestere gli tirano sulle braccia, tanto da farmi pensare che forse i suoi bicipiti e i miei fianchi hanno molto in comune. Tranne l’abilità nel sollevamento pesi. Una sottile catenella d’argento gli sbuca dal collo della maglietta e ha le labbra sempre tinte del colorante rosso dei lecca lecca che succhia in continuazione.
Allunga una mano verso di me, come per abbracciarmi. Trattengo il respiro. Ma poi espiro quando la sua mano richiude il catenaccio della porta. «Ron non c’è. Sta poco bene, perciò ci siamo solo io, te, Marcus e Lydia. Credo che Lydia abbia dovuto fare i doppi turni oggi, per cui occhio!»
«Grazie. La tua scuola ha chiuso?»
«Già . Niente più lezioni.»
«Mi piace che tu dica lezioni e non scuola. Come se fossi all’università e ci andassi giusto un paio d’ore al giorno, tra una dormita sul divano di qualcuno e…» Mi trattengo. «Vado a sistemare la mia roba.»
Bo stringe le labbra in un semisorriso. «Certo.»
Filo nello stanzino del personale e sistemo la borsa nel mio armadietto.
Non sono mai stata particolarmente loquace o espansiva, ma in presenza di Bo Larson divento logorroica. Anzi, per la precisione mi prende un’incontinenza ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- 1
- 2
- 3
- 4
- 5
- 6
- 7
- 8
- 9
- 10
- 11
- Due mesi dopo
- Ringraziamenti
- Copyright