Trigger Warning - Leggere attentamente le avvertenze
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Trigger Warning - Leggere attentamente le avvertenze

  1. 312 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Trigger Warning - Leggere attentamente le avvertenze

Informazioni su questo libro

Trigger Warning è un'espressione che si incontra a volte navigando in Internet e che segnala la presenza di un contenuto difficile da maneggiare, immagini o concetti che potrebbero turbare i visitatori. Da qualche parte nel mondo, alcune università stanno valutando l'ipotesi di mettere un trigger warning anche su opere letterarie e artistiche che potrebbero spaventare o inquietare gli studenti.

Ma le storie, ci suggerisce Neil Gaiman, non avrebbero forse sempre bisogno di questa avvertenza? Attenzione, c'è un grilletto ed è pronto a sparare! Le storie infatti molto spesso turbano le nostre certezze, aprono porte che volevamo sigillate, ci tolgono il terreno sotto i piedi e ci scaraventano in luoghi oscuri e poco accoglienti. Il cuore inizia a battere più forte, manca il respiro, il passato ritorna con tutti i suoi mostri chiusi nell'armadio.

In questa raccolta di racconti c'è il meglio di Neil Gaiman, e quindi ci sono storie che potrebbero turbarvi. "In questo libro, come nella vita, ci sono morte e dolore, lacrime e disagio, violenza di tutti i tipi. C'è anche bontà, qualche volta. Persino qualche lieto fine. Ci sono mostri, in queste pagine, e dove c'è un mostro c'è anche un miracolo." Ci sono racconti lunghi e altri brevi, qualche poesia. Ma una cosa è sicura: ogni pagina di questo libro è un piccolo grilletto, e ogni volta che viene premuto nel buio, noi impariamo qualcosa di noi stessi e delle nostre vite.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804661764
eBook ISBN
9788852076381

CANE NERO

Dieci lingue in una testa avevo scorto
Una portava pane per conforto
E sfamava chi era vivo e chi era morto.
ANTICO INDOVINELLO

I
L’OSPITE DEL BAR

Fuori dal pub pioveva che Dio la mandava.
Shadow non era ancora del tutto convinto di trovarsi in un pub. Certo, c’era un piccolo bancone in fondo alla sala, con una sfilza di bottiglie lungo la parete e un paio di enormi spillatori di quelli a leva, e c’erano anche diversi tavoli e gente che intorno ai tavoli stava bevendo, eppure la sensazione era di stare in casa di qualcuno. Sensazione che i cani contribuivano a confermare. A Shadow sembrava che tutti in quel pub avessero un cane, tranne lui.
«Di che razza sono?» domandò, incuriosito. Gli ricordavano i levrieri ma erano più piccoli e parevano più equilibrati, più placidi, meno irritabili rispetto ai levrieri in cui gli era capitato di imbattersi in passato.
«Lurcher» rispose il proprietario del pub, venendo fuori da dietro il bancone. Aveva in mano una pinta di birra che si era versato per sé. «I cani migliori. Cani da bracconieri. Veloci, intelligenti, letali.» Si chinò ad accarezzare dietro le orecchie un cane dal mantello striato bianco e rossiccio. Il cane si stiracchiò crogiolandosi nelle coccole. Non pareva particolarmente letale, e Shadow lo fece presente.
Il proprietario, una zazzera di capelli tra il grigio e il rosso, si grattò la barba, assorto. «L’apparenza inganna» disse alla fine. «Stavo facendo una passeggiata con suo fratello giusto la settimana scorsa, lungo Cumpsy Lane. Ed ecco che una volpe, un bel renard rosso, caccia la testa fuori da una siepe, una ventina di metri al massimo più avanti, e poi, come se niente fosse, attraversa lemme lemme la stradina. Be’, Needles la vede e le corre dietro come un fulmine. Un attimo e le aveva già affondato i denti nel collo. Un morso, una scrollata decisa ed è tutto finito.»
Shadow esaminò Needles, un cane grigio che dormiva davanti al piccolo camino. Anche lui sembrava innocuo. «E che tipo di razza è un lurcher? È una razza inglese, sì?»
«Veramente non è una razza» intervenne una signora dai capelli bianchi senza cane che intanto aveva ascoltato da un tavolo vicino. «Vengono incrociati per ottenere velocità, resistenza. Pastore scozzese, levriero, collie.»
L’uomo accanto a lei alzò il dito. «Deve capire» disse con l’espressione bonaria, «che una volta era la legge a stabilire chi poteva possedere un cane purosangue. Al popolino era vietato, ma poteva possedere i meticci. E i lurcher sono superiori e più veloci rispetto ai cani di razza.» Il tizio spinse indietro gli occhiali con la punta dell’indice. Aveva la barba a scopettoni, di un castano screziato di bianco.
«Se vuoi il mio parere, un meticcio è sempre meglio di qualcosa di razza» disse la donna. «Ecco perché l’America è un paese così interessante. È piena di meticci.» Shadow non sapeva darle un’età. I capelli erano bianchi, ma sembrava più giovane di quanto la sua chioma facesse pensare.
«Per la verità, cara» replicò l’uomo con gli scopettoni, con la sua voce pacata, «studiando l’argomento si scopre che gli americani tengono ai cani di razza più degli inglesi. Ho conosciuto una signora dell’American Kennel Club e, sinceramente, mi ha fatto paura. Ero spaventato.»
«Non stavo parlando di cani, Ollie. Stavo parlando di… Bah, lasciamo perdere.»
«Che cosa beve?» chiese il proprietario del pub.
Un foglietto di carta scritto a penna e appiccicato al muro vicino al bancone invitava i clienti a non ordinare lager «poiché un pugno in faccia spesso offende».
«Cosa c’è di buono e di produzione locale?» domandò Shadow, il quale aveva imparato che il più delle volte era la cosa più saggia da dire.
Il proprietario e la donna avevano diversi suggerimenti su quali dei vari sidri e birre locali erano buoni. Il piccoletto con gli scopettoni li interruppe per osservare che secondo lui il concetto di “buono” non poteva consistere semplicemente nell’evitare il male ma in qualcosa di più positivo: ossia rendere il mondo un posto migliore. Poi si mise a ridacchiare, per far capire che stava solo scherzando, che lo sapeva che la conversazione riguardava in realtà soltanto cosa prendere da bere.
La birra che il proprietario gli versò era scura e molto amara. Shadow non era sicuro che gli piacesse. «Che cos’è?»
«È una Cane Nero» rispose la donna. «Pare che si chiami così per la sensazione che ti prende dopo che te ne sei fatte troppe.»
«Come gli umori di Churchill» spiegò il piccoletto.
«In realtà la birra prende il nome da un cane dei dintorni» intervenne una donna più giovane. Portava un maglione verde oliva ed era in piedi contro il muro. «Ma non un cane vero. Semi-immaginario.»
Shadow guardò Needles, poi esitò. «Gli si può grattare la testa?» chiese, ripensando alla triste sorte della volpe.
«Certo che sì» rispose la donna dai capelli bianchi. «Lo fa impazzire. Vero, Needles?»
«Be’. Praticamente a quel coglione di Glossop gli ha staccato un dito» disse il proprietario. C’era ammirazione mista a monito nella sua voce.
«Ma se non sbaglio era un pezzo grosso dell’amministrazione locale» ribatté la donna. «E io sono sempre stata del parere che non ci sia niente di male se i cani mordono quelli là. O gli ispettori delle tasse.»
La donna col maglione verde si avvicinò a Shadow. Non aveva il bicchiere in mano. I capelli erano neri e corti, e una nuvola di lentiggini le tempestava il naso e le guance. Guardò Shadow. «Tu non sei dell’amministrazione locale, vero?»
Shadow fece di no con la testa. Disse: «Io sono una specie di turista». Non è che fosse del tutto falso. Era in viaggio, ecco.
«È canadese?» domandò il tizio con gli scopettoni.
«Americano. Ma sono in giro ormai da un sacco di tempo.»
«Allora» disse la donna dai capelli bianchi, «non è proprio un turista. I turisti arrivano, visitano il posto e tornano a casa.»
Shadow fece spallucce, sorrise e si chinò. Grattò il lurcher del proprietario del pub dietro la nuca.
«Tu non sei uno da cani, vero?» chiese la donna dai capelli neri.
«Io non sono uno da cani» disse Shadow.
Fosse stato un altro, uno che parla di quello che succede dentro la propria testa, Shadow avrebbe potuto raccontarle che sua moglie da giovane aveva avuto diversi cani e che a volte si rivolgeva a lui chiamandolo “cucciolo”, perché voleva un cane che non poteva avere. Ma Shadow era uno che si teneva le cose dentro. Era una delle caratteristiche che gli piacevano degli inglesi: anche quando vogliono sapere cosa ti succede dentro, non te lo chiedono. Il mondo dentro resta il mondo dentro. Sua moglie era morta ormai da tre anni.
«Se vuole il mio parere» disse l’uomo con gli scopettoni, «le persone si dividono in persone da cani e persone da gatti. Perciò lei si considererebbe una persona da gatti?»
Shadow rifletté. «Non so. Quando ero piccolo non avevamo animali domestici, cambiavamo casa di continuo. Però…»
«Lo dicevo» riprese l’altro, «perché il nostro ospite ha anche un gatto, che magari le farebbe piacere vedere.»
«Una volta stava qui, ma lo abbiamo trasferito nell’altra sala» gli fece eco il proprietario da dietro il bancone.
Shadow si chiese come riuscisse a seguire la conversazione con tanta facilità mentre prendeva le ordinazioni delle pietanze e serviva da bere. «Dava fastidio ai cani?» domandò.
Fuori la pioggia si intensificò. Il vento muggì, fischiò e poi ululò. Il fuoco di tronchetti acceso nel piccolo camino scoppiettò e sfrigolò.
«Non nel senso che pensa lei» rispose il proprietario. «Lo trovammo quando tirammo giù un pezzo di muro per fare una porta di comunicazione con la stanza accanto, visto che avevamo bisogno di allargarci.» L’uomo sorrise. «Venga a vedere.»
Shadow seguì il proprietario del pub nella stanza attigua. Li accompagnarono anche il tizio con gli scopettoni e la donna dai capelli bianchi, restando qualche passo indietro rispetto a Shadow.
Shadow si lanciò un’occhiata alle spalle, verso la sala da bar. La donna con i capelli neri lo stava osservando, e sorrise calorosamente quando i loro sguardi si incrociarono.
La stanza attigua era più grande e meglio illuminata, e dava meno la sensazione di essere il soggiorno di una casa privata. C’era gente seduta ai tavoli, a mangiare. Il cibo aveva un bell’aspetto e un profumo ancora più invitante. Il proprietario condusse Shadow dalla parte opposta, dove era sistemata un teca di vetro ricoperta di polvere.
«Eccolo» annunciò orgoglioso.
Era un gatto marrone e a prima vista dava l’impressione di essere stato realizzato impiegando tendini e sofferenza. I buchi che un tempo erano stati gli occhi erano riempiti di rabbia e di dolore; la bocca era spalancata, come se il povero animale fosse stato fermato nell’atto di gemere, quando lo avevano trasformato in cuoio.
«La pratica di mettere animali nei muri degli edifici è analoga a quella di murare vivi i bambini nelle fondamenta di una casa per non farla crollare» spiegò il tizio con gli scopettoni, da dietro. «Anche se a me i gatti mummificati fanno sempre pensare a quelli che rinvennero intorno al tempio di Bastet a Bubasti, in Egitto. Talmente tante tonnellate di gatti mummificati che li spedirono in Inghilterra per triturarli e farne fertilizzanti a buon mercato da gettare nei campi. I vittoriani ci facevano anche una vernice, con le mummie. Una specie di marrone, se non sbaglio.»
«Ha un’aria infelice» osservò Shadow. «Quanti anni può avere?»
Il proprietario si grattò la guancia. «Secondo i nostri calcoli, il muro dentro il quale si trovava fu eretto tra il 1300 e il 1600. Questo dai registri della parrocchia civile. Nel 1300 qui non c’è niente, nel 1600 c’è una casa. Qualsiasi informazione sul periodo di mezzo è andata perduta.»
Il gatto morto custodito nella teca, senza pelo e dalla consistenza del cuoio, sembrava osservarli dai buchi neri e vuoti dei suoi occhi.
Ovunque vada la mia gente, là io ho occhi, sussurrò una voce nella testa di Shadow. Che per un istante pensò ai campi fertilizzati con le mummie dei gatti, a quali strane messi dovevano produrre.
«Nel fianco di una vecchia casa lo misero» disse l’uomo chiamato Ollie. «Là visse e là morì, mai libero. Ed essi non piansero né risero. Veniva murato di tutto, per assicurare protezione e saldezza alle cose. Bambini, talvolta. Animali. Una pratica abituale nella costruzione delle chiese.»
La pioggia marcava un aritmico picchiettio sul vetro della finestra. Shadow ringraziò il proprietario per avergli mostrato il gatto e tutti insieme tornarono nella sala da bar. Nel vedere che la donna dai capelli neri non c’era più, Shadow ebbe un moto di rimpianto. Gli era parsa così affabile. Offrì da bere al tizio con gli scopettoni, alla donna dai capelli bianchi e al proprietario del pub.
Quest’ultimo tornò dietro il bancone. «Mi chiamano Shadow» annunciò loro Shadow. «Shadow Moon.»
L’uomo con gli scopettoni giunse le mani divertito. «Oh! Ma che bello. Io, da bambino, avevo un als...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. TRIGGER WARNING
  5. HO FATTO UNA POLTRONA
  6. IL LABIRINTO LUNARE
  7. LA PARTICOLARITÀ DI CASSANDRA
  8. IN UN MARE SENZA SOLE
  9. “LA VERITÀ È UNA GROTTA SULLE MONTAGNE NERE…”
  10. LA MIA ULTIMA AFFITTACAMERE
  11. UN’AVVENTURA
  12. ARANCIONE. (Sommarie informazioni testimoniali, risposte a questionario scritto)
  13. ALMANACCO DI RACCONTI
  14. IL CASO DELLA MORTE E DEL MIELE
  15. L’UOMO CHE DIMENTICÒ RAY BRADBURY
  16. GERUSALEMME
  17. CLICK-CLACK SACCHETTO SBATACCHIANTE
  18. L’INCANTAMENTO DELL’INCURANZA
  19. “E PIANGERÒ, COME ALESSANDRO MAGNO”
  20. LE NIENTE IN PUNTO
  21. DIAMANTI E PERLE: UNA FIABA
  22. IL RITORNO DEL SOTTILE DUCA BIANCO
  23. DESINENZE FEMMINILI
  24. IL RISPETTO DELLE FORMALITÀ
  25. L’ADDORMENTATA E IL FUSO
  26. STREGOLOGERIA
  27. NEL RELIG ODHRÁIN
  28. CANE NERO
  29. CREDITI
  30. Copyright