Uomini pericolosi
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Uomini pericolosi

  1. 182 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Uomini pericolosi

Informazioni su questo libro

Chi sono gli uomini pericolosi? Quelli che di giorno sognano, scrisse una volta T.E. Lawrence. È su di loro che Eraldo Affinati punta il suo sguardo: il rivenditore di auto usate che, dopo aver compiuto una sparatoria, si rifugia nello zoo cittadino; Saverio Marchetti, celebre cuoco in crisi psicofisica, in procinto di ricevere la visita di tre donne che lo avevano amato; Giorgio Mastropasqua, professore di storia americana, capace d¿innamorarsi irrimediabilmente del sedere di una ragazza... Un nemico misterioso e implacabile costringe questo drappello di personaggi a una corsa folle in mezzo a semafori, binari, carrucole, pozzi. Qualcuno cade. Altri vanno avanti. Asciutta, severa, ora grottesca ora sospesa sul filo di una trattenuta commozione, la scrittura di Affinati costeggia i territori umani più inclementi, là dove l¿aria si respira a stento, ma il sangue scorre con un¿ansia dolorosa e indimenticabile.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804595601
eBook ISBN
9788852068607

IV

Le prime avanguardie sono giunte nella zona delle piscine in disuso. Con circospezione sfilano sotto vecchie insegne frantumate: Les Productions Artistes Associés, CEIAD – Columbia, Dear International. Coprendosi le spalle l’un l’altro, superano cerchi rotti, palloni sgonfi, locandine cinematografiche. Cos’era questo luogo? Uno studio di recitazione oppure un vecchio aeroporto? Pochi metri ancora e saranno temporaneamente fuori tiro. Quasi tutti riescono a saltare le reti di recinzione. Come gatti entrano nella terra di nessuno. Ora procedono sgranati all’interno della foresta. A passo lento, circospetti, si guardano intorno, allo scopo di prevenire agguati. Ognuno ha la testa in subbuglio, l’animo infervorato, i muscoli doloranti. Il fogliame nasconde portiere arrugginite, resti di utensili domestici, bambole senza testa. Nei pianori circostanti compaiono tavole imbandite dove gruppi di famiglie stanno pranzando.

L’unicorno

«Meno di un mese di vita.»
Nada Comacina, al clic del telefono, sentì scoccare un colpo di frusta dentro se stessa, come se qualcuno, dopo troppo tergiversare, l’avesse richiamata all’ordine. Conservava ancora il vecchio indirizzo di Ulisse; chiamò il dodici: le dissero ch’era cambiato.
«Ulisse Dragosei? Non risulta negli elenchi.»
Aveva ricevuto una comunicazione del dottore su ordine dello stesso paziente.
«Inoperabile.»
«Perché?»
Presa alla sprovvista, non seppe aggiungere altro. Ulisse, ancora una volta, lasciava a lei l’iniziativa. Si ripresentava a distanza di vent’anni per interposta persona, in fin di vita. Vent’anni di assoluto silenzio durante i quali non si erano mai sentiti. Nemmeno una parola. Non sapevano niente l’uno dell’altra. Come aveva fatto a scoprirla? Questo si poteva spiegare. Il cognome era sempre quello, lei abitava nel solito appartamento: mai mossa di lì. E adesso, in che modo avrebbe dovuto regolarsi? Andare a fargli visita? Sarebbe stata in grado di riconoscerlo nelle condizioni in cui, presumibilmente, si trovava?
La madre di Nada cominciò a smaniare: non tollerava ritardi nella tabella di marcia.
«Arrivo, aspetta un minuto!»
Passò in cucina a condire l’insalata. Afferrando la bottiglietta, si unse d’olio e imprecò.
«Poco sale, sta’ attenta!»
Vanessa continuava a sbraitare. Era fatta così: i caratteri restano uguali, mentre il fisico perde elasticità, va in mille pezzi. A tavola madre e figlia si ricompattarono.
«Chi ha telefonato?»
«Un vecchio amico, mamma; pensa a mangiare.»
«Non potresti essere più precisa? Un vecchio amico non significa niente; ti ho chiesto chi era, voglio nome e cognome; dimmelo subito, altrimenti mi agito.»
«Vuoi sapere chi era? Ulisse Dragosei, eccoti servita.»
«No, non ci credo, non è possibile.»
«E invece è possibile, mamma, possibilissimo: le sorprese sono all’ordine del giorno.»
«Quanto tempo è che non lo vedi?»
«Una vita; puoi dirlo forte: una vita.»
«E che vuole?»
«Pare sia in ospedale.»
«Lo immaginavo, si fanno sentire soltanto nei momenti del bisogno; quando stanno male, chiamano: tutti uguali.»
«Pensa a finire l’insalata, piuttosto.»
Terminato il pranzo, Nada mise a letto sua madre e si accomodò davanti al televisore. Vide lo schermo accendersi oltre le gambe fasciate nelle calze spesse, allungate sulla sedia per favorire lo scorrimento del sangue e ritardare le vene varicose a cui era predisposta. Con il telecomando a destra, il caffè a sinistra, le persiane leggermente socchiuse, cominciò a rimuginare.
Le ballerine del varietà favorivano il suo raccoglimento. Il fatto che fosse un dottore a chiamare doveva farle supporre che Ulisse era solo al mondo? Quali attività aveva praticato in tutto questo tempo? Nada guardò il soffitto, confusa. La scarna notizia che aveva ricevuto le rimbombava nella testa: meno di un mese. Inoperabile. Schiacciando i canali, Nada sovrapponeva le immagini senza soluzione di continuità. Il signor Ulisse Dragosei mi ha incaricato di riferirle questo. A me? Sì, proprio a lei. Nient’altro? Nient’altro. Il cantante sbagliava i tempi del playback. Nella stanza accanto Vanessa dormiva a bocca aperta.
Tantissimi anni prima. Terza liceo. Ultima ora di lezione. Gli alunni sono stanchi e distratti. Il supplente di storia e filosofia, un ricercatore universitario, sta interrogando Ulisse. Nada, al primo banco, è l’unica della classe ad ascoltare con attenzione.
«Ciò che dici mi sembra oltremodo interessante» esclama il professore. «Eravamo rimasti a Einstein, se non sbaglio.»
«Egli impiegò buona parte della sua vita a studiare la teoria della relatività. A un certo punto si trovò di fronte un incrocio o, se preferisce, una radura di bosco.»
Nada non sa dove vuole andare a parare il suo amico, ma intuisce che sta per accadere qualcosa d’importante. I compagni, seppure un po’ svogliati, cominciano a drizzare le orecchie.
«Prosegui nella metafora» incalza il supplente.
«C’erano almeno quattro o cinque possibili strade per giungere alla fine della ricerca; ognuna di esse avrebbe dovuto passare attraverso assidue verifiche matematiche.»
«Un lavoro di anni e anni, suppongo» dice il professore.
«Con il rischio di avere sbagliato, dover tornare indietro e cominciare da capo.»
«Vuoi dire che l’intera esistenza non sarebbe stata sufficiente a percorrerle tutte?»
«Esattamente.»
«Dimmi allora come Einstein operò la sua scelta.»
«Siamo arrivati al punto, professore.»
La classe è catalizzata. Nada osserva i due uomini che stanno parlando non più come maestro e discepolo ma da pari grado, seguendo un ragionamento comune a entrambi.
Stavolta Ulisse scandisce le parole: «Einstein si pose al centro dell’incrocio-radura e guardò le possibili vie con grande attenzione».
«Hai detto guardò; non esaminò o studiò. Guardò. Ho capito bene?»
«Ha capito benissimo, professore.»
«Vai avanti.»
Suona la campanella, gli scolari non si muovono. Vogliono sapere come andrà a finire. Nada, in testa al gruppo, pare incantata.
Ulisse conclude: «Einstein scelse la via più bella».
«La più bella?»
«Sì, la più bella.»
«Non la più congrua e plausibile?»
«No. La più bella.»
Il supplente gli chiede a bruciapelo: «Ulisse Dragosei, conosci il pizzico di follia che c’è in ogni bellezza?».
Lo scolaro non tarda a rispondere: «Lo conosco, professore».
«Naturalmente la verifica matematica diede ragione a Einstein.»
«Naturalmente.»
L’interrogazione è finita. Il professore chiama accanto a sé la classe: «Ragazzi, venite qui vicino alla cattedra».
Tutti eseguono rumorosamente, Nada compresa. Ulisse resta seduto da solo sul banco; gli altri lo fissano attoniti.
«Ecco, così!» urla il supplente. «Vedete questo giovane di fronte a voi?»
Essi rispondono in coro: «Sì, professore, lo vediamo».
«Sapete come si chiama?»
All’unisono: «Ulisse Dragosei!».
«Come immaginate il suo futuro?»
E quelli tutti insieme: «Radioso e pieno di felicità».
Il professore si alza in piedi; fissando Ulisse, li zittisce ed esclama: «Vi sbagliate, la vita lo porterà alla rovina; fra qualche anno questa dolce baldanza si trasformerà in spregiudicatezza e un corvo nero entrerà dalla finestra rubando il suo cuore di poeta».
«Nada! Nada, mi ascolti? Vieni, per favore.»
La figlia si alzò cercando le pantofole sotto il divano: «Eccomi mamma. Cosa c’è?».
«Voglio le mie orecchie! Dove hai messo le mie orecchie?»
Intendeva dire gli auricolari: li perdeva sempre, come gli occhiali e, talvolta, la parrucca. Non faceva che sbraitare, si sgolava. La vecchia Vanessa! A suo tempo, con quel nome di farfalla, era stata una donna dalla personalità fin troppo energica, impulsiva. Aveva avuto due mariti: l’amore della giovinezza, un ubriacone, durò poco. Il secondo morì per un infarto improvviso. Le restò questa figlia di primo letto che non si staccò mai da lei, anche quando trovò lavoro al Catasto. A differenza della madre, Nada non si era sposata, pur avendo avuto, come tutti, le sue storie. Belle o brutte che fossero state, erano finite.
Ulisse le aveva offerto un modello di uomo irreale. Ogni persona che incontrava, se paragonata a lui, diventava mediocre, insopportabile. Questo è normale nell’adolescenza, età dell’estremo. Eppure Nada restò legata a quell’immagine di perfezione anche dopo, quando smise di frequentarlo. Ciò avvenne presto. Ulisse s’iscrisse alla facoltà di Filosofia. Nada vinse il concorso pubblico che le consentì di essere assunta nei ranghi dello Stato.
Meno di un mese: il dottore al telefono era stato preciso. Nada rilesse l’indirizzo che frettolosamente aveva appuntato, consultò le pagine gialle, verificò dove fosse l’ospedale. Avrebbe dovuto decidersi, lo comprendeva, in poco tempo. Ogni giorno che passava, ogni ora, poteva risultare cruciale. Il loro incontro era stato una semplice fatalità? Oppure il prevedibile svolgimento di un programma stabilito che soltanto adesso trovava soluzione? Sempre Nada e Ulisse discutevano di questa classica alternativa. «Tu sei una donna» lui le diceva. «Tu, più di me, sei la natura. Dimmi: cosa ne sai del mondo?»
Erano richieste formidabili quelle che Ulisse formulava. Il fatto che potesse rivolgersi a lei con tale immediatezza, tale forza: «Tu sei una donna!», nel ricordo ancora la sorprendeva. Nessuno da allora le parlò più così. Lui poteva farlo senza che fra loro fosse mai accaduto qualcosa, al di fuori di un’amicizia totale, disinteressata: questo, ancora adesso, sbalordiva Nada Comacina.
Come era stato possibile? Ulisse le raccontava tutto di sé. Quando parlava di ideale e reale, citava casi concreti che la riguardavano direttamente. Aveva un’opinione altissima di lei. Glielo comunicò una volta con lucidità spettrale. Nada ricordava quel giorno. «Tu mi piaci anche fisicamente,» le disse «ma se consumassimo il nostro rapporto, tutto finirebbe subito.»
Lei ascoltava senza riuscire a replicare. «Io e te eleviamo a potenza il nostro desiderio,» si sentiva dire «lo facciamo restare in alto, andiamo oltre.» A diciotto anni! Quel discorso restò la loro parola d’ordine segreta, la moneta di scambio e riconoscimento che si offrirono.
Cosa le interessava di lui? Il rigore che applicava a se stesso, innanzitutto, senza accontentarsi delle spiegazioni consuete. Nada intuiva che il suo spirito polemico era uno strumento dalla lama affilata con il quale ci si poteva ferire. Specie dopo l’ammonimento del professore, non mancava di chiedersi cosa ne sarebbe stato di quell’intransigenza quando Ulisse fosse diventato adulto; in altre parole: come egli l’avrebbe utilizzata.
Del resto, in quegli anni, quali erano gli obiettivi che avevano deciso di realizzare? Cartoline bucate, stelle da sceriffo, foulard azzurri legati al collo. Tutta qui la loro libertà. Non avevano fatto nulla. Non erano andati da nessuna parte. Assenza di vittorie. Assenza di sconfitte. Erano stati alleati: la complicità costituiva l’unica trama che avevano vissuto. Nada ricordava giornate assolutamente comuni, eventi trascurabili di piccolo ribellismo giovanile: ad esempio, una volta si fecero espellere da scuola rispondendo in modo sgarbato al preside. In un’altra occasione decisero di saltare tutt’e due abbracciati dal trampolino dei dieci metri. E basta.
Quel pomeriggio Nada Comacina lo trascorse come i precedenti: verso le diciassette, dopo aver riposato sul divano, uscì per fare un poco di spesa. Attraversò la strada trafficata. Entrò in drogheria: chiese un litro di latte scremato, quattro panini all’olio. Ritirò alcuni capi d’abbigliamento nella tintoria accanto. Comprò le medicine per sua madre. La gente era gentile: Nada rassicurava. Non esisteva in lei nulla che mettesse in discussione le norme stabilite dagli uomini per ottenere una pacifica convivenza. Il tacito accordo, avrebbe detto Ulisse, andava rispettato, essendo un frutto millenario della civiltà. Però, avrebbe aggiunto, non dobbiamo precludere ad ogni individuo di poter ricominciare da capo, sperimentando su se stesso tutte le fasi del mondo.
Nada tornò in casa all’ora di cena. Vanessa, come se non avesse pensato altro per tutto il pomeriggio, le domandò a bruciapelo: «Pensi di andarlo a trovare?».
Nada rispose di scatto: «Non ho scelta».
Aveva saputo sin dal primo momento che non ci sarebbe stato nulla da fare. Una prova dura l’attendeva. Se l’uomo più importante della sua vita era in gravi condizioni all’ospedale, questo riguardava anche lei. La sera, mentre Vanessa reclinava il capo sul cuscino, Nada riaprì il vecchio cassetto. Vide le fotografie che non avrebbe voluto vedere ma alle quali stava pensando dal momento della telefonata.
Il ragazzo alto coi capelli ricci, lo sguardo intenso. La ragazza snella, sorridente, il gilet rosso, gli orecchini peruviani, i jeans a zampa d’elefante. Riprese anche le poesie:
Mi perderò senz’altro / e forse queste note tutte uguali / sono già un segnale di aiuto / a chi poi se non ho mai voluto conoscere nessuno?
Dove ci nasconderemo da vecchi? / Saremo forse costretti / a recitare per sempre / la storia vissuta realmente / simili a grandi attori / che hanno avuto successo / con un solo personaggio / e il pubblico non riconosce più / come uomini veri?
Il taxi stava percorrendo la circonvallazione. Era una zona della città che Nada non conosceva, con ville che dovevano essere state bellissime quando furono costruite; ora mostravano una precoce decadenza, gli stucchi delle finestre sgretolati, le crepe nei mattoni, la vernice scrostata sui davanzali. Da molti anni Nada faceva poco più che avanti e indietro fra casa e ufficio. Restò stupita nel vedere quanto la città si fosse estesa. Pensò di aver perso il polso della situazione, come se il tempo avesse proceduto per conto proprio, senza di lei. Le strade sembravano diverse. Lo erano davvero?
Il traffico pareva peggiorato rispetto a come lo ricordava, la gente ancora più fre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. UOMINI PERICOLOSI
  4. I
  5. II
  6. III
  7. IV
  8. V
  9. VI
  10. VII
  11. VIII
  12. IX
  13. Copyright