New Mexico, 1964
Nel deserto il sole sorge in fretta. Non ci sono avvertimenti né vaghi indizi. È una transizione brutale; la fine della notte. L’inizio della sofferenza.
Hastings è fuori a sorseggiare il caffè troppo caldo, e cerca di avvertire la rotazione del pianeta che si inchina alla propria stella. Il suo cane lo raggiunge, alza attento la testa, solleva la zampa anteriore. Hastings perlustra il paesaggio con lo sguardo. In un primo momento sembra tutto immobile, ma poi la vede: la nuvola di polvere che prende forma, sollevata da una carovana di automobili in arrivo.
Tre auto nere.
Lanciate a gran velocità.
Verso di lui.
Tre vetture. Ciò significa almeno sei uomini. Forse dodici, se sono più furbi degli ultimi. Hastings manda Bella a correre nei campi, guardandola scomparire nell’erba alta. Ne ha già salvato uno, di animale. Vengono sempre sacrificati per primi, versando il sangue facile. Niente camera a gas per gli animali domestici. Ma dimostra che loro fanno sul serio.
Le auto si stanno avvicinando.
Bisogna fare in fretta.
Hastings sente un ronzio in testa, famigliare e confortante. La prima volta che l’aveva avvertito era stato mentre cacciava con il suo patrigno. Un trapano interiore che gli perforava il cranio. Non entrava né usciva: c’era e basta. Come lo sciabordio del sangue che avvertiva nelle arterie mentre prendeva di mira il cervo ed espirava in silenzio, applicando la prima pressione sul grilletto; completamente immobile, al confine con la morte come il cervo stesso.
L’aveva mancato di proposito.
Non aveva senso, abbattere quella bestia. Per le sue carni? A casa ce n’era già una ghiacciaia piena. C’era solo un motivo per ucciderla: rimuovere qualcosa di bello dal mondo, per sempre.
Hastings può ancora sentire il dolore pungente dello schiaffo del patrigno sull’orecchio; quanto bruciava nell’aria fredda del mattino. La sua prima lezione di filosofia: le decisioni morali sono sempre dolorose.
Prende il fucile mitragliatore dalla cassaforte dietro la libreria. Quel mattino sapeva cosa avrebbe dovuto fare con il cervo. E sa cosa fare anche adesso.
Le auto sobbalzano sul terreno increspato da due settimane di alluvione e cinquanta di siccità. La casa si staglia con le sue grandi finestre a riflettere la luce dell’alba come gli occhi di un animale sorpreso dai fari in mezzo alla strada: immobile, in attesa di un disastro intuito.
Due portiere sbattono come spari di un calibro dodici, i passi hanno la rapidità di qualcosa di peggio della determinazione: la freddezza. Hastings lo capisce dal modo rapido ed efficiente con cui i due uomini si guardano intorno mentre procedono a piedi verso la casa: sono dei professionisti. Lo hanno già fatto molte volte.
Gli altri attendono a bordo delle vetture, senza prendersi la briga di disperdersi. Per questo breve istante sono ancora sotto tiro. Fra qualche secondo scenderanno; accenderanno le sigarette; pisceranno e sputeranno sulla terra rossa; si sistemeranno cerniere e cinture e rivoltelle; controlleranno le munizioni; si passeranno la mano sulle guance infiammate dai rasoi, aggirando la casa nella speranza di trovare una donna o due da spogliare e torturare, qualcosa che li distragga dalla monotonia dell’assassinio.
In questo rapido, fatale interludio la scelta è tutta sua: colpire prima le auto e toglierle di mezzo oppure cominciare con i due uomini che stanno per arrivare alla porta.
Hastings si sistema i tappi nelle orecchie. Le vetture sono parcheggiate in fila indiana: la hybris della superiorità schiacciante. Esce nel mattino soleggiato dalla finestra della lavanderia nell’istante in cui l’autista scende dalla prima auto, lo vede e lascia cadere la sigaretta dalle labbra.
Il metallo si disintegra in pustole di agonia, le macchine ondeggiano con violenza e affondano sulle gomme scoppiate, i finestrini si tingono di rosso ed esplodono.
Un silenzio intenso, lancinante.
Nessuno si muove.
Hastings rientra in casa, facendo schioccare a terra le cartucce vuote. Controlla le telecamere. Per un lungo momento non vede nulla. Poi li scorge, ombre di terrore che avanzano nel loro mondo in bianco e nero. Gli stanno tendendo un’imboscata. All’inferno, si dice. Afferra un fucile, apre le valvole delle quattro bombole, strappa quella del generatore ed esce dallo scantinato.
La casa è in piena vista, controsole. Hastings ripassa mentalmente la lista. Passaporti e patenti. Contanti e chiavi della macchina. Armi e munizioni. C’è tutto. I numeri di telefono li conosce a memoria. Controlla le tre auto attraverso il mirino telescopico del fucile. Non si muove nulla a eccezione delle perfide nubi di mosche che sorvolano le pozzanghere di sangue. Se hanno un minimo di esperienza, i due uomini all’interno della casa dovrebbero essersi accorti delle telecamere di sorveglianza. E a questo punto se la staranno facendo sotto dalla preoccupazione.
Hastings mira al vaso davanti alla finestra della cucina, dove è ancora nascosto il C3 di Luchino, fa fuoco, preme la faccia a terra per ripararsi dall’esplosione, sente passare l’ondata di energia, il silenzio, il risucchio del gas; poi il ticchettio di telescrivente dei detriti.
Attraversa di corsa il terreno con il fucile al fianco, e i suoi ricordi tornano alle spiagge, alla sabbia bagnata, alle palme, al foro di un proiettile nel petto di qualcuno. Gli hanno insegnato bene. Era giovane, allora; metodico. È come studiare dai gesuiti: ti rimane tutto dentro. Dà il colpo di grazia a tutti gli uomini sulle auto. Poi di nuovo. Ma nessuno è sopravvissuto al primo attacco.
Poi attende, accovacciato, che le fiamme si plachino abbastanza da farlo rientrare in casa. I due spari si perdono nel cielo, senza nulla che li faccia echeggiare nel vasto deserto del New Mexico, subito svaniti come fumo. Controlla l’ora. Le otto. A questo punto avrebbero già dovuto mettersi in contatto con la base. I mandanti sapranno che hanno fallito. Hastings raccoglie un tizzone ardente, forse un pezzo di libreria, e si accende una sigaretta.
Sale sulla sua Thunderbird del ’63, la vernice nera scintillante camuffata dalla polvere del deserto. Sbatte la portiera e parte senza guardare indietro. Raggiungerà il letto asciutto del fiume e raccoglierà Bella. Poi scomparirà.
Di nuovo.
Los Angeles, 1960
La telefonata arriva molto prima dell’alba, Cate alza la cornetta e me la passa senza neanche rispondere. La camera da letto è illuminata dalla luna piena, e l’ombra della cordicella delle veneziane pende come un cappio sopra il nostro letto.
Il ricevitore è freddo nelle mie dita.
Tutto sta per cambiare.
Schiller mi riferisce l’accaduto nel suo stile telegrafico. Il Vecchio Bannister. Ha avvertito lui stesso la polizia. Il figlio è scomparso. Brutta storia. Vogliono parlare con me. Il fioco ronzio dei cavi e dell’elettricità mi si riversa nell’orecchio. Poi sento uno scatto crudele. C’era qualcuno in ascolto. Scendo dal letto.
Agli inizi del nostro matrimonio Cate avrebbe protestato; avrebbe cercato di trascinarmi indietro nel suo caldo abbraccio. E se avessi insistito per andare, mi avrebbe salutato con un bacio; mi avrebbe strappato la promessa di fare attenzione. Ora invece si gira dall’altra parte e tira su le coperte. Prima che finisca di allacciarmi le scarpe si sarà già riassopita. Quando infilerò la chiave nell’accensione della macchina sarà già nel mondo dei sogni. I grilli friniscono intorno a me, rimuginando sul problema: due anni di corteggiamento più cinque di matrimonio uguale a zero. E adesso nel conto va inserito il figlio scomparso di un estraneo. Il figlio che noi non abbiamo. L’“estraneo” è uno degli uomini più ricchi del paese. E il figlio è oggetto di congetture fin da prima che venisse al mondo.
I fari dell’auto sondano la notte in cerca di punti deboli, facendosi strada nel buio verso Holmby Hills. Prati curatissimi sfoggiano fieri cartelli e slogan elettorali. Da queste parti tutti votano Nixon, ma l’istinto mi dice che Kennedy ce la farà. Accendo la radio. “Cathy’s Clown.” Cambio stazione. Un brano dal nuovo album di Trane. “Spiral.” Più nel mio stile.
La proprietà si trova a nordovest di Greystone Park, al 696 di Laverne Terrace, appena fuori dalla giurisdizione di Beverly Hills. I cancelli sono spalancati, e appena fuori ci sono un’ambulanza e tre auto di pattuglia. Entro con un colpo di clacson, passando sotto l’arcata di ferro battuto che sovrasta i battenti sfoggiando il nome della tenuta modellato in un corsivo pieno di volute: High Sierra.
La liscia solidità dell’asfalto viene sostituita dal fruscio inquieto della ghiaia, e salendo l’auto sbanda sulle curve di un terreno che è ignoto a lei quanto a me. Gli alberi si ritraggono, cedendo la scena a un prato e al panorama: l’intera L.A. incastonata di luci. Un maggiordomo punta su di me ancora prima che mi fermi, indicando la casa con muto disprezzo. Tutte le luci sono accese, la speranza e il panico prosperano all’unisono. Qualcuno sta scavando accanto a un boschetto. «Trovato niente?» gli grido mentre salgo la scalinata. Lui scuote la testa e riprende il lavoro. Schiller mi sta aspettando all’ingresso. Le dimensioni della porta fanno sembrare piccola persino la sua enorme mole.
Mi conduce in salotto. «Il Vecchio Bannister è di sopra con la moglie.»
«Quale?»
Mi guarda male. «Non cominciare.»
«Devo sapere con chi ho a che fare.»
«Betty Bannister.»
Ho letto di lei sui giornali. Non ricordo bene se è la terza o la quarta. «È la madre, giusto?»
«Gesù, Alston, si sono appena sposati.»
«Ecco il tuo movente. Ha rapito lei il bambino perché non è suo figlio.»
«Chi ha parlato di rapimento? Finché non lo dico io è semplicemente scomparso, intesi?» Schiller si guarda intorno e abbassa la voce. «In una casa come questa i muri hanno orecchie.» Case come questa non sono fatte per abitarci.
«Quando hanno cominciato le ricerche?»
«Sei ore prima di avvertire il capo.»
«Se fosse qui, a questo punto dovrebbero averlo trovato.»
«Non conosci questo posto, Alston. Credimi, più ci ficchi il naso…»
«Più le cose si complicano?»
Sta fissando una caraffa di brandy. «Più porcherie trovi. Non è per questo che chiamano sempre un investigatore privato? Per spalare nella merda?»
«Allora, chi è stato l’ultimo a vedere il bambino?»
«La tata, Greta Simmons…»
«Andiamo a farci una chiacchierata amichevole.»
«Impossibile. Se n’è andata.»
«Ecco la tua indiziata. Ha già lasciato la città.»
«È la sua serata libera, e la pianti con le fesserie su moventi e indiziati?»
«Quindi che è successo?»
«Greta ha messo a letto il bambino e se n’è andata. Venti minuti dopo, ...