La storia d’amore tra me e queste terre meravigliose è nata tanto tempo fa, quando, appena diciottenne, ho fatto il mio primo viaggio in Sicilia. Quel vassoio di ricci di mare a Capo Mulini è stato un vero colpo di fulmine. Crescendo ho adorato le mozzarelline del porto di Siracusa, che finivano prima ancora di mollare gli ormeggi, e i trionfi di pesce crudo dei ristoranti baresi.
Il pane, ovviamente, era parte di questi piatti come la colonna sonora di un film strepitoso. Ecco perché ce n’è tanto, in questo capitolo, perché sarebbe stato impossibile tralasciare l’alimento che ha accompagnato di volta in volta lo stupore dei sapori caldi di questi luoghi.
Come non includere il pane di Altamura, ormai famoso anche oltre i confini italiani, o quello della vicina Matera, nato nei vicoli suggestivi dei Sassi? E non potevo certo tralasciare il cafone napoletano, perfetto con ogni pietanza, e da provare con qualche quadretto di cioccolato, come le merende di una volta. La mollica spugnosa e il suo gusto leggermente salato sono un attentato per qualunque dieta. Infine il cucciddatu, rigoroso nella sua semplicità, e simile in questo agli uomini siciliani, concreti e privi di tanti fronzoli, ma basta strusciarlo con un po’ di aglio e olio per sentire il calore del sole e la pienezza del suo sapore.
LE BUONE ABITUDINI DELL’OTTOCENTO
Ore 8.00. Arrivo al forno Di Gesù ad Altamura e vengo subito accolta dallo sguardo incuriosito di “zio Luca”, il più anziano della famiglia, che si domanda cosa ci faccia lì una ragazza armata di blocchetto per gli appunti a quell’ora del mattino. Mi si presenta anche Giuseppe, che è uno dei nipoti (nonché uno degli svariati “Giuseppe” della famiglia): “Be’, almeno è facile da ricordare” mi dico.
Il calore pugliese mi travolge immediatamente, insieme a quella tipica calma nell’affrontare la giornata… prima un caffè, poi due chiacchiere, poi una risata, e poi magari ci mettiamo a parlare del pane… anche perché i ragazzi sono in piedi già da svariate ore e di stare dietro a una nevrotica cittadina ansiosa di raccogliere informazioni non hanno molta voglia.
Il ritmo aumenta quando è il momento di inserire nuova legna nel forno: ora sì che il mio blocchetto degli appunti macina pagine! Ogni passaggio è un pezzo di storia e tradizione, come il “termometro” per capire quando il forno è caldo (sì perché qui non c’è il termometro classico, e nemmeno la lampadina…): si infornano due pizze e, in base a quanto tempo impiegano a cuocere, si capisce se il forno è pronto per il pane oppure no.
Anche la lavorazione dell’impasto ha radici molto antiche: il lievito madre del Forno ha ben 150 anni, ed è praticamente lo stesso da quando il signor Francesco Di Gesù fondò il suo panificio, al tempo in cui percorreva ogni notte in calesse la strada fino a Bari per consegnare il pane in città. E pensare che ha avuto anche il tempo per concepire 22 figli! Era decisamente un’altra epoca.
Primo impasto
50 gr di lievito madre
50 ml di farina di semola rimacinata
25 gr di acqua
Lavorate gli ingredienti fino a ottenere una palla liscia e omogenea e lasciatela lievitare in una ciotola coperta con della pellicola per 4 ore. Pesate l’impasto ottenuto e impastatelo nuovamente aggiungendo il suo peso di farina e metà del suo peso di acqua (ad es. 75 grammi di impasto necessitano di 75 grammi di farina e 37 di acqua); lasciatelo nuovamente a lievitare per 4 ore e ripetete l’impasto con le stesse proporzioni. Ripetete il procedimento una quarta volta, al termine della quale procedete con l’impasto del pane.
Impasto finale
1 kg di farina di semola rimacinata
650 ml di acqua tiepida
350 gr del precedente impasto
20 gr di sale
Versate nella ciotola dell’impastatrice gli ingredienti, azionatela e fate andare per 30 minuti circa. Se impastate a mano, arrotolatevi le maniche e armatevi di pazienza, ci vorrà comunque una mezz’ora di lavoro di braccia. Al termine, lasciate riposare l’impasto per 2 ore in un luogo tiepido coperto con un panno (direttamente nell’impastatrice se usate quella o in un’ampia ciotola se avete impastato a mano). Passato questo tempo, rovesciatelo sulla spianatoia infarinata di semola e lavoratelo qualche istante per formare due palle; copritele con un panno, facendo attenzione che le due sfere non si tocchino e fate lievitare per un’ora. Al termine della lievitazione procedete alla formatura. Prelevate una palla e stendetela sulla spianatoia infarinata dandole con le mani la forma di un rettangolo (e cercando di non lavorarla troppo). Arrotolate su se stesso uno dei lati corti, piegate verso il centro i lati lunghi. Poi girate l’impasto di 180 gradi e rotolate su se stesso anche l’altro lato corto; premete con la mano al centro del vostro rettangolo arrotolato per appiattirlo e piegatelo in due appoggiando i due lati arrotolati uno sull’altro. Premete nuovamente nel punto dove avete piegato il pane in modo da avere un lato basso e uno (dove si sono appoggiati i due lati corti) più cicciotto e gonfio. Inserite la forma nel forno che avrete preriscaldato al massimo con all’interno una pietra da pizza, fate cuocere per 30 minuti a 250 °C, poi abbassate la temperatura a 180 °C e proseguite la cottura per altri 15 minuti.
VISTO, S’INFORNI!
Ore 23.30. Appuntamento al Forno di Gennaro a Matera. Il panificio è gestito da Patrizia, la figlia di Gennaro, che è la prima fornaia donna che incontro, contrariamente a quanto la tradizione popolare comanda: una vera tosta!
In laboratorio ci sono Enzo e Nino, due fulmini che da soli creano quintali di pane. Azionano l’impastatrice e, come due stregoni davanti al paiolo, inseriscono gli ingredienti per compiere la loro magia. Resto incantata a guardarli mentre lavorano a pieno ritmo per tre ore, finché alle 2.30 siamo pronti per la pezzatura e l’infornata. Ora tocca a me e al mio timbro…
Qualche giorno prima, tra i Sassi di Matera, ho visitato la bottega di Massimo Casiello, un informatico pentito che ha deciso di tornare nella sua città d’origine per lavorare il legno. Tra i tanti oggetti che realizza, ci sono i timbri del pane: ebbene sì, proprio quelli che venivano fatti nell’antichità riportando i simboli delle famiglie del paese ed erano utilizzati fino agli anni Cinquanta per marchiare il prodotto prima che venisse trasportato al forno pubblico. Ogni famiglia, così, aveva la certezza di riportare a casa il proprio impasto.
Secondo voi ho resistito alla tentazione di ordinare un timbro tutto per me? Neanche per sogno. Poi ci ho messo un po’ a capire, perché ovviamente le lettere erano incise al contrario, ma quelle erano proprio le mie iniziali…
E ora eccomi qui pronta alle 3 di notte a marchiare la mia forma di pane di Matera. Per attendere il risultato ci vorranno un’ora e 45 minuti: un pisolino sui gradini all’aria fresca non me lo toglie nessuno.
Primo impasto
100 gr di lievito madre – 100 gr di farina di semola rimacinata – 50 ml di acqua
Ripetete lo stesso procedimento del pane di Altamura, rinfrescando due volte il primo impasto, ma in questo caso a intervalli di 5/6 ore.
Impasto finale
1 kg di farina di semola rimacinata – 700 ml di acqua tiepida
300 gr del precedente impasto – 25 gr di sale
Versate nella ciotola dell’impastatrice gli ingredienti, azionatela e fate andare per 25 minuti circa (o impastate a mano per ...