
- 96 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Lettere a un giovane poeta
Informazioni su questo libro
Le intime e struggenti confessioni del celebre poeta austriaco (1875-1926) a un suo giovane corrispondente che gli chiedeva un giudizio sulle sue poesie: una sorta di lezione fatta soprattutto di insegnamenti spirituali.
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Informazioni
Print ISBN
9788804480143eBook ISBN
9788852075360Premessa all’edizione tedesca
Era la fine di autunno del 1902: mi trovavo nel parco dell’accademia militare a Wiener Neustadt, sotto antichi castagni, e leggevo un libro. Ero tanto immerso nella lettura, che quasi non mi avvidi della presenza dell’unico tra i nostri professori che non fosse un ufficiale, l’erudito e benevolo cappellano dell’accademia Horacek. Mi prese il volume di mano, osservò la copertina e scosse il capo. «Poesie di Rainer Maria Rilke?» domandò pensoso. Sfogliò qui e là , scorse un paio di versi, rivolse lo sguardo lontano, assorto, e infine annuì. «Così dunque l’allievo René Rilke è diventato un poeta.»
E mi parlò dell’esile e pallido fanciullo che i genitori, oltre quindici anni addietro, avevano mandato alla scuola militare di Sankt Pölten per avviarlo alla carriera di ufficiale. Horacek, all’epoca cappellano in quel collegio, ricordava ancora molto bene l’ex allievo. Lo descrisse come un giovane silenzioso, serio, di grande talento, che amava tenersi in disparte, sopportava con pazienza il giogo della vita in convitto, e dopo quattro anni fu ammesso con gli altri alla scuola militare superiore che si trovava a Mährisch-Weißkirchen. Là , peraltro, la sua complessione si rivelò troppo poco vigorosa; così i genitori lo tolsero dal collegio e gli fecero proseguire gli studi a casa, a Praga. Quali sviluppi avesse avuto la sua vita in seguito, Horacek lo ignorava.
Dopo tutto questo appare certo comprensibile perché mi risolsi all’istante a inviare i miei saggi poetici a Rainer Maria Rilke, chiedendogli un suo giudizio. Non ancora ventenne, e appena alle soglie di una carriera che sentivo diametralmente opposta alle mie inclinazioni, pensavo che se qualcuno poteva comprendermi, era proprio il poeta della raccolta Mir zur Feier (In mio onore). E senza realmente volerlo, accompagnai i miei versi con una lettera in cui aprivo il mio cuore con tanta franchezza come a nessun altro mai, né prima né dopo di allora.
Trascorsero molte settimane prima che giungesse una risposta. Lo scritto dal sigillo azzurro aveva il timbro postale di Parigi, era assai pesante e recava sulla busta gli stessi tratti nitidi, belli e sicuri che componevano, dalla prima riga all’ultima, il testo. Ebbe così inizio la mia corrispondenza epistolare con Rainer Maria Rilke, che proseguì con regolarità fino al 1908 per poi a poco a poco esaurirsi, poiché la vita mi sospingeva verso territori dai quali il caldo, tenero e toccante interessamento del poeta aveva appunto voluto preservarmi.
Ma questo non importa. Importanti sono solo le dieci lettere che seguono: importanti per conoscere l’universo in cui Rainer Maria Rilke ha vissuto e operato, e importanti anche per molti di coloro che devono crescere e formarsi, oggi e in futuro. E quando parla un grande senza eguali, i piccoli devono tacere.
Berlino, giugno 1929
Franz Xaver Kappus
Parigi, 17 febbraio 1903
Egregio signore,
la sua lettera mi è giunta solo alcuni giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e cara fiducia. Poco altro posso. Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lungi da me. Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi. Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli eventi sono indicibili, si compiono in uno spazio inaccesso alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto all’effimera nostra, perdura.
Ciò premesso, mi sia solo consentito dirle che i suoi versi, pur non avendo una natura loro propria, hanno però sommessi e velati germi di una personalità . Con più chiarezza lo avverto nell’ultima poesia, La mia anima. Qui, qualcosa di proprio vuole farsi metodo e parola. E nella bella poesia A Leopardi affiora forse una certa affinità con quel grande solitario. Eppure quei poemi sono ancora privi di una loro autonoma fisionomia, anche l’ultimo e quello a Leopardi. La sua gentile lettera, che li accompagnava, non manca di spiegarmi varie pecche che ho percepito nel leggere i suoi versi, senza però potervi dare un nome.
Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Li invia alle riviste. Li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove. Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo di rinunciare a tutto questo. Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità . La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni: sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime. Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità , e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà , né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione, le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà , la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità . È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è. E dunque, egregio signore, non avevo da darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare. La accetti come suona, senza stare a interpretarla. Si vedrà forse che è chiamato a essere artista. Allora prenda su di sé la sorte, e la sopporti, ne porti il peso e la grandezza, senza mai ambire al premio che può venire dall’esterno. Poiché chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.
Forse, però, anche dopo questa discesa nel suo intimo e nella sua solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta, come dicevo, sentire che senza scrivere si potrebbe vivere, perché non sia concesso). Ma anche allora, l’introversione che le chiedo non sarà stata vana. La sua vita in ogni caso troverà , da quel momento, proprie vie; e che possano essere buone, ricche e ampie, questo io le auguro più di quanto sappia dire.
Cos’altro dirle? Mi pare tutto equamente rilevato; e poi, in fondo, volevo solo consigliarla di seguire silenzioso e serio il suo sviluppo; non lo può turbare più violentemente che guardando all’esterno, e dall’esterno aspettando risposta a domande cui solo il sentimento suo più intimo, nella sua ora più quieta, può forse rispondere.
Mi ha rallegrato trovare nel suo scritto il nome del professor Horacek; serbo per quell’amabile studioso grande stima, e una gratitudine che non teme gli anni. Voglia, la prego, dirgli di questo mio sentimento; è molto buono a ricordarsi ancora di me, e lo so apprezzare.
Le restituisco inoltre i versi che gentilmente mi ha voluto confidare. E la ringrazio ancora per la grandezza e la cordialità della sua fiducia, di cui con questa risposta sincera, e data in buona fede, ho cercato di rendermi un po’ più degno di quanto io, un estraneo, non sia.
Suo devotissimo
Rainer Maria Rilke
Viareggio presso Pisa (Italia)
5 aprile 1903
Deve scusarmi, caro ed egregio signore, se solo oggi, grato, ricordo la sua lettera del 24 febbraio: sono stato tutto il tempo indisposto, non proprio malato, ma oppresso da una spossatezza influenzale che mi rendeva inabile a tutto. Alla fine, non accennando il mio stato a migliorare, sono partito per questo mare del Sud il cui beneficio già una volta mi ha aiutato. Ma non sono ancora in salute, lo scrivere mi pesa, e così deve accettare queste poche righe in vece d’altro.
Naturalmente sappia che ogni sua lettera sarà per me sempre una gioia, e solo abbia indulgenza quanto alla risposta, che forse la lascerà spesso a mani vuote; poiché in sostanza, e proprio nelle cose più profonde e importanti, siamo indicibilmente soli, e affinché uno possa consigliare e anzi aiutare l’altro deve accadere molto, molto deve riuscire, una intera costellazione di cose si deve realizzare perché si ottenga una volta lo scopo.
Oggi volevo dirle due sole cose ancora.
Ironia: non se ne lasci dominare, e soprattutto non nei momenti poco creativi. In quelli cr...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione di Marina Bistolfi
- Principali traduzioni italiane
- LETTERE A UN GIOVANE POETA
- Premessa all’edizione tedesca
- Copyright