
- 240 pagine
- Italian
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eBook - ePub
I casi di Theodore Boone - 5. Il fuggitivo
Informazioni su questo libro
Theodore Boone da grande vuole fare l'avvocato, ma oggi è un normale tredicenne in gita scolastica a Washington. Eppure il suo istinto non dorme mai e sul vagone del metrò il suo sguardo si posa su un uomo con il viso chino sul giornale. Ha qualcosa di familiare… assomiglia proprio a Pete Duffy! L'uomo più pericoloso di tutta la storia di Strattenburg, nella lista dei dieci uomini più ricercati dall'FBI, processato per l'assassinio della moglie e riuscito a fuggire, sta lì, di fronte ai suoi occhi. Riuscirà Theodore Boone ad assicurare il fuggitivo alla giustizia? A volte per fare la cosa giusta ci vuole molto coraggio, perché può mettere in pericolo se stessi e la propria famiglia…
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Informazioni
Print ISBN
9788804657743eBook ISBN
9788852068287PRIMA PARTE
LA CATTURA
CAPITOLO 1
I lampioni di Strattenburg erano ancora accesi e a est non albeggiava nemmeno. Eppure, il parcheggio della scuola media cominciò a brulicare di energia man mano che centosettantacinque studenti di terza arrivavano a bordo di auto e furgoncini guidati da genitori assonnati e impazienti di liberarsi dei figli per qualche giorno. I ragazzini avevano a malapena chiuso occhio. Dopo una notte trascorsa a preparare i bagagli e a girarsi e rigirarsi nel letto, si erano alzati molto prima che facesse giorno, si erano lavati, avevano terminato di fare le valigie, avevano svegliato i genitori e insistito per fare colazione in fretta, sovreccitati come un branco di bambini di cinque anni in attesa di Babbo Natale. Alle sei, come da istruzioni, erano arrivati a scuola tutti insieme. Ad accoglierli c’era la spettacolare visione di quattro pullman identici, sfavillanti e perfettamente allineati uno dietro l’altro, con i fari che brillavano nell’oscurità e i motori accesi.
La gita di terza media! Sei ore di pullman per raggiungere Washington, tre giorni e mezzo di visite alla città, quattro notti di bravate in un grande albergo. E proprio in previsione di questo viaggio, gli studenti si erano dati da fare per mesi: avevano venduto ciambelle il sabato mattina, lavato mille automobili, ripulito il ciglio delle strade e riciclato lattine di alluminio, spronato i commercianti a dare come ogni anno il loro contributo, venduto dolci a Natale, messo all’asta attrezzature sportive di seconda mano, organizzato maratone di cucina, di ciclismo, di lettura, e avevano messo entusiasmo in qualunque avventura potenzialmente redditizia approvata dal comitato delle gite scolastiche. Tutti i proventi finivano in una cassa comune. L’obiettivo da raggiungere erano diecimila dollari, che certamente non sarebbero bastati a coprire tutte le spese, ma erano senz’altro sufficienti a garantire il viaggio. Quest’anno, il gruppo aveva raccolto quasi dodicimila dollari, ovvero poco meno di settanta dollari a testa.
Alcuni studenti non avevano le possibilità economiche per partecipare, ma era tradizione della scuola che nessuno restasse escluso. Sarebbero andati a Washington tutti i ragazzi di terza, accompagnati da dieci insegnanti e otto genitori.
Theodore Boone era felicissimo che sua madre non si fosse offerta di partecipare. Ne avevano parlato a cena. Suo padre si era subito tirato indietro dichiarando, come suo solito, di avere troppo lavoro. Sua madre, che in un primo momento era sembrata propensa, si era poi resa conto di non poter partire. Theo aveva controllato il calendario delle udienze che teneva nello studio e sapeva benissimo che, mentre lui se la spassava alla grande a Washington, lei sarebbe stata in tribunale.
Fermi nel traffico, Theo accarezzava la testa di Giudice, il suo cane, che si era accomodato in parte sul cruscotto e in parte sulle sue ginocchia. Giudice di solito poteva sedersi dove più gli piaceva, perché nessuno dei Boone lo rimproverava mai.
«Sei emozionato?» gli chiese il signor Boone. Era toccato a lui accompagnarlo, perché la moglie si era rimessa a dormire per un’altra oretta.
«Certo» rispose Theo, cercando tuttavia di mascherare l’entusiasmo. «È un viaggio lungo, però.»
«Sono sicuro che vi sarete addormentati tutti ancor prima di essere usciti dalla città. Le regole, le abbiamo ripassate. Ci sono domande?»
«Questa cosa l’abbiamo già fatta una decina di volte» disse Theo, vagamente seccato. I suoi genitori gli piacevano. Erano un po’ più anziani della media, lui era figlio unico, e a volte sembravano un po’ troppo protettivi. Tra le pochissime cose che non sopportava di loro, c’era quella smodata passione per le regole. Tutte le regole, nessuna esclusa, a prescindere da chi le avesse stabilite, andavano rispettate fino in fondo.
Theo sospettava che questo dipendesse dal fatto che erano entrambi avvocati.
«Lo so, lo so» disse suo padre. «Segui le regole e basta. Ubbidisci agli insegnanti e non fare stupidaggini. Ti ricordi quello che è successo due anni fa?»
Come poteva Theo – o qualunque altro suo compagno – averlo dimenticato? Dalla loro stanza al quinto piano, due idioti – Jimbo Nance e Duck DeFoe – avevano lanciato dei gavettoni nell’atrio interno dell’albergo. Non si era fatto male nessuno, ma qualcuno era stato bagnato di brutto ed era andato su tutte le furie. Qualche ragazzo aveva fatto la spia e i genitori dei due colpevoli erano stati costretti ad andarseli a riprendere, facendo sei ore di macchina nel cuore della notte. Più altre sei ore per tornare a Strattenburg. Jimbo l’aveva definito un viaggio interminabile. Erano stati sospesi per una settimana e la scuola aveva dovuto cercare un altro albergo per le gite future. Quella disavventura era ormai diventata leggendaria ed era stata usata per ammonire e spaventare Theo e gli altri ragazzini diretti a Washington.
Finalmente parcheggiarono. Theo salutò Giudice e gli disse di restare seduto davanti. Il signor Boone aprì lo sportello posteriore e prese il bagaglio del figlio, un borsone di nylon che doveva pesare meno di dieci chili. Uno di peso superiore sarebbe rimasto a terra (questa era una delle Grandi Regole!), togliendo così al proprietario il beneficio di viaggiare con abiti puliti e spazzolino da denti. Quel pericolo lasciava Theo del tutto indifferente. Era sopravvissuto per una settimana con i boy scout in mezzo a un bosco, e persino meno equipaggiato di così.
Vicino a uno dei pullman, munito di bilancia, c’era il professor Mount, che pesava le borse man mano che venivano caricate nel bagagliaio. Rideva e sorrideva, allegro come i suoi studenti. Il borsone di Theo non arrivava neppure a nove chili, e dunque era salvo. Dopo aver controllato che ci fosse attaccata l’etichetta con il nome, il professor Mount lo autorizzò a salire a bordo.
Theo salutò suo padre con una stretta di mano, e per un istante fu terrorizzato al pensiero che lui provasse ad abbracciarlo o a fare gesti altrettanto imbarazzanti. Tirò un sospiro di sollievo quando il signor Boone invece disse solo: «Divertiti. Chiama tua madre». Theo salì velocemente a bordo.
Poco distante c’erano le ragazze, che salutavano le madri fra lacrime e abbracci, come se dovessero partire per la guerra con il rischio di non fare più ritorno. Vicino ai pullman dei maschi, invece, i tipi più duri erano tutti impettiti e cercavano di sottrarsi velocemente ai genitori con il minor contatto fisico possibile.
Al sorgere del sole, il parcheggio cominciò lentamente a svuotarsi. Alle sette in punto, i quattro pullman lasciarono la scuola. Era giovedì. Il grande giorno era finalmente arrivato e i ragazzini non stavano più nella pelle. Theo era seduto accanto al suo grande amico Chase Whipple, da tutti soprannominato “lo scienziato pazzo”. Per evitare che i ragazzi si perdessero e vagassero per le strade pericolose di Washington, gli insegnanti avevano rafforzato il cosiddetto sistema “non mollare il compagno”. Per i quattro giorni seguenti, Theo sarebbe rimasto incollato a Chase e Chase a Theo, e ognuno avrebbe sempre dovuto sapere cosa faceva l’altro, in ogni istante della giornata. Theo sapeva di averci rimesso, perché Chase non faceva che perdersi perfino all’interno del loro comprensorio scolastico. Sarebbe stato davvero impegnativo tenerlo sempre d’occhio. Avrebbero diviso la stanza con Woody Lambert e Aaron Nyquist.
Mentre i pullman procedevano lenti sulle strade silenziose, i ragazzi chiacchieravano con foga. Non erano ancora volati pugni, né erano schizzati via berretti. Dovevano comportarsi bene, altrimenti rischiavano grosso, e comunque erano costantemente sotto l’occhio vigile del professor Mount. A un certo punto, un ragazzino seduto dietro Theo sganciò una sonora scoreggia, che contagiò subito tutti. Non erano ancora usciti da Strattenburg, ma Theo avrebbe già dato chissà cosa per essere seduto con April Finnemore sul pullman che li precedeva.
Il professor Mount aprì un finestrino. Alla fine, la situazione tornò alla normalità. Dopo trenta minuti di viaggio, i ragazzi dormivano o erano assorti in qualche videogame.
CAPITOLO 2
La stanza di Theo si trovava all’ottavo piano di un albergo di recente costruzione su Connecticut Avenue, circa ottocento metri a nord della Casa Bianca. Dalla finestra, insieme a Chase, Woody e Aaron, poteva ammirare la sommità del monumento in onore di George Washington, l’obelisco che svettava sulla città. Secondo il loro programma, ci sarebbero saliti sabato mattina. Per il momento, però, dovevano sbrigarsi a scendere per un pranzo veloce prima di fare un giro panoramico.
Ogni studente poteva scegliere una delle molte attrazioni di Washington. Per vedere tutto ci sarebbe voluto un anno di frenetica attività, così il professor Mount e gli altri insegnanti avevano stilato una lista di luoghi di interesse tra i quali gli studenti potevano esprimere le loro preferenze.
April aveva convinto Theo che il teatro Ford era imperdibile: era lì che avevano assassinato Abramo Lincoln, e sembrava effettivamente un’idea interessante. A sua volta Theo convinse Chase, così dopo pranzo si incontrarono nell’atrio dell’albergo con il professor Babcock – l’insegnante di storia – e altri diciotto compagni. Il professore spiegò che, poiché il gruppo non era numeroso, invece del pullman avrebbero preso la metropolitana. Chiese quanti di loro ci fossero già stati. Ad alzare la mano furono Theo e altri tre.
Uscirono dall’albergo e si incamminarono su un marciapiede affollatissimo. Per dei ragazzini di provincia, il primo impatto con i rumori e l’energia di una grande città fu inizialmente difficile da digerire. C’erano tanti palazzoni, tante macchine nel traffico – l’una addosso all’altra – che neppure si muovevano, tante persone sui marciapiedi, tutte ansiose di arrivare da qualche parte. Alla stazione della metro di Woodley Park, presero la scala mobile che si inabissava sotto le strade. Il signor Babcock si era procurato dei biglietti che consentivano agli studenti un uso limitato delle linee della metropolitana. Il loro treno era mezzo vuoto, pulito ed efficiente. Mentre sfrecciava nella galleria buia, April sussurrò a Theo che era la prima volta che prendeva la metropolitana. Theo ribatté che lui l’aveva già presa a New York, quando c’era stato in vacanza con i suoi. Però la metropolitana di New York era diversa da quella di Washington.
Quando il treno si arrestò per la terza volta, pochissimi minuti dopo l’inizio della corsa, era già il momento di scendere a Metro Center. Salirono rapidamente le scale e furono nuovamente all’aperto, in piena luce. Il professor Babcock contò venti ragazzi e si misero in marcia. Pochi minuti dopo si ritrovarono sulla Decima Strada.
L’insegnante fermò il gruppo e indicò il bell’edificio di mattoni rossi dall’altra parte della strada; un edificio importante, evidentemente. Disse: «Quello è il teatro Ford, il luogo in cui il presidente Lincoln fu assassinato il 14 aprile 1865. Come tutti saprete, visto che avete trascorso parecchio tempo sui libri di storia, la guerra civile era finita da poco. Anzi, il generale Lee si era arreso al generale Grant solo cinque giorni prima, ad Appomattox Court House, in Virginia. Nella città di Washington regnava il buonumore, la guerra si era finalmente conclusa, e così il presidente Lincoln decise di trascorrere la serata fuori con sua moglie. Il Ford era il teatro più bello e grandioso della città, e i Lincoln vi andavano spesso per assistere a concerti e spettacoli. All’epoca, il teatro aveva oltre duecento posti, e la commedia Il cugino americano faceva il tutto esaurito ogni sera».
Ripresero a camminare e dopo mezzo isolato fecero un’altra sosta. Il professor Babcock ricominciò a parlare: «Dunque, la guerra era finita, certo, ma c’erano ancora moltissime persone che non la pensavano così. Tra queste, un confederato di nome John Wilkes Booth. Era un attore molto famoso, era stato persino fotografato con il presidente Lincoln in occasione del suo insediamento. Il signor Booth, sconvolto perché il Sud si era arreso, voleva disperatamente contribuire in qualche modo alla causa. Decise dunque di uccidere il presidente Lincoln. Siccome le maschere del teatro lo conoscevano, gli consentirono di avvicinarsi al palco dei Lincoln. Gli sparò un colpo alla nuca, saltò sul palcoscenico rompendosi una gamba e fuggì dall’ingresso secondario».
Il professor Babcock si voltò e con un cenno della testa indicò l’edificio che avevano accanto. Disse: «Questa è la Petersen House, all’epoca era una pensione. Il presidente fu condotto lì, dove i suoi medici gli prestarono soccorso per tutta la notte. La notizia si diffuse rapidamente. Cominciò a radunarsi la folla e per tenere a bada la gente furono impiegate le truppe federali. È ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- I casi di Theodore Boone - Il fuggitivo
- PRIMA PARTE. LA CATTURA
- SECONDA PARTE. IL NUOVO PROCESSO
- Copyright