Lungo il Po, febbraio, Anno Domini 1525
La neve e il gelo avevano spezzato i rami secchi dei pioppi. L’inverno aveva portato un grande silenzio nella pianura. Il cinguettio dei pettirossi e il frullo delle cinciallegre erano i pochi segni di vita tra le siepi e gli sterpi, nel paesaggio scheletrico del bosco. Il gracchiare delle cornacchie si sentiva lontano, attutito dalla nebbia che per giorni stagnava sulla pianura e sul fiume. Qualche voce si perdeva all’orizzonte. In quei giorni d’immobilità, il sole si affacciava timido tra le nubi quando la nebbia si alzava con fatica e si sfilacciava tra i rami. La poca neve rimasta dal lungo inverno macchiava di bianco la terra e per il freddo faticava a sciogliersi tutta.
In uno di quei pomeriggi silenziosi, una barca lunga una decina di metri si arenò lungo la spiaggia. La corrente l’aveva sospinta lì, come fosse un tronco morto. L’albero con la vela era abbattuto, spaccato a metà. Il timone era sfasciato. La barca sembrava abbandonata da Dio e dagli uomini al suo destino. Quando la vide, un ragazzo coperto da un mantello leggero e da pelli di coniglio si avvicinò con un bastone in mano. Era pronto anche ad afferrare il coltello, infilato nella cinghia dietro la schiena. La barca era coperta da un telo, come per nascondere qualcosa. Non c’erano remi. Il ragazzo non capiva come fosse capitata lì, da dove arrivasse. Doveva essere stata saccheggiata. Vide piantate sulla pancia della barca almeno venti, trenta frecce e lunghe punte di balestra. Sembrava la schiena di un istrice.
Il ragazzo si mostrò cauto. Restò nascosto fino a quando non sussultò per la paura. Aveva sentito come un rumore secco, un calcio, o un pugno contro il legno. Doveva esserci nascosto un animale feroce, e il suo desiderio più grande era quello di vedere finalmente un drago che abita le nebbie e gli acquitrini. Quante volte aveva scambiato dei legni galleggianti per serpenti o teste di mostri che correvano giù con la corrente del fiume.
Faceva freddo, la nebbia stava scendendo velocemente sul fiume e l’umidità entrava nelle ossa. Il ragazzo respirava piano per non farsi sentire. La barca giaceva immobile sulla sabbia e adesso era sua. Aveva paura ad avvicinarsi. Dopo un lungo silenzio si sentì di nuovo un colpo contro il legno. Il ragazzo si accucciò impaurito ed eccitato dietro un pioppo. Si mordeva il labbro nell’attesa di prendere una decisione ma il terrore, ancora una volta, vinceva il suo coraggio.
«Io non ho paura» disse afferrando il pugnale e sfilandolo dal fodero di cuoio. Fissò la lama lucente come per darsi coraggio. Si alzò in piedi e si avvicinò piano piano alla barca. Da un po’ non si sentiva più alcun segno di vita. Il cuore gli batteva nel petto e nelle tempie come un martello. Gli mancava il respiro. La cerata che copriva tutta la barca era sporca di sangue secco. Un lungo squarcio la tagliava a metà lasciando intravedere solo il buio. Quando si avvicinò per togliere la tela che copriva la barca, una mano insanguinata unghiò la sua, sbucando all’improvviso dal fondo della barca. Il ragazzo urlò e sferrò una coltellata. Finalmente libero scappò.
Fuggì correndo come una freccia tra gli alberi.
«Padre, padre» urlò il ragazzo saltando lungo il sentiero, tra sterpi ed erbe secche. La nebbia attutiva la sua voce.
«Padre, padre!»
Dalla casa di legno e mattoni nascosta tra alberi e acquitrini uscì padre Berardo.
«Che succede?»
«Venite a vedere, c’è una barca sul fiume con dentro un animale o un mostro. Mi ha ferito» e mostrò la mano insanguinata.
Padre Berardo, meravigliato, chiuse la porta dietro di sé e seguì Ruggero. La nebbia diventava livida ed era facile perdersi in quel grigiore impalpabile. Restavano poche ore di luce e poi il freddo avrebbe ghiacciato la nebbia, incrostando di galaverna i rami degli alberi. Infine la notte sarebbe diventata territorio esclusivo dei lupi.
Si avvicinarono cauti, si fermarono poco lontano dalla spiaggia. Tutto era come prima.
«Ma sei sicuro che ci sia dentro qualcuno?» sussurrò piano padre Berardo. Pochi secondi dopo si sentì un colpo provenire dalla pancia della barca. Padre Berardo e Ruggero si guardarono. “Che fare?” sembravano dirsi con gli occhi.
Ruggero fece di no con la testa, lui non si sarebbe avvicinato. Neanche morto.
Padre Berardo si alzò in piedi e camminò cauto affondando nella sabbia, mostrando la lama. Si avvicinò alla barca e afferrò un lembo della tela cerata che la ricopriva in parte, ma in quel momento la mano insanguinata di prima tentò di aggrapparsi al braccio di padre Berardo. Il frate fece un passo indietro urlando. La mano sporca di sangue afferrò il legno per non scivolare di nuovo nella pancia della barca. Padre Berardo si voltò verso Ruggero, che era più spaventato di lui. Ma il frate non si lasciò vincere dalla paura. Si avvicinò di nuovo con il coltello in mano e buttò la cerata da una parte. All’interno vide i corpi ammassati di tre soldati. Due erano morti, irrigiditi: uno con la bocca spalancata verso il cielo e gli occhi semiaperti, l’altro aggrappato al legno nell’ultimo tentativo di uscire di lì.
Il terzo, il più giovane, respirava ancora sotto il peso dei compagni morti, nella mano stringeva un coltello. Padre Berardo capì che lo aveva usato per battere con forza contro il legno. Perdeva sangue. Quando vide la luce riuscì a sussurrare disperato «Aiutatemi, vi prego, aiut...».
«Alziamolo, presto» disse padre Berardo. «Questo è ancora vivo.»
Padre Berardo rovesciò i due cadaveri da una parte. «Probabilmente sono stati attaccati mentre fuggivano» disse. Le lunghe tracce di sangue sul legno non lasciavano dubbi. Il soldato ancora vivo sembrava non avere ferite mortali. Quella barca di morti doveva essere in balia della corrente da giorni.
«Vieni qui!» urlò Berardo, ma Ruggero restò immobile dietro l’albero, ancor più impaurito.
«Vieni qui!»
Ruggero si avvicinò riluttante e aiutò il padre a sollevare l’uomo ferito. Gli guardò la mano tagliata, che sanguinava. Rantolava.
Ruggero era sconvolto nel vedere quei soldati, il sangue, l’odore della morte e della carne.
«Dev’esserci stata battaglia non lontano da qui. Guarda!» gli fece notare padre Berardo.
Due cavalli e il cadavere di un soldato scivolarono lenti sull’acqua. «Troppe navi hanno risalito il fiume nelle ultime settimane. I morti saranno cibo per i pesci!» disse di nuovo padre Berardo dopo un attimo di silenzio.
Con una mano sollevarono la testa del ferito, che aprì appena gli occhi. Padre Berardo gli bagnò le labbra con una borraccia, e il soldato subito cercò di bere avidamente.
«Grazie... grazie» disse. «Ci stavano ammazzando tutti, una carneficina... Hanno tradito, i maledetti!»
«Basta, non sforzatevi!» lo calmò padre Berardo. «Riuscite a mettervi in piedi?»
Aveva una freccia nel braccio e tagli profondi da cui aveva perso sangue. Quando si mosse strinse i denti e la bocca in una smorfia di dolore.
«Avete delle brutte ferite!» disse padre Berardo. «Venite, e tu, Ruggero, prendi le armi!»
Ruggero salì titubante sulla barca e prese spade e pugnali, oltre a una magnifica balestra con una faretra piena di frecce con le punte di ferro. Poi diventò di sale di fronte alla faccia con la bocca aperta di un morto e le sue mani chiuse ad artiglio.
Quando il ferito riuscì a stento a scendere e a sdraiarsi sulla sabbia umida, Ruggero e padre Berardo spinsero la barca con il suo carico di morti in mezzo all’acqua.
«Non possiamo seppellirli noi, ma non possiamo nemmeno lasciarli qui. Dobbiamo nascondere le tracce di questo passaggio. Il fiume custodirà per sempre i loro corpi.»
La barca prese lentamente il largo e la corrente la portò in mezzo al fiume, poi la nebbia inghiottì tutto, prima sfumando i contorni e poi cancellando completamente quella bara galleggiante, come in un sogno.
Padre Berardo coprì il ferito con il suo mantello. «Dobbiamo portarlo a casa» disse a Ruggero che, carico di armi, si sentiva invincibile. «Andiamo.»
Le condizioni del soldato non erano così gravi. «Lo cureremo e lo rimetteremo in forze» disse padre Berardo a Ruggero. Nella notte, mentre fuori si sentivano i lupi lontani, padre Berardo si occupò del ferito. Prima tagliò con un coltello la coda della freccia, poi bagnò la ferita con acqua calda. Infine, con un strattone improvviso gli sfilò il legno dalla carne. L’uomo, che per tutto il tempo aveva morso un pezzo di cuoio, svenne per il dolore.
Berardo lavò la ferita e la curò con le sue erbe. Infine la fasciò con delle bende di tela che aveva fatto bollire. L’uomo ogni tanto apriva gli occhi e sembrava stupito di essere di fronte a un frate che lo curava con delicatezza e istruiva un ragazzo a quell’arte. Anche Ruggero era sorpreso dalle capacità del frate. Lo guardava anche lui meravigliato. E gli girava la testa per tutto quel sangue dall’odore dolciastro. Poi padre Berardo prese il Vangelo e cominciò a leggere la parabola del buon samaritano. Ruggero lo ascoltava attento.
Padre Berardo ricordò la giovane balia che, sempre su quel letto vicino al camino, molti anni prima, non era riuscita a vincere la lotta con la morte. Quel piccolo bambino avvolto in fasce era diventato un ragazzo coi primi segni della barba sul volto e tra le mani un grande coltello dal manico di perla.
«La battaglia è cominciata molti giorni prima dello scontro vero e proprio» raccontò il soldato steso sul letto quando la febbre diminuì. Disse di chiamarsi Raffaello, di essere un nobile di Cittastella, della famiglia dei Guidalenzo. Nel letto aveva sudato, aveva affrontato febbri e infezioni, ma alla fine le erbe e gli infusi di padre Berardo lo avevano guarito. Aveva iniziato un lungo racconto davanti al fuoco che crepitava nel camino. Una grande fiamma gli colorava il viso.
«Qualche giorno prima del grande scontro ci siamo raccolti vicino a Pavia, nel campo dove si riunivano le truppe francesi. Avevamo firmato per Francesco I, perché volevamo combattere contro Carlo V e le truppe imperiali che appoggiano il duca Filippo, l’uomo che da anni usurpa il nostro ducato. Così, io e i nobili di Cittastella avversi al duca ci siamo messi al soldo del re francese. Pagavano bene e potevamo finalmente sperare di liberarci del duca. Appoggiati dall’esercito francese avremmo potuto ucciderlo. Ma non è andata così.
Non avevo mai visto un accampamento tanto affollato di uomini, cavalli e soldati. C’era una specie di euforia tra le tende e i cani abbaiavano attorno ai fuochi. Il profumo di minestra e di arrosto pervadeva l’aria. Molti soldati passavano il tempo a esercitarsi, ad affilare le armi o ad allenare la mira all’arco contro sagome imbottite di paglia, legate a tronchi di legno. I fabbri martellavano le punte arroventate delle lame e ferravano i cavalli. Non potevo sapere, solo qualche giorno fa, a cosa sarei andato incontro.
Così siamo arrivati armati con i nostri cavalli. Eravamo fieri. Io e altri due nobili avevamo un’armatura leggera. Tanto era splendente al sole, tanto incuteva timore e rispetto verso gli altri soldati. Passavamo tra le tende orgogliosi della nostra forza, della nostr...