Ghiaccio acciaio anima
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Ghiaccio acciaio anima

La mia vita raccontata a Simone Battaggia

  1. 228 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ghiaccio acciaio anima

La mia vita raccontata a Simone Battaggia

Informazioni su questo libro

D'estate, lungo il sentiero che sale alla pista, il piccolo Armin trema ogni volta ripensando a quel sogno strano: una vipera enorme che lo guarda negli occhi, lui che corre scappando in discesa più veloce che può e, quando si gira, la vipera sempre più vicina. È solo un incubo, ma ha scoperto che d'inverno, venendo giù da lì con la slitta, non gli succede. Il nonno gli ha detto che se c'è neve per terra le vipere non ci sono. Sulla slitta quel ragazzino si sente al sicuro, ci scende tutti i giorni dal maso, tra prati e boschi, fino in paese, per andare a scuola. Impara a fare le curve, a controllare il mezzo, a distendersi sui rettilinei per andare più forte; è lì che nascono le prime gare con gli altri ragazzi, è lì che scopre di essere il più veloce.

Trent'anni dopo, Armin Zöggeler con lo slittino ha gareggiato sulle piste di tutto il mondo, conquistando trofei e medaglie, divenendo uno degli atleti italiani più vincenti di sempre. Con il suo fisico perfetto, lo sguardo da duro e la fama di imbattibile, Armin è il campione che non tradisce emozioni, lo sportivo che ha fatto della dedizione al lavoro una ragione di vita. Ed è stato premiato. Ma anche lui ha esultato, ha pianto, ha avuto paura. Anche lui si è messo nei guai, ha litigato, ha pregato.

Dopo aver vinto a Sochi 2014 la sesta medaglia in sei Olimpiadi consecutive, il più grande slittinista di sempre si racconta in queste pagine. L'infanzia in montagna, la fatica nei boschi, le prime gare che lo portano lontano dalla sua valle e gli fanno sognare un destino diverso. E poi la scoperta dell'amore, le complicità e le ribellioni, le notti in bianco per sottrarre qualche millesimo a una pista, a un avversario, a un corpo che invecchia. Nulla può essere lasciato al caso quando ci si affida a una slitta per lanciarsi a 140 chilometri orari giù per un budello di ghiaccio. Per vincere, e per non tremare più.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804656432
eBook ISBN
9788852068034

XI

C’è un grande striscione, all’ingresso del paese. «Qui vive Armin Zöggeler, campione olimpico di slittino, Salt Lake City 2002.» È bello sentirsi a casa, dopo tanti mesi in giro per il mondo. È domenica mattina, per le strade di Foiana c’è poca gente. Mi godo la quiete che ancora avvolge il paese. Non sono portato per i festeggiamenti eccessivi. Alle piazze piene di folla, ai ventimila che hanno accolto con un boato il mio nome alla cerimonia di consegna delle medaglie ai Giochi, preferisco il calore delle poche persone che mi hanno visto crescere e che mi conoscono davvero.
Più di tutto, però, preferisco le feste di Nina. Appena tornato mi sono consegnato in ostaggio a lei e da allora non mi ha più liberato. Parcheggio la macchina davanti al maso, corro ad aprire la porta a Monika e mentre lei viene accolta con un sorriso da mia mamma, io sollevo dal seggiolino quella piccola creatura, la aiuto ad appoggiare i piedi sulla ghiaia, le sistemo il vestitino a fiori e le porgo l’indice. Lei lo afferra con la destra e pian piano ci dirigiamo verso il nonno. «Ecco la nostra signorina che cammina!» lo sento esclamare, con un orgoglio che forse è persino superiore al mio.
È fine febbraio, sui prati rivolti verso nord c’è ancora la neve, ma il sole del pomeriggio diffonde già un piacevole tepore. Il pranzo monumentale preparato da mamma Rosa, poi, mi ha tagliato le gambe. La sdraio appoggiata al muro esterno della stalla mi tenta, e invece mi scuoto, faccio due balzi verso la macchina, apro il bagagliaio e prendo la sacca con la slitta da gara. Non appena entro in palestra sento alle spalle la voce di papà.
«Fatti abbracciare, campione.»
«Papà, lo sai che ti ho pensato, durante la gara? Qualcosa mi ha fatto tornare in mente i tuoi racconti della vittoria di Hildgartner a Sarajevo.»
Due lacrime corrono lungo le sue palpebre. Ma non cadono, ostinate. Ha troppo pudore per commuoversi davanti a suo figlio. Così cambia discorso. «Dai, fammi vedere il tuo bolide.»
Gli mostro la scocca, i portapattini, la fessura attraverso la quale si intravede la gomma.
«Ah, queste sono le famose sospensioni.»
«Sì. La grande idea di Georg Hackl.» Lo dico seriamente, ma lui accenna a un mezzo sorriso e così ci trasciniamo a vicenda in una risata involontaria.
«E i pattini?»
«Eccoli. A occhio nudo è difficile accorgersene, ma ti assicuro che sotto la schiena li senti totalmente diversi rispetto a quelli che avevo prima. Per fortuna mi è venuta l’idea di provarli, altrimenti…»
«E cosa farai ora, con questa slitta?»
«Non lo so. Da quanto ho capito, in molti si sono lamentati di queste sospensioni. Le nazionali più piccole le considerano fuorilegge. Georg ha sfruttato un buco del regolamento, ma credo che la federazione lo tapperà.»
«Però il resto è buono, no?»
«Sì, per ora è buono, ma presto passerà di moda. Li conosco troppo bene, i miei avversari.»
Papà sorride, prende la maniglia della porta e inizia a salire le scalette esterne. Io appoggio la slitta al muro, ma prima di uscire mi concedo un momento di solitudine. Ci sono i bilancieri, il tavolo da lavoro, l’agenda con gli appunti, e in un angolo la slitta, il mezzo che catalizza tutta questa fatica e la trasforma in vittorie. Le mani stringono forte la medaglia d’oro che ho in tasca. Sì, è davvero tua, Armin. Dall’inizio alla fine.
Per alcune settimane ragiono e agisco come se le mie mani possano plasmare tutto ciò che di più grande c’è al mondo. Ci pensa Norbert Huber, al termine dell’ennesima celebrazione, a farmi tornare con i piedi per terra.
«Armin, dobbiamo rimetterci al lavoro. Subito.»
«Lo so Norbert, non ci si ferma. Ma che problema c’è?»
«Nessuno, penso. Però in squadra cambierà qualcosa.»
«E perché?»
«Armin, hai ben chiaro in testa dove si svolgerà la prossima edizione dei Giochi, vero?»
«Certo. A Torino.»
«Esattamente. E sai pure che non solo il CONI, ma anche il governo italiano non ammetteranno altro da te che un’altra medaglia d’oro, vero?»
Inizio a impallidire. Cosa vogliono da me, questi?
«Be’, allora te lo dico io. Hanno già fatto i loro calcoli. Un’Olimpiade in casa diventa un successo solo se si ottengono un certo numero di podi e un certo numero di ori. Ecco, tu sei stato inserito nella casella delle medaglie d’oro sicure.»
«E quindi?»
«E quindi in questi quattro anni bisognerà fare di tutto per centrare l’obiettivo. Nessun dettaglio dovrà essere trascurato.»
«Mi sembra di sentire Jentzsch.»
«Armin, non sto scherzando. Tra le cose che il CONI non tollererà più c’è anche la gestione casalinga dello sviluppo delle slitte.»
«Ma io e Reini lavoriamo bene insieme, lo sai.»
«Lo so, lo sappiamo tutti nel nostro ambiente. Ma prova a immaginare cosa succederebbe se tu non andassi a medaglia, e venisse fuori che l’Italia non ha un vero responsabile dello sviluppo del materiale, ma che tutto dipende da te, da Reini e dal vostro paio di forbici, quando la Germania si affida ai centri di ricerca della Bmw e della Porsche.»
Inizio a capire.
«Dobbiamo affidarci al meglio, anche noi. E il meglio in questo momento è Walter Plaikner. Il nuovo responsabile delle slitte sarà lui.»
Plaikner. Ero un ragazzino quando lui faceva parte della nostra squadra. Ricordo che aveva messo una buona parola per farmi entrare nell’Arma, che spesso si scontrava con Karl Brunner e con Walter Jentzsch, che aveva la passione per le moto. Sparì dopo l’Olimpiade di Lillehammer, andò ad allenare il Giappone e poi gli Stati Uniti. Ma ricordo anche che erano suoi quei portapattini che lo stesso Jentzsch trovò in chissà quale angolo del magazzino prima di Nagano 1998, permettendomi di conquistare un argento che, altrimenti, avrei visto con il binocolo.
Devo parlarne con Reini. Lui propone di vederci in centro a Bolzano per un gelato, io preferisco la solita pista di atletica di Bressanone. Non ho molta voglia di fermarmi ogni cinque passi per una stretta di mano e un autografo.
«Hai sentito? Plaikner sarà il nuovo responsabile dei materiali» attacco.
«Sì, Norbert l’ha comunicato anche a me. E ora che si fa?»
«Gli andiamo a parlare, innanzitutto. È stato lontano dalla squadra per molti anni, anche lui avrà bisogno di orientarsi.»
«Noi una slitta buona l’abbiamo.»
«Non basta, Reini. La federazione vieterà le sospensioni, ormai è sicuro. E comunque quella che usiamo sembra un collage. Ho già in mente di cambiare qualche pezzo, forse bisognerà rifarla totalmente. Per Torino 2006 dobbiamo ragionare così.»
Quando incontro per la prima volta Plaikner, a inizio estate, mi sono già fatto un’idea su quali siano le modifiche necessarie. Anche lui, del resto. Dice che siamo stati bravi a costruire la slitta di Salt Lake City, ma che i regolamenti sono cambiati e che bisognerà fare tutto daccapo.
Sono d’accordo e decido di esporgli il mio piano d’azione. «Il problema della slitta vecchia, secondo me, sta soprattutto nella spranga d’acciaio che collega la scocca ai portapattini. L’inclinazione non va bene, penso che quel pezzo vada rifatto.»
Plaikner mi guarda dritto negli occhi, ma non parla. E allora parlo io. «Puoi costruirla tu? Sicuramente sei più bravo di tutti gli altri, in queste cose.»
«No. Mi dispiace.»
Io e Reini ci guardiamo stupiti, mentre Plaikner si allontana.
«Avrà altro da fare in questo periodo» butta là il mio compagno.
Faccio finta di crederci. «Può essere. E allora sai cosa ti dico? Gli andiamo incontro. Quell’attrezzo ce lo facciamo fare da un artigiano, lo paghiamo di tasca nostra. A Walter chiederemo solo di assemblarlo.»
Dopo un mese il pezzo arriva. Chiamo Reini, passo a prenderlo a Bressanone, saliamo insieme a Chienes. Come prevedevamo, Walter è lì che gironzola attorno al magazzino, la tuta blu, gli occhiali da saldatore addosso e il lungo pizzo fissato all’estremità da un fermaglio di metallo. Su di un lato, a fianco di alcuni cartelli stradali, ci sono già tre scocche pronte, di colore azzurro. Sulla morsa è fissato un portapattini, altre sagome simili sono appoggiate al banco di lavoro.
«Ciao, Walter. Ti abbiamo portato il pezzo di cui ti parlavamo. Ce l’ha fatto un artigiano.»
Walter lo prende in mano, lo squadra, poi torna a fissarci. «Ma fate sul serio?» E lo lancia dentro al bidone di metallo che si trova a destra, a tre metri di distanza, tra scope di saggina, cartacce e assi di legno macchiate di vernice.
Ce ne andiamo in silenzio, con la coda tra le gambe. Con la nostra iniziativa lo abbiamo offeso, è evidente. Anch’io, però, sono imbufalito per un trattamento del genere e al primo raduno ne parlo con Norbert.
«Walter è fatto così» mi spiega. «Se in tanti anni ha costruito slitte vincenti è perché non si è mai fatto condizionare. Gli altri copiano, adattano, lui inventa soluzioni alternative. E non accetta suggerimenti.»
Decido di aspettare Walter alla prova dei fatti. Per la prima settimana di test sul ghiaccio della nuova stagione mi porto dietro anche la slitta vecchia. L’ho sempre fatto, serve come metro di paragone. Nessuno può vietarmelo.
Quando Walter ci consegna le nuove slitte, per poco io e Reini non scoppiamo a ridere. Perché sotto la scocca, sopra i portapattini, c’è un attrezzo assolutamente uguale a quello che ci eravamo fatti fare noi. Non è proprio quel pezzo, lo notiamo dopo uno sguardo un po’ più attento, ma al di là di alcuni dettagli insignificanti non ci sono differenze.
Il giorno dopo iniziano le discese di allenamento. Parto con la slitta nuova. La sento scorrere, mi sembra un po’ rigida nella guida, non mi convince fino in fondo. Torno alla partenza e, per il secondo giro, uso il mezzo di Salt Lake City. All’arrivo, Norry mi mostra i tempi. Coincidono al centesimo. Nel giro di poche settimane, Walter è riuscito a costruire una slitta che sa andare veloce come quella che mi ha portato a vincere l’oro olimpico.
Lo ritrovo mezz’ora più tardi, è alla guida del pulmino che ci riporterà in albergo. Il braccio destro disteso lungo i poggiatesta, mi guarda come in attesa di una risposta. «Bel lavoro, Walter.»
Sto faticosamente imparando a far convivere il carattere di Plaikner con il mio orgoglio, quando devo scendere a patti anche con il fisico. Succede a Sigulda, in una settimana di allenamento sulla pista che, a febbraio, ospiterà i Mondiali. È un tracciato tecnico e veloce, forse il mio preferito, qui mi sento forte e sicuro. Alla curva 15, però, sbando e picchio il capo sul ghiaccio. «È solo una botta» mi dico subito per autoconvincermi, e la sera non ci penso più.
Il giorno dopo sono in sala allenamenti, disteso su una panca. Andreatta si ferma davanti a me e osserva le prime alzate.
«Armin, sollevali bene quei pesi.»
«Sollevali bene? Sì, li sto sollevando come sempre.»
«Non prendermi in giro. Non vedi che sei tutto storto?»
Lo guardo come se fosse lui, a prendermi in giro.
«Sei scoordinato, fuori sincronia. Perché alzi prima il braccio sinistro e poi quello destro?»
«A me non sembra, Marco.»
La nostra discussione incuriosisce i compagni. Willy Huber, Christian Oberstolz e Oswald Haselrieder si mettono a fianco di Andreatta.
«È vero Armin, sei tutto storto.»
Mi viene da pensare che si siano accordati per farmi uno scherzo. Il giorno dopo salgo normalmente allo start per un’altra discesa di prova. Esco dalle maniglie, do le solite tre manate, sfioro la spalletta, mi metto in p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ghiaccio, acciaio, anima
  4. Prologo
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. XII
  17. XIII
  18. XIV
  19. Ringraziamenti
  20. Copyright