
- 128 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Un giorno d'impazienza
Informazioni su questo libro
Una vicenda racchiusa nell'arco di un unico giorno, un incontro d'amore vagheggiato e vissuto come motivo ricorrente, che impregnerà di sé tutti i giorni successivi.
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Informazioni
Print ISBN
9788804297840eBook ISBN
9788852070174Bibliografia
Un giorno d’impazienza, 1a ediz. giugno 1952, Bompiani, Milano
A day of Impatience, Farrar and Strauss, New York, 1954
First Affair, New American Library, 1955, ediz. tascabile New York, 1955
Un giorno d’impazienza, 2a versione, giugno 1976, Bompiani, Milano v. in Tre romanzi di una giornata, Einaudi (Supercoralli), Torino 1982
Per le varianti tra la prima e la seconda versione di Un giorno d’impazienza, v. Giuseppe Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983, con vecchie e nuove varianti (pp. 366-380), Mursia, Milano 1983.
Per gli altri riferimenti bibliografici, v. l’«Antologia critica» (pp. 12–24).
UN GIORNO D’IMPAZIENZA
Quand on le laisse seul
le monde
mental
ment
monumentalement
J. PRÉVERT
Domani alle sei a casa tua. Appena sveglio avevo risentito le parole di Mira, dette ieri sera, bisbigliate al mio orecchio. E stavo ancora a pensarci su, ne valeva la pena? Per un tipo come quella che nemmeno mi piaceva. Ma come si fa a stabilire la differenza tra voler provare un sentimento e provarlo di fatto? Per tutta l’estate me lo ero domandato, oggi avrei potuto appurarlo. E di colpo, proprio per questo, temevo l’incontro con lei.
Ero uscito di casa come se avessi qualcosa di urgente da sbrigare, invece non avevo niente da fare ed era solo l’incertezza che mi rendeva inquieto. Appoggiato al muricciolo aspettavo il tram alla solita fermata. C’era un mare grigio, un cielo coperto che prometteva la pioggia, e tutt’intera davanti a me un’altra giornata da smaltire, una della lunga serie invernale. Il tram mi avrebbe scaricato nelle vie del centro, avrei camminato su e giù per i marciapiedi come un fantasma, guardato le facce le vetrine i titoli dei libri in libreria, sempre cercando un segno, una novità, qualcosa che mi tirasse fuori dalla mia inconsistenza. O sarei andato dal sarto. O da Enrico, se me la sentivo… ma per dirgli che? Sotto la strada, dopo l’arco della spiaggia, si vedeva la palazzina del Circolo Nautico, bianca, con le impalcature dei lavori in corso per la sistemazione del nuovo campo da tennis. Avrei potuto passare di là, ma in quella stagione anche il Circolo era un luogo desolato. Finiti i bagni, le uscite in barca e le gare di pallanuoto, cadeva in letargo, solo la sera c’era un po’ di movimento intorno ai tavoli verdi. Da quando gli americani avevano sloggiato erano iniziati i lavori, da più di tre anni ormai, e neppure giocare a tennis si poteva. Avrei trovato i camerieri nelle sale deserte, con lo sguardo perduto sul mare, oltre il vetro dei finestroni.
Arrivava fin qui, fino a questo muricciolo, il tam-tam dei boogie-woogie quando sulle terrazze del Circolo le “segnorine” si scatenavano coi blandi giovanotti in divisa Usa, e noi da lontano assistevamo allo spettacolo. Il cielo era ancora custodito dai palloni di sbarramento antiaereo. Argentei nell’azzurro ipnotico di quelle sere di pace, si libravano come quei pesci orientali penduli nell’aria a segnavento, impercettibilmente ruotanti sulla festa che si stava consumando. Mira ballava con un maggiore dell’Air Force, ma non la conoscevo allora. Ballavano sulla terrazza e facevano l’amore in piedi negli spogliatoi, una volta anche sotto la doccia. Non la perdeva mai l’occasione, quella, per vantarsi con me delle sue prodezze! Sì, la pace era finita, la festa consumata, il boogie-woogie interrotto. S’erano imbarcati cantando Gonna take a sentimental journey, i bravi ragazzi dagli occhi azzurri, lasciandosi dietro la città esaurita e stravolta a disputarsi gli avanzi loro in traffici ruffiani. E forse bisognava risalire di lì per capire cos’era successo dopo, a noi, e anche a Mira. Avrei dovuto spiegarmi con Enrico, riprendere la storia dall’inizio, fino a ieri sera.
Era stato lui a dirmi che cambiare se stessi non si può direttamente, si può solo cambiando tutto il resto, ciò che è fuori di noi prima di ciò che è dentro. E dunque le complicazioni personali ereditate, quell’insofferenza di vivere di sé e per sé, dovevamo riversarle nel Cambiamento Generale, fonderle nel crogiuolo dell’entusiasmo collettivo. Ma come potevo impegnarmi a cambiare alcunché se ero sempre io ad agire, cioè colui che volevo appunto cambiare? Lui s’era iscritto al Partito e io che non avevo superato la contraddizione, mi ritrovavo ancora nel mio circolo vizioso consapevole della deleteria inutilità della mia consapevolezza: perché ciò che la coscienza fa da sola, lo dice Marx, è senza il minimo interesse. Così da un po’ di tempo era diventato tutto irreale qui, e la città, le ore, i giorni, parevano tagliati fuori dal mondo. Gli altri altrove avevano veri problemi, vere sofferenze, vere vite, e a noi invece quel che accadeva poteva indifferentemente accadere o no. Anche ieri sera. Avrei potuto cominciare a dirgli questo se stamattina trovavo il coraggio di parlargli. Doveva pur esserci una maniera di uscirne!
Ma forse era meglio tenersi ai fatti, e riportarli alle loro piccole dimensioni, visto che si viveva alla giornata… Dunque ieri sera, nella sua camera, sdraiati sul divano, col plaid per proteggerci dal freddo, io e Mira vicini, le gambe poggiate sopra una sedia, Gina e Enrico su quell’altra, sistemati così. Lui s’era alzato voltandoci le spalle per versare il whisky, e Mira mi aveva sussurrato all’orecchio: Domani alle sei a casa tua. Con un sorriso di complicità Gina seguitava a far domande sul disegno appeso al muro, e a distrarre Enrico. Avevo sentito la gamba di Mira sotto il plaid insinuarsi tra le mie, il mio sesso irrigidirsi, la mano che mi sfiorava, aspettavo il momento favorevole per rispondere che alle sei no, non potevo, avevo inventato una scusa qualsiasi. Ma lei con gli occhi larghi di stupore m’interrogava come a dire: Tutto qui?
Il tram arrivò sferragliando. Trovai un posto libero accanto al finestrino e mi misi a guardare assorto la strada che scorreva grigia sul grigio del mare, finché il mare scomparve a una curva nascosto da una fila di misere facciate. Tutto qui? Tutto semplice per lei. Che io e Enrico fossimo amici inseparabili nemmeno le passava per la mente. Anzi pareva si fosse intromessa soltanto per guastare le cose tra noi. Gli si stringeva addosso, sdraiata sugli scogli accanto a lui, con quel corpo appena coperto dalle striscioline verdi del costume a due pezzi, bianco come se il sole non lo avesse mai toccato. Faceva effetto così bianco, impudico.
Il tram correva lungo i giardini della Villa Comunale. In agguato dal negativo del finestrino sulla fuga degli alberi una piccola macchia nera più viva, l’occhio, mi spiava rabbrividendo. Il volto compariva e scompariva vicinissimo tra le intermittenze scure del fogliame; la fronte il naso il rilievo dello zigomo, segni che sfumavano in trasparenza sullo sfondo in movimento della Villa. Mi resi conto, dopo qualche secondo d’incertezza, che quel volto era il mio. Ma l’occhio nella tensione continua di renderselo estraneo quasi non gli apparteneva più, pareva vivo di una sua vita particolare, autonoma. Tutto questo fece irruzione all’improvviso dentro di me, senza distrarmi, un processo automatico e parallelo che si svolgeva ormai per conto suo.
Proporre a Enrico di vederci, io e lui, oggi alle sei, lasciando perdere le spiegazioni: ecco un’altra maniera di uscirne, pensavo, mentre l’occhio mi sorvegliava ostile dal vetro del finestrino. Una soluzione un po’ vile, però. Perché era poi vera la mia lealtà verso Enrico, oppure solo una scappatoia per evitare l’incontro con Mira, che temevo? E perché lo temevo? In tal caso dovevo provare a me stesso il contrario. Ma se tutto si riduceva a una prova, a un esperimento, valeva la pena, per così poco, di compromettere un’amicizia che per me contava? Insomma il solito giro a vuoto.
Lei, Mira, non faceva tante storie, agiva d’impulso. Il mio primo impulso, invece, era di non averne. Per lei ci voleva gente d’altra estrazione, che non faceva parte del nostro giro, e senza tanti scrupoli, come quel Walter Tavini o Tanini, un nome così, che si trovava in galera, aveva detto Mira, perché nel periodo dell’Amministrazione Alleata aveva avuto, grazie all’amicizia tutta particolare di un colonnello americano, un posto dove avrebbe potuto rubare senza parere. Ma lui aveva esagerato, non si contentava mai, e ce l’avrebbe fatta se non avessero scoperto dopo due anni gli ammanchi nel rest-camp. Ora aspettava in galera i risultati dell’indagine. Aveva perso la testa per lui Mira, e quando riusciva a ottenere un permesso si precipitava in parlatorio e tornava felice o sconvolta a seconda dei casi, a confidarsi col primo che le capitava. Di Enrico chissà perché aveva una certa soggezione, ma con me dei fatti suoi parlava sempre, nei primi tempi almeno, anche per riderci sopra. Un po’ scombinata, anzi parecchio, lo era, ma certo meno noiosa delle ragazze che di solito frequentavo. Bastava ascoltarla. A quindici anni, non ne faceva mistero, già amica o quasi di uno di cinquanta, Roberto Quincini, il proprietario della fabbrica dove lavorava come dattilografa. Fossero stati tutti come lui, bell’uomo, un signore. E per poco non ci scappava la tragedia quando Quincini li aveva scoperti, lei e il suo ragazzo, chiusi nella toilette dell’ufficio. A pensarci sembrava buffo, ora, ma Aldo sceglieva sempre il momento e il luogo meno adatto per portarla a fare quello che gli piaceva. Era proprio innamorata di lui, che stupida! Con gli americani poi s’erano tutte sbizzarrite, così carini eleganti pieni di scatolette e sigarette, e sapevano ballare… Quel piccolo segno più bianco sul collo, lungo e sottile come una cicatrice? Un colpo di pistola, un ricordino di Andrei, dell’Intelligence Service, biondo bellissimo naturalmente, che stava imparando con lei l’italiano. Gli dissi: Andrei, voce del verbo andare, a letto con te. E lui fece presto a coniugare il verbo, mi ritrovai nuda in piedi sul letto, con quello che mi sparava addosso, si eccitava così capisci? poi cadevo a terra tremando di paura, allora si calmava, e vedessi come diventava d’improvviso tutto gentile! Mi carezzava, faceva l’amore, un po’ matto non dico di no, per poco non m’uccideva.
Vere o inventate, doveva provarci gusto a raccontarmi le sue avventure, compiaciuta dell’interesse che suscitava, lusingata delle allusioni a questi suoi trascorsi da me buttate lì, davanti a Enrico, solo per ridere insieme a lei, mentre lui senza afferrare il riferimento ci guardava con un perplesso sorriso sulle labbra. Parlare per sottintesi, in sua presenza, era eccitante, ci prendeva non so quale abbietta ilarità. Forse Mira si serviva di me per ingelosirlo, lui però non mostrava d’essere geloso. Eppure avrebbe dovuto capirlo subito, fin dalla prima volta quando li avevo sorpresi insieme sugli scogli e avvicinandomi con la sufficienza un po’ sprezzante che maschera la mia timidezza avevo visto quel corpo bianco accanto al suo nero di sole. Chissà come l’aveva conosciuta, lui sempre e fin troppo riservato, da dove l’aveva tirata fuori, cosa ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- Antologia critica
- Sulla riscrittura
- Bibliografia
- Post-Scriptum 1976
- Copyright