— CARTER! — GRIDAI.
Non successe nulla.
Accanto a me, la schiena contro il muro del vecchio forte, Annabeth scrutava nella pioggia, sperando di vedere dei ragazzi magici che piombavano giù dal cielo.
— Lo stai facendo nel modo giusto? — mi chiese.
— Ehi, non lo so. Ma sono sicuro che il suo nome si pronuncia Carter.
— Prova a dare dei colpetti sul geroglifico.
— Ma è una cosa stupida!
— Tu provaci.
Mi guardai il palmo della mano. Non c’era nemmeno traccia del geroglifico che Carter Kane ci aveva disegnato sopra quasi due mesi prima. Mi aveva assicurato che la magia era indelebile, ma con la fortuna che avevo, come minimo l’avevo cancellato per sbaglio strofinando la mano sui pantaloni.
Diedi dei colpetti sul palmo. — Carter? Pronto, Carter? Carter, qui Percy. Cercasi Carter Kane. Prova, prova, uno, due, tre. Ma quest’affare è acceso?
Ancora nulla.
Di solito non andavo in panico se non arrivava la cavalleria. Io e Annabeth ne avevamo passate di cotte e di crude senza rinforzi. Ma di solito non eravamo bloccati su Governors Island nel bel mezzo di un uragano, circondati da micidiali serpenti sputafuoco.
(A dire il vero, a me era già capitato, solo che allora quei micidiali serpenti sputafuoco non avevano le ali. E tutto peggiora, se ha le ali.)
— E va bene. — Annabeth si asciugò la pioggia dagli occhi, anche se era inutile, visto che pioveva a catinelle. — Sadie non risponde al telefono. Il geroglifico di Carter non funziona. Dovremo cavarcela da soli.
— Già — risposi. — Ma che facciamo?
Sbirciai oltre l’angolo. All’estremità di un lungo ingresso ad arco, si apriva un cortile erboso di un centinaio di metri quadrati, circondato da edifici di mattoni rossi. Annabeth mi aveva detto che quel posto era una specie di forte della Rivoluzione Americana, ma non avevo ascoltato tutti i particolari. Il nostro problema principale era il tizio in mezzo al prato, tutto preso nell’esecuzione di un rito magico.
Somigliava a una versione molto smilza di Elvis Presley, con un paio di jeans neri a sigaretta, camicia azzurra e un giubbotto di pelle nera. Camminava impettito avanti e indietro, i capelli gonfi e impomatati insensibili alla pioggia e al vento.
Fra le mani stringeva una vecchia pergamena, come una mappa del tesoro, e la leggeva ad alta voce, gettando di tanto in tanto la testa indietro per scoppiare in una sonora risata. In pratica il tizio era in piena modalità psicopatico.
Come se questo non fosse già abbastanza inquietante, intorno a lui svolazzavano sei serpenti alati, che sputavano fiamme nella pioggia.
Un fulmine lampeggiò nel cielo. Il tuono mi fece tremare i denti.
Annabeth mi tirò indietro.
— Quello dev’essere Setne — disse. — La pergamena che sta leggendo è il Libro di Thoth. Qualunque sia l’incantesimo che sta tentando di fare, dobbiamo fermarlo.
A questo punto forse dovrei fare un passo indietro e spiegarvi che accidenti stava succedendo.
Unico problema: non lo sapevo nemmeno io.
Un paio di mesi prima avevo combattuto contro un coccodrillo gigante a Long Island. Un ragazzo di nome Carter Kane era spuntato fuori all’improvviso, aveva detto di essere un mago e si era messo ad aiutarmi, facendo esplodere le cose con dei geroglifici e trasformandosi in un gigantesco guerriero di luce con la testa di pollo. Insieme avevamo sconfitto il coccodrillo, e Carter mi aveva spiegato che il mostro era un figlio di Sobek, il dio coccodrillo degli Egizi. E poi aveva ipotizzato che fosse in corso una qualche forma di strana ibridazione grecoegizia. (Cavoli, chi l’avrebbe detto.) Aveva tracciato un geroglifico magico sulla mia mano e mi aveva detto di chiamarlo se mai avessi avuto bisogno del suo aiuto.
Avanti veloce. Un mese prima, Annabeth si era imbattuta nella sorella di Carter, Sadie Kane, sul treno per Rockaway. Insieme avevano combattuto contro un tizio divino di nome Serapide, che aveva uno scettro a tre teste e usava una ciotola di cereali come cappello. Dopo, Sadie aveva spiegato ad Annabeth che forse dietro a tutte quelle stranezze c’era un antico mago, un certo Setne. A quanto pareva questo tizio era resuscitato dai morti, aveva rubato un opuscoletto di potentissima stregoneria – il Libro di Thoth – e ora si divertiva a giocare con la magia greca e egizia, sperando di trovare un modo per diventare un dio. Sadie e Annabeth si erano scambiate i numeri di telefono e si erano promesse di restare in contatto.
Erano passate quattro settimane da allora. Quella mattina, alle dieci in punto, Annabeth si era presentata nel mio appartamento e aveva annunciato di aver fatto un brutto sogno: una visione di sua madre.
(A proposito: sua madre è Atena, la dea della saggezza. Mio padre è Poseidone. Siamo semidei greci. Così, a titolo di promemoria.)
Perciò Annabeth aveva stravolto i nostri piani del sabato: invece di andare al cinema, dovevamo scarpinare per tutta Manhattan e prendere il traghetto per Governors Island, dove Atena le aveva annunciato che c’erano grossi guai in vista.
Non appena arrivati, un uragano pazzesco si era abbattuto sul porto di New York. Tutti i mortali erano evacuati dall’isola, lasciando Annabeth e me da soli in quel vecchio forte in compagnia di Psyco-Elvis e dei Serpenti Assassini Volanti.
Vi torna?
Neanche a me.
— Il tuo berretto dell’invisibilità — dissi. — Funziona di nuovo, giusto? Che ne dici se io distraggo Setne mentre tu ti avvicini di soppiatto alle sue spalle? Potresti fargli cadere il libro dalle mani.
Annabeth aggrottò la fronte. Perfino con i capelli biondi spiaccicati su una guancia riusciva a essere carina. I suoi occhi erano dello stesso colore delle nuvole temporalesche.
— Setne dovrebbe essere il più grande mago del mondo — obiettò. — Forse riuscirà a vedermi lo stesso. E poi, se tu corri là fuori, probabilmente ti scaglierà un incantesimo. E credimi, la magia egizia non ti piacerebbe.
— Lo so. Carter mi ha colpito con un pugno di luce azzurra, una volta. Ma a meno che tu non abbia un’idea migliore…
Purtroppo, non ce l’aveva. Tirò fuori il berretto dei New York Yankees dallo zaino. — Dammi un minuto di vantaggio. Prima cerca di abbattere quelle bestiacce volanti. Dovrebbero essere i bersagli più facili.
— Ci penso io. — Sollevai la mia penna a sfera, che non sembra un’arma molto impressionante, lo so, ma si trasforma in una spada magica quando tolgo il tappo. No, sul serio. — Dici che una lama di bronzo celeste li ucciderà?
Annabeth si accigliò. — Dovrebbe. Almeno… il mio pugnale di bronzo ha funzionato con lo scettro di Serapide. Certo, era un pugnale ricavato da una bacchetta egizia, quindi…
— Mi sta venendo il mal di testa. E di solito significa che è ora di smettere con le chiacchiere e attaccare.
— Va bene. Però ricorda: il nostro obiettivo principale è prendere la pergamena. Secondo Sadie, Setne può usarla per diventare immortale.
— Capito. Nessun cattivo diventerà immortale sotto la mia custodia. — La baciai, perché 1) quando sei un semidio e stai per andare in battaglia, ogni bacio potrebbe essere l’ultimo, e 2) baciarla mi piace. — Fa’ attenzione.
Si infilò il berretto e scomparve.
Mi piacerebbe molto potervi dire che io partii all’attacco e ammazzai i serpenti, che Annabeth pugnalò Elvis alla schiena e recuperò la pergamena, e che ce ne tornammo a casa felici e contenti.
Uno si immagina che – almeno una volta ogni tanto – le cose possano andare secondo i piani.
Ma noooooo.
Diedi ad Annabeth qualche secondo di tempo per raggiungere il cortile.
Poi tolsi il tappo alla penna, e Vortice si distese in tutta la sua lunghezza – un metro di affilatissimo bronzo celeste. Avanzai verso il cortile e affettai il primo serpente a portata di mano.
Ammazzare il serpente volante del nuovo vicino: non esiste modo migliore per presentarsi.
La bestiaccia però non si disintegrò come la maggior parte dei mostri che avevo sconfitto in passato. Le due metà atterrarono nell’erba bagnata. Quella con le ali prese a sbatacchiare attorno senza meta.
Psyco-Elvis non ci badò. Continuò a fare avanti e indietro, assorto nella sua pergamena, così mi addentrai un po’ di più nel cortile e affettai un altro serpente.
La tempesta mi offuscava la vista. Di solito, riesco a restare asciutto quando sono immerso nell’acqua, ma la pioggia è più infida. Mi punzecchiava la pelle e mi finiva negli occhi.
Il lampo di un fulmine. Quando tornai a vederci bene, altri due serpenti mi stavano attaccando ai fianchi. Saltai all’indietro nell’istante in cui sputarono fiamme.
Per la cronaca: saltare all’indietro è difficile quando impugni una spada. Ed è ancora più difficile quando il terreno è fangoso.
In poche parole: scivolai e caddi col sedere per terra.
Le fiamme schizzarono sopra la mia testa. I due serpenti rimasero a svolazzarmi attorno come se fossero troppo sorpresi per attaccare di nuovo. Probabilmente si stavano chiedendo: “Ma avrà battuto il sedere di proposito? Dobbiamo ridere prima di farlo fuori oppure non sta bene?”.
Prima che decidessero il da farsi, Psyco-Elvis gridò: — Lasciatelo!
I serpenti sfrecciarono via e raggiunsero i loro fratelli, che roteavano attorno al mago a tre metri da terra.
Avrei voluto alzarmi e affrontare Setne, ma il mio fondoschiena la pensava diversamente. Preferiva starsene lì dov’era, immerso nel suo dolore. Le chiappe fanno così, certe v...