Memoriale dell'inganno
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Memoriale dell'inganno

  1. 384 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Memoriale dell'inganno

Informazioni su questo libro

Il 17 settembre 2008, in seguito al fallimento della Lehman Brothers, J. Volpi, uno dei geni della finanza più rispettati di tutta New York, abbandona gli uffici della sua società. Quello stesso giorno, le autorità lo accusano di aver frodato i suoi investitori per quindici milioni di dollari.

Qualche anno dopo, esiliato in un luogo sconosciuto, J. Volpi invia a un famoso agente letterario un manoscritto autobiografico in cui rivela come, durante la bolla immobiliare, i signori di Wall Street lucrarono senza scrupoli orchestrando una delle più grandi catastrofi economiche di tutti i tempi.

A differenza di altre confessioni sorte a ridosso della crisi, Memoriale dell'inganno è una grandiosa storia familiare raccontata con i toni e il ritmo del noir: è la appassionata indagine di un figlio che tenta di scoprire la vera identità del padre che non ha mai conosciuto, un impiegato del ministero del Tesoro statunitense che durante la Seconda guerra mondiale lavorò come assistente di Harry Dexter White, il creatore del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Alla fine del conflitto, entrambi gli uomini furono accusati di appartenere allo stesso circolo di spie russe...

Da un inganno all'altro, in un intreccio di personaggi fittizi e reali, il lettore viene condotto attraverso i passaggi segreti della Guerra fredda fino agli scabrosi retroscena di Wall Street, sempre più incapace di distinguere l'invenzione dalla verità, sempre più immerso negli abissi della fragilità umana...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804648642
eBook ISBN
9788852064579
Secondo atto

L’OCCASIONE FA IL LADRO

Scena I

Di come visitare Washington di notte e trascinare un cadavere nel fango

Aria della spia

Dove dovrebbe levarsi il livido scorcio della luna, distingue soltanto un vuoto lugubre come il fogliame che si rifrange sul parabrezza. I riflessi notturni – lo sfarfallio di un lampione, l’alone rosaceo di una villa in lontananza, la fosforescenza della nebbia – non alleviano la sua sensazione di addentrarsi in una tana. Cambiando l’angolo di osservazione, nulla migliora e la brumosa punta dell’obelisco gli sembra un palo conficcato nel cuore della città. “Sicuro che nessuno ci segua?” vorrebbe domandare a Jim per l’ennesima volta, ma sa che l’altro lo affronterebbe con una smorfia sardonica. Che stupidaggine andarsene in giro per la città con quello straniero cisposo! Anche se è stato lui stesso a proporre questo sistema, dopo aver dato appuntamento a Jim di fronte a un’officina meccanica, sulle scale del monumento a Lincoln, nei bagni della Biblioteca del Congresso e alla matinée di un cinema scalcagnato, adesso se ne pente. Credeva che così sarebbe riuscito a placare il proprio nervosismo, ma il tremito alle ginocchia o il sudore sul petto non lo hanno abbandonato. Perciò insiste per passare a prenderlo in posti sempre diversi e per lasciarlo dopo mezz’ora – mai di più – in qualche angolo poco transitato, il più lontano possibile dal Tesoro. E nemmeno così si tranquillizza. Percorre itinerari sempre più ingarbugliati, va a zigzag e svolta all’improvviso. “Mi fanno piacere tutte queste precauzioni” l’ha avvisato Jim, “ma potremmo pure prenderci un caffè per ripararci un po’ da questo maledetto freddo.”
Fermarsi è la chiave per passare inavvertiti, pensa Giurista, e ha un brivido ricordando la volta in cui sono stati fermati dalla polizia. Quando ha sentito l’urlo della sirena e i lampi blu e rossi hanno colorato il volante ha creduto di essere perduto, invece Jim è rimasto impassibile, perfino sgarbato di fronte al motociclista che ha intimato di abbassare il finestrino. “Una delle luci posteriori non funziona, la ripari in fretta” l’ha rimproverato. Tutto lì. Prima di ripartire, Jim ha voluto dargli una lezione: “La cosa più importante è mantenere la calma”. Giurista si è infuriato. “Sono stanco di questo gioco” gli ha risposto sconvolto in viso. Abbassando la guardia, Jim gli ha chiesto di essere paziente, in fin dei conti non era successo nulla, e gli ha ricordato la priorità della causa.
La causa. La ragione segreta e inesprimibile che lo spinge a fare quelle passeggiate notturne e a redigere i suoi rapporti quindicinali. Il motivo per il quale si sottopone a quest’ansia incontrollabile. La causa, sì, la causa. Combattere il nazismo. Cercare la pace mondiale e l’amicizia fra i popoli. Reinstaurare l’uguaglianza e la giustizia. La maledetta causa che è sul punto di fargli scoppiare il cuore e di farla finita con la sua pace. Perché diavolo è tornato a collaborare con i russi quando anni prima era riuscito ad abbandonarli? Se il suo temperamento non si presta ai segreti e ai tranelli, perché è di nuovo qui, con Jim sul sedile di fianco al suo, sul punto di tirare fuori i documenti che ha nella tasca interna della giacca? Perché non ha rispettato la parola data – o non si è piegato al suo stesso panico – e non si è accontentato della sua noia borghese? Perché non gli è bastato svolgere il suo lavoro ufficiale e continuare nella sua routine da burocrate? Perché, malgrado tutto, Giurista crede ancora nella causa.
Alla sua destra scorge le ombre del Mall e il suo malessere aumenta. “Facciamo un altro giro” lo incalza Jim. Lui distoglie lo sguardo per non intravedere il profilo smorto della Casa Bianca. Quando si addentrano in una zona di giardini cenciosi e casette mal dipinte – un quartiere di neri, senza dubbio –, Jim inizia l’interrogatorio e gli domanda com’è andata la settimana. In altre parole: cosa mi hai portato oggi. Giurista detesta la condiscendenza del russo. Se lo ospita lì, nella propria auto, sul punto di affidargli un altro rapporto, è perché aspira a essere coerente con i propri princìpi, con le convinzioni che – anche se nessuno lo sospetta – ha difeso fin da ragazzo. L’ultima volta che ha abbandonato il lavoro clandestino non è stato soltanto a causa del patto stretto dai russi con i tedeschi, ma per la mancanza di sensibilità dei loro agenti. Lui non merita di essere trattato con quell’arroganza, è una delle figure più rispettate del governo e si gioca tutto – tutto – collaborando con i sovietici. O credono di poterlo comprare con un miserabile tappeto persiano? Ridicolo. Se rischia è semplicemente perché ne ha voglia.
“Non è stata una settimana particolarmente attiva” ammette in un sussurro. E, accendendosi una sigaretta, riassume lo stato delle conversazioni con i britannici, la penosa situazione della Cina, le frizioni del Dipartimento di Stato con i giapponesi, notizie in gran parte pubbliche che Jim però incamera come rivelazioni di prim’ordine perché qui e là, mescolata ad analisi più o meno anodine, Giurista lascia cadere qualche perla, dati crudi che nessun altro conosce, cifre e bilanci che faranno la delizia dei suoi capi a Mosca. La notte è sempre umida e nebbiosa, e i due si imbarcano in una discussione sullo sviluppo della guerra. Questa è la parte dei loro incontri che a Giurista piace di più, quando, ormai libero dal senso di colpa, recupera la tempra professorale e si lancia in dissertazioni sulla politica economica. A volte si chiede se non rischi soltanto per arrivare al momento in cui gli è permesso dispiegare il suo vasto arsenale di idee e opinioni e impartire una lezione di politica monetaria come se stesse dando consigli allo stesso Stalin per interposta persona. Si ritiene in possesso di una verità superiore, e nulla lo fa godere quanto condividerla, convinto che così influirà sui rapporti che americani e sovietici manterranno alla fine del conflitto. Un salvatore? Piuttosto un propiziatore. Un intermediario. Uno capace di giocarsi la propria reputazione pur di trovare ascolto ai due lati dell’oceano.
Jim lo guarda negli occhi, soddisfatto. Apprezza l’improvvisa veemenza di Giurista, vi avverte una prova del suo impegno. Come tutti gli individui della sua specie, ha bisogno di ritenersi insostituibile per giustificare le proprie menzogne e i propri furti. Jim è stato più volte rimproverato per aver concesso un margine di manovra tanto ampio a questo contatto, per non avergli dato un giro di vite e non averlo costretto a ottenere informazioni più delicate, ma il russo sa che con Giurista deve procedere con accortezza, solo così conserverà la calma e la fiducia necessarie a proseguire nella sua missione. In fin dei conti è vero che, come lui non si stanca di ripetere, è uno dei pilastri dell’apparato.
Conclusa la sua lezione magistrale, Giurista gli affida i fogli che ha scritto in una grafia minuta e spigolosa. Jim non li guarda nemmeno – avrà tempo per divorarseli nella sua stanza – e li infila nella tasca dei pantaloni come se fossero banconote spiegazzate. “Dove ti lascio?” gli domanda Giurista. Jim gli dà qualche indicazione e restano in silenzio nell’ultima parte del tragitto, cercando di indovinare chi abbia guadagnato di più nello scambio di quella notte.
Via via che si avvicina il momento dei saluti, Giurista si sente di nuovo le mani sudate, ancora una volta si scopre vuoto ed esausto. Furioso. Si ripromette che sarà l’ultima volta: non si presenterà più a questi odiosi appuntamenti, non farà caso alle telefonate di Jim e dei suoi, poi finisce per ammettere di non essere capace di vivere senza il vortice che lo scuote ogni volta che il russo sale in macchina con lui, e di non poter rinunciare all’idea che la sua intelligenza venga apprezzata tanto a Mosca quanto a Washington. Quando arrivano all’angolo indicato – la punta dell’obelisco a stento fa capolino nella bruma – Jim apre lo sportello e scende sulla neve sporca. Non si stringono nemmeno la mano. Conclusa la missione, Giurista si prepara a tornare alla placidità della sua casa, alla tenera accoglienza della moglie, a quell’altra metà della sua vita di cui sente tanto la mancanza e di cui tanto si vergogna.

Duetto

«Il protagonista di questo fantastico racconto» mi spiegò Leah «non era altri che Harry Dexter White, allora sottosegretario al Tesoro. O almeno, questo suggerivano le accuse di Bentley e Chambers.»
«Sembra una scena presa da Il terzo uomo» mi vantai della mia erudizione. «Ricordi l’apparizione di Orson Welles, quell’ippopotamo superbo? La nebbia fitta, la città vuota e minacciosa, l’agente sovietico sarcastico e implacabile.»
«Be’, era così che i repubblicani volevano dipingere White negli anni successivi alla sua morte.» Leah bevve un piccolo sorso dal bicchiere e io mi scoprii ad ammirare le sue labbra. «Nelle elezioni del 1952 il generale Eisenhower schiacciò il democratico Adlai Stevenson e Henry Wallace, il candidato del Partito progressista, ex vicepresidente di Roosevelt e vecchio amico di White, e nominò vicepresidente nientemeno che Richard Nixon. Il clima del paese non poteva essere più gelido, la vecchia alleanza con i sovietici si era infranta, Churchill aveva appena tenuto il suo discorso sulla cortina di ferro, McCarthy aveva iniziato la sua caccia alle streghe, e chi non tremava di fronte al pericolo rosso temeva di venire accusato di essere un rosso camuffato.»
Stavolta il nostro incontro non si teneva nel mio ufficio o in un asettico caffè del Midtown, ma davanti a un Sancerre, delle ostriche (per me) e un piatto di verdure multicolori (per lei), in un ristorantino francese a Madison che a prima vista non sembrava il luogo più adatto a un incontro di lavoro, con il salottino in penombra, soltanto otto o nove tavoli, tutti con piccole candele accese. Di malavoglia Leah aveva abbandonato i jeans e i pullover a collo alto e sfoggiava una camicetta nera la cui scollatura sembrava metterla a disagio. Si era sciolta i capelli – una chioma lunghissima – e portava dei discreti orecchini d’argento. Mi divertiva il suo modo di dissimulare che il vino aveva cominciato a intorpidirle la lingua.
«Anche se i repubblicani avevano vinto le elezioni federali» mi spiegò, «erano appena stati sconfitti nel Wisconsin e nel New Jersey, e le primarie della California erano dietro l’angolo. Per questo i membri del governo iniziarono a utilizzare ogni intrigo per colpire i democratici. Nel novembre 1953, il nuovo procuratore, Herbert Brownell, si rivolse ai membri del Club dei manager di Chicago e, dopo aver lodato l’Fbi, si lanciò in una denuncia dell’amministrazione Truman perché si era rifiutata di agire contro gli agenti comunisti infiltrati nel governo. Infine, come esempio supremo della sua negligenza antipatriottica, fece il nome di Harry Dexter White.»
Mi sorprese l’animosità con cui Leah si riferiva ai repubblicani. Non che io lo fossi (in realtà li disprezzo quasi più dei democratici), ma non avevo convissuto con nessuno che avesse posizioni così ostentatamente liberal da quando avevo lasciato la casa materna. Pensai che ci fosse qualcosa di affascinante nel disprezzo che Leah riservava ai potenti, e all’improvviso mi scoprii con la mia mano sulla sua. Invece di tirarla via, lei la lasciò lì, fredda e immobile.
«Per iniziare, Brownell enumerò tutti gli incarichi ricoperti da White al Tesoro e al Fondo monetario internazionale e mise in risalto il suo contributo agli accordi di Bretton Woods.» Leah si limitò a sollevare un sopracciglio, indifferente alle mie carezze. «E poi lo accusò di consegnare documenti segreti ai russi perché li trasmettessero a Mosca. Ma il peggio, secondo lui, era che i democratici sapevano che era una spia comunista quando lo avevano nominato direttore esecutivo della delegazione statunitense al Fondo monetario internazionale.»
«E come rispose Truman?»
Cercai di versarle un altro po’ di vino, ma lei me lo impedì liberando la mano dalla mia e mettendola sul bicchiere.
«Mi fa venire sonno» si scusò.
«Succede con il primo bicchiere» sorrisi. «Vedrai che se ne bevi due o tre l’effetto sarà opposto.»
Sorrise e per la prima volta notai i suoi canini da vampiro.
«Durante un’apparizione televisiva, il presidente negò le accuse di Brownell» nonostante gli sforzi per mantenersi all’erta, la sua voce iniziava a denunciare le fluttuazioni provocate dall’alcol. «Truman affermò che, anche se White era sottoposto a indagini dell’Fbi, allora era stato praticamente impossibile provare le accuse contro di lui e assicurò che, se aveva permesso la sua nomina al Fondo monetario, era stato perché si trattava di un incarico meno delicato di quello di sottosegretario al Tesoro.»
Scostandosi dal suo copione, Leah si scusò e andò in bagno (la immaginai che si sciacquava il viso per svegliarsi). Senza consultarla, dissi al cameriere che non avremmo preso né il caffè né il dessert e chiesi il conto. Quando tornò, riprese il suo racconto mentre io, tenendola per un braccio, la guidavo verso l’uscita, dove ci aspettava già l’autista. Non mi chiese nemmeno dove andavamo.
«Nell’autunno del 1953, Brownell e Hoover si presentarono di fronte al Sottocomitato per la sicurezza interna del Senato.» Le luci di Park Avenue scivolavano come lucciole lungo i finestrini. «Il procuratore assicurò che le sue parole erano state male interpretate e che non aveva mai voluto insinuare che Truman fosse sleale, ma insistette sul fatto che l’ex presidente si era rifiutato di affrontare l’infiltrazione comunista perché riteneva che si trattasse di una risposta sbagliata. Poi, nel momento culminante dell’udienza, Ho...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Memoriale dell’inganno
  4. Ouverture
  5. Primo atto. Il dissoluto punito
  6. Secondo atto. L’occasione fa il ladro
  7. Terzo atto. L’inganno felice
  8. Copyright