Stammi felice
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Stammi felice

Filosofia per vivere relativamente bene

  1. 126 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Stammi felice

Filosofia per vivere relativamente bene

Informazioni su questo libro

"... Osservo i miei commensali con maggiore attenzione, e mi accorgo che non mi sono per niente estranei, anzi, li conosco benissimo. Vedo tra i tanti il mio amato Socrate, Platone, Epicuro, san Tommaso, Pascal, Friedrich Nietzsche e addirittura Totò. Eccomi qua, ospite di un vero e proprio simposio insieme ai filosofi che ho sempre amato. A quanto pare, il tema prescelto per la serata è la felicità. Ora, che sia un sogno oppure no, se avete un po' di tempo, vi racconto a modo mio cos'è la felicità per ognuno di questi filosofi." Attingendo al pensiero dei suoi "amici" filosofi, De Crescenzo prova a spiegare non solo cosa sia la felicità, ma qual è il segreto, ammesso che esista, per riuscire a vivere relativamente bene. Stammi felice è un libro piccolo e prezioso, una lezione in cui l'autore, senza prendersi troppo sul serio, sa indicarci una via magari più vicina di quanto pensiamo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804654315
eBook ISBN
9788852065897
1

Socrate e la felicità del necessario

Tra i giorni più belli della mia vita c’è di sicuro quello in cui sono stato proclamato cittadino ateniese. Non pensate, però, che si siano limitati a chiamarmi al telefono e a dire “Caro De Crescenzo, da oggi sei cittadino ateniese”. Tutt’altro. Per l’occasione è stata organizzata una vera e propria cerimonia, nientepopodimeno che sull’acropoli di Atene. Ricordo di aver indossato un elegante vestito blu, e mosso dal pensiero di poter calpestare le stesse pietre che aveva toccato Socrate, decisi di non calzare né scarpe né calzini. Capii che la scelta non era stata delle migliori quando, al cospetto del sindaco di Atene, tutto preso dalla solennità della cerimonia, fui travolto da un’ondata di imbarazzo. Mi vergognai tantissimo, ma allo stesso tempo non riuscivo a smettere di sorridere. Mi trovavo in uno dei luoghi in cui aveva preso forma la storia del mondo. Quel giorno, camminando per le strade di Atene, fui preso da una grande emozione. Come non rivolgere, infatti, un pensiero a Socrate e al momento in cui disse che la felicità coincide con il desiderio. L’essere sull’acropoli riusciva a infondere nel mio animo delle sensazioni tali da farmi comprendere cosa intendesse realmente il filosofo nel V secolo a.C.
Socrate era una persona semplice, non a caso, infatti, andava in giro coperto solo da un chitone, una tunichetta leggera leggera, e quando pioveva indossava un trìbon, un piccolo mantello. I sandali non erano proprio contemplati. Noi oggi, probabilmente, lo avremmo definito un povero disgraziato. A lui, invece, non importava niente, ma proprio niente di tutto quello che gli altri potessero pensare, e non basta: non gli interessavano nemmeno i cosiddetti beni materiali, anche perché era convinto che le sole cose importanti fossero i “princìpi spirituali”, e lo era a tal punto che un giorno, parlando con un suo amico, il sofista Antifonte, non fece altro che litigare. A raccontarcelo, infatti, è stato Senofonte in uno dei suoi Memorabili (I 6, 1-10), dove raccoglie alcuni dialoghi tra Socrate e altri filosofi.
Ora io qui non vorrei sembrare cattivo ma, detto fra noi, il buon Senofonte di filosofia non capiva niente, ma proprio niente. Lui in pratica seguiva Socrate più per darsi un contegno che non per amore della sapienza.
Ciò detto, il dialogo che ha per protagonista Antifonte ruota sempre intorno al valore che hanno i beni materiali, e se il loro possesso conduca a una vita felice. Infatti, un giorno Antifonte, parlando con il maestro, gli chiese:
“O Socrate, io pensavo che coloro che si dedicano alla filosofia fossero tutti un poco più felici. Tu, invece, mi sembri essere addirittura infelice. Vivi in un modo che nemmeno uno schiavo accetterebbe: mangi cibi scadenti e vai in giro sempre scalzo.”
Ebbene, la critica di Antifonte è più che chiara. Lui, il sofista, non risparmia Socrate e lo definisce “un morto di fame”.
Il filosofo, però, non solo non si offese, ma rispose:
“O Antifonte, mi sembra che dal tuo punto di vista il mio modo di vivere sia così sgradevole che preferiresti morire piuttosto che vivere come me. Allora, analizziamo ciò che pensi che ci sia di sbagliato nella mia vita.”
A questo punto Socrate elenca tutte le ragioni che rendono la sua vita più infelice agli occhi di Antifonte, ma che in realtà fortificano il suo corpo e il suo spirito di fronte alle difficoltà.
“Quelli a cui viene dato il denaro” sostiene Socrate “hanno sempre il dovere di fare tutto quello per cui lo hanno ricevuto. Io, invece, dal momento che non lo accetto, non dipendo da nessuno e non sono obbligato a fare ciò che non voglio.”
E non basta, continua sempre su questo tono finché conclude:
“O Antifonte, tu pensi che la felicità consista nel lusso, mentre io credo che sia più bello vivere senza avere bisogni o comunque di averne il meno possibile. Perché tu possa capire, tutto questo per me è ‘il Divino’. E non solo: chi vive nel ‘Divino’, vive anche accanto alla perfezione.”
Ora, diciamo la verità, se Socrate fosse vissuto ai giorni nostri, oltre che un disgraziato sarebbe stato considerato anche un pazzo. Non che ai suoi tempi gli sia andata meglio, sia chiaro. Forse avrebbe evitato la condanna a morte, e vi pare poco? Detto tra noi, però, non credo che Socrate avesse torto: non a caso, infatti, siamo tutti portati a cercare la felicità nei beni materiali e a pensare di essere infelici quando non li abbiamo.
Supponiamo, per esempio, che uno di noi vinca alla lotteria un premio da dieci milioni di euro. Ebbene, prima si comprerebbe una casa, ma non una casa in condominio. Lui infatti direbbe a se stesso: “Dopo aver vissuto tutta una vita in condominio, adesso che sono diventato ricco che faccio? Continuo a vivere in condominio? Per l’amor di Dio, preferisco vivere da solo”.
E si troverebbe una bella villa, un po’ fuori mano, ma con delle mura di cinta il più alte possibili per difendersi dai ladri, e un giardino dove tenere dei bei cani da guardia. Magari farebbe installare anche un impianto di sicurezza, uno di quelli dalla sirena assordante che è solito attivarsi per un nonnulla; potrebbe pensare addirittura di procurarsi un’arma. Poi, inizierebbe a guardare con sospetto i suoi conoscenti e a selezionare con più attenzione le amicizie. Praticamente un inferno.
Questo sarebbe il risultato che potrebbe venir fuori da una fortuna simile. Ovvero, detto con una sola parola: la “solitudine”. A questo punto non ci accorgeremmo che il nostro cuore, in breve tempo, inizierebbe a diventare sempre più arido, proprio come una pianta a cui manca l’acqua.
A Napoli abbiamo un detto: “’O supierchio rompe ’o cupierchio”, ovvero, il superfluo rompe il coperchio. Allora, non ha senso riempire un recipiente più di quanto riesca a contenere.
Non a caso, infatti, la Fortuna e la Felicità hanno un peso molto importante nella vita, ma mentre la prima è un regalo del Destino, la seconda, invece, è più vicina al “merito” e alla virtù.
2

Platone e la felicità collettiva

Come mi è già capitato di raccontare in passato, sono figlio di genitori per così dire “anziani”. Ora, non pensate che lo siano adesso, e a voler essere precisi non lo erano nemmeno all’epoca in cui sono nato. Cerco di essere più chiaro. Quando sono venuto al mondo mia madre aveva quarantacinque anni e mio padre cinquanta. Probabilmente, buona parte delle donne che mi leggono adesso si potrebbero offendere: “Ma da quando in qua” direbbero “una donna a quarantacinque anni è anziana?”. E avrebbero ragione.
Mia madre, infatti, non lo era, ma a quei tempi non era per così dire “normale” che una donna della sua età non avesse ancora avuto figli. Secondo la vox populi, a quarant’anni mia madre poteva rientrare in un solo circolo, quello delle zitelle. Per le donne del quartiere era una poverina che “nessuno aveva voluto”. Poi, grazie a Dio, arrivò mio padre che, oltre a essere un bell’uomo, era anche una brava persona e aveva un negozio di guanti in quella che all’epoca era la zona più elegante di Napoli. Insomma, un buon partito. I due, allora, si sposarono e così finirono i commenti di quelli che dicevano: “Nisciuno l’ha voluta”.
Ora, sia chiaro, non è che mia madre prima del matrimonio fosse infelice: era bella, in buona salute e comunque aveva una famiglia che le voleva bene. Può sembrare poco, ma vi assicuro che non è così. Forse, pensandoci, essere considerata una “non voluta” probabilmente rendeva mia madre un po’ triste. E sottolineerei “un po’ triste”, ma di sicuro non infelice.
Vedete, molto spesso il giudizio altrui può influenzare la nostra felicità, anzi, c’è stato un tempo in cui la felicità del singolo individuo non era così importante, perché quella che contava davvero era la felicità dell’“intero”.
A spiegarcelo è stato Platone nel suo dialogo La Repubblica. Il filosofo racconta di un simposio a casa di Cefalo e il tema scelto per la serata era: “Cos’è la giustizia?”.
A questo punto, potreste chiedervi che legame c’è tra la giustizia e la felicità. Abbiate pazienza e lo capirete.
Dovete sapere che Platone non si è limitato a “filosofeggiare”, ma ha contribuito a una migliore organizzazione sociale ed economica della sua Atene. Praticamente, oggi sarebbe considerato un consulente esterno. Insomma, il suo intento era che queste teorie fossero realmente messe in pratica. Ora, quando Platone incontra “l’uomo più saggio e più giusto di tutti”, ovvero Socrate, ha appena vent’anni e resta subito affascinato dal suo pensiero, e ne ha trenta quando il filosofo viene processato dalla giustizia della sua polis. Immaginatevi, allora, come restò il giorno in cui seppe che Socrate era stato condannato a morte. E poi, con quale accusa? Con quella di corrompere con le sue teorie le menti dei giovani ateniesi.
Perché si sappia, Socrate ai suoi tempi era considerato una specie di nemico pubblico numero uno, e questo perché sosteneva che il saggio era colui che non aveva certezze.
Per lui, infatti, il vero Dio era il “Dubbio”, e non basta: amava anche tutti quelli che ammettevano di “non sapere”.
Detto questo, Platone è convinto che la felicità individuale e collettiva siano le due facce della stessa medaglia, pertanto l’individuo non deve mai anteporre i propri interessi a quelli dello Stato, perché solo così è possibile garantire oltre alla felicità del singolo cittadino, anche la prosperità dell’intera comunità.
E come lo si può fare? Secondo Platone è tutto molto semplice: i governanti non devono avere distrazioni. Che tipo di distrazioni? Ecco, ora voi penserete a cose del tipo uscire con gli amici. Assolutamente no. La distrazione per Platone era mettere su famiglia, intavolare relazioni affettive esclusive, curare i propri interessi commerciali. Insomma, per il filosofo tutta l’attenzione dei governanti doveva essere rivolta all’amministrazione e al buon governo, altrimenti si rischiava di incappare in quello che oggi chiameremmo conflitto di interessi.
Ovviamente, quella descritta da Platone è una felicità di tipo politico e civile, che non si basa principalmente sul bene del singolo, ma che attraverso la convivenza e la cooperazione tra gli individui si pone come obiettivo il soddisfare i bisogni dell’intera comunità. Una città ordinata e giusta è una città felice, e di conseguenza lo sono a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Stammi felice
  4. Introduzione
  5. 1. Socrate e la felicità del necessario
  6. 2. Platone e la felicità collettiva
  7. 3. Epicuro: amicizia è felicità
  8. 4. San Tommaso e la felicità perfetta
  9. 5. Blaise Pascal: la felicità è stare a casa
  10. 6. Jean-Jacques Rousseau e la felicità pubblica
  11. 7. Gaetano Filangieri: la felicità prima di tutto
  12. 8. Arthur Schopenhauer e la felicità oscillante
  13. 9. Friedrich Nietzsche: dal dolore alla felicità
  14. 10. L’Anonimo: felicità per tutti
  15. 11. Totò, l’artista della felicità
  16. Simposio
  17. Epilogo
  18. Copyright