
- 182 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Un anno in collegio
Informazioni su questo libro
Domenica Santolina Doone, detta Dinnie, appartiene a una famiglia di origine italiana, povera e un po' scombinata, che si trasferisce in continuazione. Finché, un giorno, gli zii materni le offrono la possibilità di frequentare un collegio svizzero i cui alunni vengono da tutto il mondo. Là Dinnie imparerà a guardare le cose da altri punti di vista, a conoscere mentalità e usanze differenti dalle sue, a capire meglio se stessa e quello che vuole dalla vita.
Un romanzo insolito, divertente e profondo, proiettato verso un futuro fatto di sempre più intensi legami tra popoli diversi.
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Informazioni
Print ISBN
9788804637141eBook ISBN
97888520658111
La mia prima vita
Nella mia prima vita vivevo con mia madre, mio fratello maggiore Rifo, mia sorella maggiore Stella e mio padre, quando non era in giro. Papà faceva il camionista, oppure il meccanico, o il raccogli-qualcosa o l’imbianchino. Si definiva un tuttofare, ma a volte nella città dove ci eravamo stabiliti non trovava niente da fare, e allora partiva per cercare lavoro altrove. Dopodiché mamma cominciava a fare i bagagli e ad aspettare che telefonasse per dirci di raggiungerlo.
Ogni volta diceva: «Ho trovato un posto fantastico! Vedrete!».
E a ogni trasloco avevano meno roba da imballare. Mia madre diceva: «Hai davvero bisogno di tante cose, Dinnie? Sono soltanto oggetti. Lasciali perdere».
Quando compii dodici anni, avevamo seguito mio padre dal Kentucky alla Virginia e poi in North Carolina, Tennessee, Ohio, Indiana, Wisconsin, Oklahoma, Oregon, Texas, California, New Mexico. E tutti i miei averi stavano in una scatola. A volte vivevamo nel cuore pulsante di una città, ma di solito papà trovava per noi una casa sbilenca nella stradina più dimenticata di una dimenticata piccola città.
Mio padre era stato un ragazzo di campagna, mia madre una ragazza di città, e passava la maggior parte del tempo tentando di dimenticarsene. Le rare volte che ci stabilivamo in una città, però, sembrava sentirsi a casa, la sua vera casa, una casa per sempre. Trovava lavoro in un ufficio o in uno studio grafico, sapeva usare gli autobus e farsi largo tra la folla, e pareva sorda ai clacson, alle sirene e ai martelli pneumatici.
Tutte cose che, invece, mandavano in bestia mio padre.
«Lo so che qui c’è lavoro» diceva, «ma ci sono troppa gente e troppe auto. Roba da farsi ammazzare solo per attraversare la strada. Non è il posto giusto per tirar su dei ragazzi.»
Allora mamma diventava molto silenziosa, dopo un po’ lui partiva alla ricerca di un posto migliore e lei si rimetteva a fare i bagagli. Secondo Stella, la mia sorella maggiore, papà continuava a farci trasferire per evitare che la famiglia di mamma ci trovasse. Pensava che i suoi “avessero la puzza sotto il naso” e che l’avrebbero convinta a tornare con loro a New York. A sentir lui, ci guardavano dall’alto in basso.
Una volta – avevo sette, otto anni, e vivevamo nel Wisconsin, o forse no, forse era l’Oklahoma, o forse l’Arkansas (avevo scordato l’Arkansas: ci siamo vissuti per sei mesi, credo) – rientrando da scuola avevo scoperto che nella nostra cucina era seduta una donnetta magra, coi capelli grigi raccolti in una crocchia. Prima che riuscissi a togliermi il cappotto, mi aveva stretta in un abbraccio profumato chiamandomi carissima e micetta mia.
«Non sono una micetta» avevo detto, svignandomela in cortile, dove Rifo si allenava a tirare un pallone dentro un canestro invisibile.
«C’è una signora, in casa» lo avevo informato.
Rifo aveva lanciato il pallone, e, guardandolo rimbalzare davanti al garage della casa accanto, aveva detto: «Scema, non è una signora. È nonna Fiorelli».
Quella sera, mentre ero a letto dietro la tenda che divideva a metà la cucina, c’era stata una discussione coi fiocchi. Papà era sparito… aveva dato un’occhiata alla nonna e se l’era filata senza neanche dire “ciao”.
Mamma, che invece era rimasta, stava spiegando alla nonna quanto nostro padre fosse in gamba, e quanto fosse ricca la nostra vita.
«Mamma è una sognatrice nata» aveva commentato Stella dal letto accanto al mio.
«Ricca?» era sbottata la nonna. «Questa vita la chiami “ricca”?»
Mamma era partita all’attacco: «Il denaro non è tutto».
«E perché gli hai permesso di chiamare Rifo il vostro ragazzo? Che razza di nome è?»
I miei genitori avevano fatto un patto: papà avrebbe scelto il nome dei maschi, mamma quello delle femmine. Mio padre diceva che Rifo si chiamava così per via di un rivolo d’acqua, un ruscelletto che scorreva accanto alla casa dove allora abitava la nostra famiglia. Ma quando scrissi la parola rifo in un tema, la maestra la cancellò, ci scrisse sopra rivo e mi spiegò che rifo non esisteva. A mio padre non lo dissi, però. E neanche a Rifo.
Per la sua prima figlia (mia sorella) mamma scelse il nome di Stella Maria. Poi, quando arrivai io, decise di strafare e mi battezzò Domenica Santolina Doone. Troppa roba, e infatti mi chiamano quasi tutti Dinnie.
«Dovresti pensare a te stessa» aveva detto nonna Fiorelli. «E ai tuoi ragazzi. Dovrebbero frequentare una scuola come quella dove insegna tua sorella. A tuo marito serve un lavoro vero…»
«Ha un lavoro vero…»
«Uno diverso ogni sei mesi? E che lavori, poi! Come farete a tirarvi fuori da questa palude?»
«Deve trovare l’occasione giusta» aveva ribattuto mamma. «Potrebbe fare qualunque cosa… davvero. Gli serve solo un’occasione…»
«Un’occasione?!» la voce della nonna era sempre più alta. «Sai che ridere! Che occasioni può avere, senza un diploma o una laurea?»
«Non tutti ne hanno bisogno.»
«Quando siamo arrivati qui, tuo padre e io non sapevamo una parola d’inglese, ma vi abbiamo mandato all’università…»
Stella mi aveva tirato un cuscino, dicendo: «Non ascoltare, Dinnie. Metti la testa sotto il cuscino e dormi».
Ma il cuscino non aveva soffocato la voce furibonda di nonna Fiorelli.
«E di te che mi dici? Eccoti qua, un’artista diplomata, e scommetto che non possiedi nemmeno un pennello.»
«Dipingo…»
«Che cosa? Muri? Muri cadenti e screpolati? Basta! Dovresti parlare con tua sorella…»
Il mattino dopo nonna Fiorelli era partita, e così pure papà. Era andato in cerca di un nuovo posto dove vivere. Aveva sentito parlare di una certa occasione…
Avevamo continuato a seguirlo da un’opportunità all’altra, ma ovunque andassimo, Rifo si cacciava nei guai. Secondo lui non era colpa sua se, ovunque andassimo, incontrava gente che gli faceva fare le cose sbagliate. A quanto pareva, in Oklahoma dei pessimi soggetti gli avevano suggerito di prendere a sassate le finestre della scuola, e nell’Oregon certi altri lo avevano spinto a squarciare gli pneumatici delle auto, e in Texas altri ancora gli avevano fatto fumare uno spinello, e in California qualcuno lo aveva convinto a incendiare un fienile, e in New Mexico gli era stato praticamente imposto di rubare un’auto.
A ogni trasloco, papà gli diceva: «Hai un’occasione per ricominciare da zero».
E a ogni trasloco Stella diventava sempre più silenziosa. Bastava una settimana in una nuova città, perché i ragazzi cominciassero a bussare alla nostra porta chiedendo di lei. Ragazzi d’ogni genere: tranquilli, secchioni, prepotenti, sfacciati.
In California, quando aveva sedici anni, una domenica sera era tornata a casa – in teoria aveva passato il fine-settimana da un’amica – annunciando di essersi sposata.
«Impossibile» aveva detto papà.
«Va bene, è impossibile» si era limitata a rispondere lei, voltandogli le spalle.
A me aveva raccontato di aver sposato un marine che stava per andare oltreoceano, e mi aveva fatto vedere un certificato di matrimonio. Dopodiché si era messa a mangiare a quattro palmenti ed era diventata sempre più tonda. Ci eravamo appena trasferiti in un paesetto del New Mexico quando, una notte, mi aveva svegliato per dirmi: «Chiama mamma, e che venga subito».
Stava per avere un bambino. Papà era chissà dove, Rifo in galera, e Stella stava per avere un bambino.
Quella era stata l’ultima settimana della mia prima vita.
2
Un puntino
I sogni di Domenica Santolina Doone
Mia madre mi infilava in uno scatolone scuro,
lo sigillava col nastro adesivo e lo affidava a degli sconosciuti. Sentivo un gran rumore mentre
mi trasportavano, e poi mi trovavo nella stiva di un aereo, vicino a un’altra scatola che abbaiava. In fondo alla mia scatola c’era un biscotto
per cani, e quando avevo fame lo mangiavo.
La mia seconda vita ebbe inizio quando fui rapita da due perfetti sconosciuti. A sentire mia madre, che collaborò al rapimento, stavo esagerando. Gli sconosciuti non erano poi così sconosciuti. Li avevo già incontrati due volte ed erano la sorella di mamma e suo marito: zia Sandy e zio Max. Calarono sul nostro paesello nel New Mexico e rimasero alzati tutta la notte a parlare con lei. La mattina dopo andammo in ospedale a trovare Stella e il suo pupo, e poi gli zii mi costrinsero a salire sulla loro auto insieme alla scatola con dentro tutti i miei averi (d’accordo, non è che mi avessero proprio costretta, però nessuno aveva chiesto la mia opinione) e andammo all’aeroporto ad Albuquerque.
Avevo l’impressione di trovarmi chiusa in una bolla sottile, ma abbastanza robusta da contenermi. Una specie di enorme palla trasparente. Me la immaginavo ricoperta di fori dai quali entravano oggetti diversi: io li esaminavo, e se non mi piacevano li spingevo fuori. Mentre l’auto viaggiava verso Albuquerque i fori erano sigillati, ma quando arrivammo all’aeroporto non riuscii a evitare che alcuni si aprissero automaticamente.
Non ero mai salita su un aereo. Zio Max consegnò la mia scatola a una donna in divisa. Zia Sandy mi comprò una stecca di cioccolata e un libro illustrato di fiabe. Ero troppo grande per le fiabe, e glielo dissi, ma lei replicò: «Ti confiderò un segreto. Io le leggo ancora, e sono decrepita!».
Ci sedemmo in una saletta e dopo un po’ ci mettemmo in fila, percorremmo un corridoio e occupammo i nostri posti. Quando l’aereo cominciò a rollare sulla pista, mi appallottolai dentro la mia bolla in attesa dello schianto, sicura che non saremmo mai riusciti a sollevarci in aria. Mi curvai e strinsi le braccia intorno alle ginocchia, come spiegava il foglio infilato nella tasca del sedile davanti al mio. Zia Sandy mi accarezzava la schiena.
«Moriremo!» strillai. Un fragoroso ruggito mi assordò e per tutto il tempo zia Sandy continuò ad accarezzarmi la schiena come se non le importasse di finire spiaccicata in un disastro aereo. Poi il naso dell’apparecchio si drizzò e l’intero aeroplano, passeggeri compresi, si staccò da terra e cominciò a volare.
A volare! Tenni il naso schiacciato contro il finestrino per tutto il tempo, mentre attraversavamo il paese da un capo all’altro. Le nuvole erano bianche e vaporose sotto di noi, e quando si diradavano vedevo apparire e scomparire montagne, fiumi, laghi, strade, intere città, un deserto e ancora montagne e colline e pianure. Terra verde e terra marrone. Era un prodigio.
Niente di paragonabile a un viaggio in auto, che ti permette di vedere soltanto brandelli di quello che ti circonda: una casa, un albero, una stazione di servizio… In un’auto, tutto ti scorre accanto e potresti essere dovunque e in nessun luogo. Ma dall’aereo ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Un anno in collegio
- 1. La mia prima vita
- 2. Un puntino
- 3. Un’occasione
- 4. I due prigionieri
- 5. Cartoline
- 6. La ragazza
- 7. La Regina
- 8. Un accento italiano
- 9. Alluci e denti
- 10. Lamentele
- 11. Dei tali villani
- 12. Nomadi e Cuuculi
- 13. Val Verzasca
- 14. Mocciosa
- 15. Percorso-salute
- 16. Sbocciabile
- 17. Lotte
- 18. Un annuncio
- 19. Buon Natale
- 20. Alberi e mucche
- 21. Libero
- 22. St Moritz
- 23. Capitomboli
- 24. Catastrofi
- 25. Una telefonata
- 26. Hamburger e pesche
- 27. L’italiano all’attacco
- 28. Pensare
- 29. Andermatt
- 30. Aspettando
- 31. Brasato e progetti
- 32. La bomba
- 33. Una visita
- 34. Le Dolomiti
- 35. La voce della neve
- 36. Segnali
- 37. Attesa
- 38. Voci bianche
- 39. Arritta
- 40. Due bombe
- 41. Cappelli e insetti
- 42. Pescare
- 43. Al bivio
- 44. Luce mutevole
- 45. Ciao
- 46. Una nuova vita
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