Non vi fu prostituta, adultera, ruffiana, ladra, megèra sulla terra, per la quale ai miei orecchi non giungesse un accento di pietà, di commiserazione, i miei occhi non scorgessero un’alzata sola di spalle che un poco ne attenuasse il peccato o alleggerisse la pena, come questa donna per la quale mai non ne udirono i miei orecchi, e i miei occhi mai ne poterono vedere.
Il disprezzo, il disgusto unanimi ch’ella provocava e riscuoteva sempre dappertutto, e il non far lei nulla per sviare, placare, addolcire questa sozza protesta, o un poco sottrarsene, e il non dimostrare mai che ciò la turbasse d’un aggrottar solo della fronte, m’indussero ad osservarla con attenzione, a rifletter sopra di lei per un bisogno naturale di verità, per non rimanere coi più nelle file degli sciocchi o dei malvagi volgari, o, peggio ancora, dei poltroni superficiali in un equivoco grossolano.
Poco alla volta mi si insinuò nel cervello la convinzione che sotto quel cumolo di equivoci, di incongruenze dovesse esistere una vera grande profonda moralità. E spontaneamente mi avvicinai a lei, le rimasi vicino a lungo e ripetutamente, finché non le divenni amico e lei amica.
È doveroso da parte mia dichiarare subito che, specialmente ai primi contatti, provai un’istintiva ripugnanza, qualcosa mi inaspriva e mi feriva in questa donna, e, talvolta, mi nauseava. E non intendo al tempo stesso nascondere che, non so bene per quale ragione, io mi lasciassi di sovente trascinare a comportarmi con lei, forse per eccitarla, e non ce n’era punto bisogno, al massimo della sincerità, oltrepassando i limiti del mio naturale e più profondo sentire, giudicando il suo modo di comportarsi, le sue azioni quotidiane in rapporto alla comune e corrente valutazione, esagerando nel giudizio o accentuandone la sorpresa e riprovazione quasi mi fossi voluto erigere pubblico ministero della borghese mentalità e della sua morale.
Posso invece tranquillamente e con grande piacere risparmiare i commenti, innumerevoli, di tutti coloro che, non tollerando di vedermi giunto in intimità con questa donna, sia nel caffè che per la via, ad una passeggiata o al teatro, facevano di tutto per allontanarmene, finché essa non prese a capitarmi in casa spesso inaspettata, senza ch’io ne avvertissi quasi la presenza, l’arrivo o il dipartire, il minimo peso che mi creasse il bisogno di allontanarla.
Le rimanevo vicino attratto da occupazioni consuete della mia giornata e del mio lavoro, leggendo, lavorando, ravviando le mie carte e il mio pensiero. Di quando in quando un monosillabo, una parola balzata spontanea dalla mia o dalla sua bocca, faceva sentire ad entrambi la vicinanza dell’altro, e talora accendeva una conversazione naturalmente, la quale di solito, attaccando, finiva per scoppiare e divampare se cadeva sopra un medesimo argomento che rimase fatalmente il punto luminoso ed oscuro insieme della nostra amicizia, il nodo al quale sempre giungemmo senza poterlo disciogliere mai, quello appunto che io, non senza gravi timori, mi accingo a pretendere di riportarvi, nella più viva, se pur lontana speranza, di non guastarne i colori, le proporzioni, i contorni, per darvene un’idea.
Essa pure, vicino a me, leggeva, sonnecchiava, riposava tranquilla, guardava senza inquietudine il soffitto, e sopratutto pensava, assorta nei suoi pensieri non provocando per un momento solo quella inevitabile soggezione o preoccupazione che qualunque altra donna avrebbe provocato al suo posto. Unica diversità apparente era fra noi ch’ella divorava una dopo l’altra, durante la giornata, parecchie diecine di sigarette. Ed io, che pur non essendomi mai lasciato trasportare in seno a questa paradisiaca attrazione di tutti gli uomini, che si chiama tabacco, non ho mai provato alcuna ripugnanza a sentirmene alitare attorno le conseguenze, e a rimanere magari per ore e ore, e giorni intieri, in ambienti dove gli altri, fumando a più non posso, mi elargivano di seconda mano la delizia dei loro polmoni, non ebbi ragione di rifiutare da lei quello che da centomila altri m’era stato facile tollerare.
Ad un certo momento, e senza regolarità alcuna, ella mi diceva un: «addio» secco, e non avevo finito di udirlo che già era scantonata via dalla stanza e se ne andava, ed io, senza bisogno di accompagnarla, non solo, ma neppure di distrarre per un attimo il pensiero dalla mia occupazione, né tampoco di curarmi se udiva o no la mia parola, le masticavo dietro un: «arrivederci» e non altro.
Altra volta invece, o di comune accordo, o per sua o mia spontanea proposta uscivamo insieme recandoci a lungo per le strade della città o quelle della campagna, incontrandoci in una ammirazione appassionata e intelligente per le cose grandissime del creato per le quali ella dimostrava un amore deciso, ben definito, più certo e meno sconfinato del mio, meno curioso e più sereno e per nulla mai doloroso, si direbbe più solido e virile e di più equa ed accessibile felicità, non arrivando il tarlo del dubbio a rosicchiarne le basi; o divergendo, ed altercando talvolta, con reciproca ed amichevole simpatia, sopra quelle degli uomini, e più specialmente quando il discorso cadeva su quelle della loro società e del suo organismo.
Mai con nessun amico provai tale senso di leggerezza e di compagnia, né per una volta sola di collera o stizza allorché giunti ad un punto di insanabile divergenza finivamo per trovarci non più placidamente a lato l’uno dell’altra, ma difronte, faccia a faccia colla nostra tanto diversa e prepotente personalità.
Se io penso a taluna di quelle care donnine che quando vi capitano per la casa vi costringono a mobilitare ogni attività, acciò degnamente e adeguatamente ricoprirle di omaggi per ricambiarle del molto fastidio e del pochissimo bene che vi arrecano, e per le quali non bastano i fiori i dolci le carezze, i complimenti, e guai se non lo fate o dimostrate, facendolo, che ne fareste a meno, e dovete pensare e riparare a mille cose insieme per sentirvene alla fine sfiaccolato, assicurandovi che sia ben caldo il thè e che la stufa non faccia i capricci, come loro, non dimenticando la bottiglia dei sali o quella dei profumi preferiti, lo specchio, o, meglio, i molti specchi, né passar troppo di striscio sulle lodi del vestito e del cappello, delle scarpette mantello ombrellino manicotto, e del resto in appropriate proporzioni, e non lasciarsi sfuggire una sola delle tante sfumature del colorito e dell’acconciatura dei capelli, delle guance, ed una fila d’altre squisitissime corbellerie, ch’io mi arresto nel descrivere perché troppo bene conoscete, al fine non si allunghino di un palmo il musetto e non ci tornino più, e insieme mi ricordo di questa donna che sempre trattai con crudezza come non feci mai con nessun amico, per la quale non ebbi un’attenzione affettuosa, uno slancio di tenerezza, quasi avessi voluto provarne e riprovarne la naturale forza, come non fosse stata anche lei una donna, e alla quale sempre espressi i miei personali giudizi con crudele sincerità o sprezzante ironia, oltrepassando la verità del mio sentire, rattenendomi spesso un grido di entusiasmo che mi saliva dall’animo, e godendomi nella persuasione di pungere la sua impenetrabile epidermide, scoprendo invece la minore resistenza della mia, mi sento preso da una certa uggiolina alla gola, che vien dal cuore e che potrebbe chiamarsi… nostalgia, che ben altrimenti essa chiamerebbe se lo potesse imaginare: «malattia incurabile», e mi ricorderebbe con vivo affetto, da una certa voglia… di rivederla, di rimanere con lei come allora, per essere più buono, e forzare magari la mia stessa natura per riconoscerne la bontà profonda, quasi sconcertante sincerità, per renderle quello che mi deve, quello che forse ella si prese da sé, e che io vorrei più virilmente averle dato colla mia mano, quello che talora trattenni per poca generosità d’animo o deficenza di civile coraggio. O forse la sua presenza basterebbe a risvegliare le incertezze, le repulsioni che armarono spesso anche me contro di lei, riponendomi sull’identico piano: troppo aspro è violentare il proprio carattere.
Oggi io penso solo di ricercarla così, non potendo sapere dove sia, né se mai più mi sarà dato di rivederla sul mio cammino.
Dovrei abbandonarmi a troppa violenza di colori, e spesso di volgare ed ignorante malvagità per lasciarvi anche lontanamente scorgere un pochino nell’animo di coloro, femmine e maschi, che vedendomi con lei durante la nostra amichevole relazione durata un anno disapprovarono così decisamente il mio contegno fino a divenirmi ostili, non tanto per dispiacere a me quanto per nuocere a lei, giudicando in tale modo di toglierle un’arma che le rimaneva: la fedele amicizia di un uomo che, per qualche ragione non trovandosi situato sull’ultimo gradino della società, dov’essi così arbitrariamente e con tanta sicurezza l’avevano situata, dava ragione a rientrare, per il mio pertugio, in discussione sopra il conto suo, dopo che tutte le discussioni in proposito erano state chiuse, e credendo, nella loro cieca ed innocente cattiveria, ch’io rappresentassi alcunché di essenziale per lei, sopratutto per non avere scrupolo alcuno a farmi vedere insieme ovunque e in faccia a tutti. Mi è caro perciò di potervi risparmiare tante insulse rampogne, ma solo per darvi una pur vaghissima idea, di certi apprezzamenti, ripeterò, se me ne darete licenza, dopo ch’io v’abbia domandato venia per la brutalità dell’espressione, quello che mi diceva un giorno persona avente meco dimestichezza, e insieme ricambio di una certa quale stima ed amicizia, e ch’io più vi riporto come utile testimonianza, non concedendo a questo scritto valore letterario né tanto meno artistico, ma bensì di documento umano, morale, e anche, oserei dire, un tantino scientifico. Ecco adunque quanto quella solitamente garbata persona a mio riguardo, mi diceva avendo tutta l’aria di farmi un’ultima e salutare intimazione, sia colla severità dello sguardo che con quella, più grande, del tono della voce: «dimmi un poco, non ti vergogni a farti vedere dappertutto con quel vecchio… arnese puzzolente?». Qui ho creduto sostituire la parola arnese a quella, originale, che all’amico piacque di porre a tal luogo, potrebbero queste pagine cadere sotto occhi dinanzi ai quali troppo urge conservare veli e velari sopra argomentazioni di questo genere, inesatte ed arbitrarie; ma l’arnese, ch’egli intendeva qualificare, altro non era se non l’accrescitivo maschile del sostantivo che si usa per indicare appunto quell’arnese del piacere mercenario ma pur sempre umano. Perdonate ancora la brutalità della frase, necessaria per farvi capire almeno un poco con quanta benevolenza venisse giudicata la mia amicizia, e con qual tono la riputazione di una donna...