
- 304 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Zanna Bianca
Informazioni su questo libro
Un grande classico riccamente illustrato a colori.
Kiche leccò Zanna Bianca con la sua tenera lingua consolatrice e cercò di persuaderlo a rimanere con lei. Ma la sua curiosità era insaziabile, e qualche minuto dopo eccolo ripartire per una nuova avventura.
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Informazioni
Print ISBN
9788804654834eBook ISBN
9788852065903PARTE QUARTA
Gli dei superiori

Capitolo primo
Il nemico della propria razza
Foss’anche esistita, nella natura di Zanna Bianca, la possibilità pur remota di fraternizzare con i suoi simili, tale possibilità venne irrimediabilmente a cadere il giorno in cui fu messo a capo della muta di traino. Ora i cani lo odiavano: lo odiavano per le razioni extra di carne che Mit-sah gli elargiva; lo odiavano per tutti i favori reali o immaginari che riceveva; lo odiavano perché correva sempre in testa, e la sua coda ondeggiante e le sue zampe perennemente in corsa li facevano ammattire.
E Zanna Bianca ricambiava in egual misura il loro odio. Il ruolo di capo-muta era tutt’altro che gratificante, per lui: essere costretto a correre fuggendo dal branco uggiolante, di cui ogni singolo membro, da tre anni a quella parte, egli aveva maltrattato e dominato, era più di quanto potesse sopportare. Ma sopportare doveva, o morire, e la vita che era in lui non desiderava soccombere. Nel momento in cui Mit-sah dava il via, in quel preciso momento l’intera muta, con grida ansiose e selvagge, scattava all’inseguimento di Zanna Bianca.
Era impossibile difendersi. Se si voltava contro di loro, Mit-sah era pronto a gettargli sul muso una pungente staffilata. Non gli restava che correre via, non poteva affrontare con la coda e le zampe posteriori quell’orda ululante. Quelle non erano certo le armi con cui contrastare tante zanne spietate. Così correva, a ogni balzo violentando la propria indole e il proprio orgoglio, e i balzi si susseguivano per tutta la giornata.
Ma non si possono violentare gli impulsi della propria natura senza che questa si ritorca su se stessa. Una tale ritorsione è paragonabile a quella di un pelo, fatto per crescere all’esterno del corpo, che invece si ripieghi innaturalmente in direzione opposta e cresca all’interno del corpo: produrrà infiammazione e dolori lancinanti. Così fu per Zanna Bianca: ogni sollecitazione del suo essere lo spronava a balzare sul branco che gli mugolava alle calcagna, ma il volere degli dei glielo impediva – e non solo il loro volere, ma, a corroborarlo, il morso del nerbo di caribù lungo una decina di metri. Così Zanna Bianca era costretto a mangiarsi il cuore per la rabbia e a sviluppare un odio e un rancore commisurati alla ferocia e all’indomabilità della sua indole.
Se mai vi fu una creatura nemica della propria razza, quella fu Zanna Bianca. Non chiedeva tregua né la concedeva. Era di continuo lacerato e sfigurato dalle zanne del branco, e di continuo vi lasciava i suoi segni. A differenza di molti capi-muta che, montato il campo e staccati i cani dalla slitta, si rannicchiavano presso i loro dei per averne protezione, Zanna Bianca disdegnava tale protezione. S’aggirava intrepido nel campo e si vendicava di notte per quanto aveva dovuto patire di giorno. Prima, quando ancora non era capo-muta, il branco aveva imparato a stargli lontano. Ma adesso era diverso: eccitati dal lungo inseguimento quotidiano, stimolati in modo inconscio dalla sua immagine di fuggiasco che portavano impressa e persistente nel cervello, dominati dalla sensazione di potenza che godevano per tutta una giornata, i cani non si persuadevano a cedergli il passo. E ogni volta che Zanna Bianca compariva tra loro, s’accendevano zuffe a non finire; la sua marcia era ritmata da ringhi e schioccar di denti e brontolii. L’aria stessa che respirava era satura d’odio e di rancore, e ciò non serviva che ad alimentargli rancore e odio.
Quando Mit-sah ordinava alla muta di fermarsi, Zanna Bianca obbediva. All’inizio la cosa creò qualche problema agli altri cani: balzavano immediatamente addosso all’odiato capo, ma solo per trovare la situazione capovolta, poiché dietro di lui c’era Mit-sah, con la sua frusta sibilante. Perciò finirono col comprendere che quando la muta era ferma per ordine di Mit-sah, Zanna Bianca doveva essere lasciato in pace. Se invece Zanna Bianca si fermava di sua iniziativa, allora erano padronissimi di aggredirlo e farlo a pezzi, se ci riuscivano. Dopo una serie di esperienze in questo senso, Zanna Bianca non si fermò più senza un ordine espresso. Imparava alla svelta. Era nella natura delle cose che dovesse imparare rapidamente, se voleva sopravvivere alle condizioni eccezionalmente crudeli alle quali la vita gli veniva offerta.
Ma i cani non riuscirono mai a imparare la lezione di lasciarlo in pace quand’erano nel campo. Ogni giorno, a forza di inseguirlo e urlare la loro sfida, la lezione della notte precedente veniva cancellata; e ogni notte bisognava impararla daccapo, per poi di nuovo dimenticarla. D’altra parte, nell’astio che nutrivano per lui c’era una consistenza ben maggiore: percepivano tra loro e lui una differenza di razza, già di per sé ragione sufficiente per fomentare l’ostilità. Come lui, erano lupi addomesticati: ma era un addomesticamento protratto per generazioni e generazioni. Il senso del selvaggio s’era ormai perso, in loro, e vedevano il mondo selvaggio come l’ignoto, il terribile, l’eterna minaccia, l’eterno nemico. Zanna Bianca, invece, era ancora pervaso di selvaggio, nell’aspetto e in ogni sua azione e impulso. Ne era il simbolo, la personificazione. Così, quando gli mostravano i denti, si difendevano da quelle forze nefaste che s’annidavano nelle ombre della foresta e nelle tenebre oltre i fuochi del campo.
Una lezione l’appresero, tuttavia, quella cioè di tenersi sempre uniti. Zanna Bianca era troppo terribile per azzardarsi ad affrontarlo da soli; lo abbordavano in massa, dunque, altrimenti li avrebbe uccisi uno per uno in una sola notte. Stando così le cose, Zanna Bianca non ebbe mai l’opportunità di ucciderli; se gli capitava di far rotolare un cane a zampe in aria, il branco accorreva compatto prima che avesse il tempo di infliggergli il colpo mortale. Al primo cenno di conflitto, l’intera muta si metteva insieme, e lo affrontava. Non mancavano le dispute interne, ma le reciproche ostilità venivano dimenticate quando si trattava di combattere contro Zanna Bianca.
Da parte loro, per quanto ci provassero in tutti i modi, non riuscivano a ucciderlo: era troppo svelto, troppo formidabile, troppo astuto. Evitava i luoghi chiusi o angusti e se c’era il rischio che lo circondassero sapeva sempre indietreggiare in tempo. Quanto a rovesciarlo sul dorso, non c’era tra loro nessun cane capace di farcela: i suoi piedi artigliavano il terreno con la stessa tenacia con cui egli s’aggrappava alla vita. Nella sua interminabile guerra con il branco, vivere e tenersi saldo in piedi erano sinonimi, e nessuno lo sapeva meglio di lui.
Divenne così il nemico della propria razza: razza di lupi addomesticati, rammolliti dai fuochi dell’uomo, svigoriti nell’ombra protettrice della sua forza. Zanna Bianca era accanito e implacabile: così era stata modellata l’argilla che lo componeva. Aveva dichiarato vendetta contro tutti i cani, e così terribilmente viveva questa sua vendetta che lo stesso Castoro Grigio, fiero e selvaggio com’era, si meravigliava di tanta ferocia. Mai, giurava, mai s’era visto un simile animale; e gli indiani degli altri villaggi lo ribadivano con uguale fermezza, di fronte alle tante uccisioni dei loro cani.
Zanna Bianca aveva all’incirca cinque anni quando Castoro Grigio lo portò con sé in un altro lungo viaggio, e a lungo si mantenne viva la memoria delle stragi che aveva compiuto fra i cani dei molti villaggi sparsi lungo il Mackenzie, attraverso le Montagne Rocciose e nella valle del Porcupine giù giù fino allo Yukon. Zanna Bianca s’inebriava in quell’orgia di vendetta che infliggeva alla sua razza. Si trattava di cani normali, fiduciosi, impreparati alla sua rapidità e precisione e alla mancanza di preavviso dei suoi attacchi. Non lo conoscevano per quello che era: un fulmine di morte. Arruffavano il pelo, irrigidivano le zampe, lanciavano la loro sfida, mentre lui, senza sprecare tempo in elaborati preliminari, scattava all’azione come una molla d’acciaio e già li aveva azzannati alla gola prima che si rendessero conto di quel che succedeva, quando ancora erano nel pieno della sorpresa.
Diventò espertissimo nel combattimento. Sapeva risparmiarsi, non sprecava la sua forza inutilmente, non si perdeva nelle zuffe: era troppo rapido nel suo attacco e, se mancava il colpo, troppo svelto a ritirarsi perché la battaglia si protraesse. Come tutti i lupi, aborriva le lotte corpo a corpo, e questa ripugnanza raggiungeva in lui punte veramente inconsuete. Non sopportava un prolungato contatto con un altro corpo; era una cosa che sapeva di pericolo e lo faceva impazzire. Doveva essere libero, padrone dei suoi movimenti, ritto sulle sue zampe, senza toccare altre cose vive. Era la natura selvaggia che ancora non lo abbandonava, che si esprimeva attraverso di lui. E tale istintiva ripugnanza era stata accentuata dalle tribolazioni che aveva vissuto fin dai suoi primi mesi di cucciolo: nei contatti si annidava il pericolo – era la trappola, l’eterna trappola, e quella paura s’acquattava in fondo al suo essere, intessuta nelle sue fibre.
Di conseguenza, i cani stranieri con cui si scontrava non avevano la possibilità di batterlo. Eludeva sempre le loro zanne: o li uccideva subito o si ritirava, e in ogni caso lui restava indenne. Nel naturale corso delle cose c’erano tuttavia delle eccezioni. Talvolta un gruppo di cani gli piombava addosso e lo puniva prima che avesse il tempo di schizzar via; altre volte succedeva che un cane singolo riuscisse a reagire e lo mordesse a fondo. Ma erano fatti accidentali; in genere, tale era diventata la sua efficienza nei combattimenti che ne usciva sempre incolume.
Possedeva un’altra dote, che gli procurava indubbi vantaggi: la capacità di saper valutare correttamente i tempi e le distanze. Non che lo facesse in modo consapevole, s’intende. Non erano cose che calcolasse di proposito, gli venivano automaticamente. Gli occhi coglievano correttamente la scena e i nervi la portavano correttamente al cervello. Nel suo corpo, ogni singola parte era più efficiente che nella media dei cani, e le varie parti collaboravano tra loro con maggior scioltezza e sicurezza. La sua condizione nervosa, mentale e muscolare era molto, molto migliore. Quando i suoi occhi convogliavano al cervello l’immagine in movimento di un’azione, il cervello, senza sforzi coscienti, sapeva l’esatto spazio in cui era confinata quell’azione e il tempo necessario per portarla a compimento. Così, poteva scansare il balzo di un altro cane, o eluderne le zanne, e al tempo stesso cogliere l’infinitesima frazione di secondo in cui sferrare il proprio attacco. Corpo e cervello, il suo era un meccanismo migliore del loro. Non che per questo meritasse particolari elogi. Semplicemente, la natura era stata più generosa con lui che con l’animale medio, tutto qui.
Si era nel pieno dell’estate quando Zanna Bianca arrivò a Fort Yukon. Sul finire dell’inverno precedente Castoro Grigio aveva attraversato il grande spartiacque tra il Mackenzie e lo Yukon, trascorrendo poi la primavera in battute di caccia lungo i contrafforti occidentali delle Montagne Rocciose; spezzatisi i ghiacci che coprivano il Porcupine, Castoro Grigio si era costruito una canoa e aveva disceso il fiume fino al punto in cui si gettava nello Yukon, appena a sud del Circolo Artico. Qui c’era il vecchio fortino della Hudson’s Bay Company, e qui c’erano molti indiani, abbondanza di cibo e un’eccitazione senza precedenti. Era l’estate del 1898, e migliaia di cercatori d’oro risalivano lo Yukon diretti a Dawson e nel Klondike. Mancavano ancora centinaia di chilometri alla loro meta, eppure molti di loro erano in viaggio da un anno. Nessuno, per arrivare lì, aveva compiuto meno di settemila chilometri e addirittura alcuni venivano dall’altra parte del mondo.
Qui Castoro Grigio fece sosta. Voci di quella corsa all’oro erano giunte alle sue orecchie, e si era procurato una quantità di pellicce e molte paia di guanti e mocassini: non si sarebbe avventurato in un viaggio così lungo se non avesse previsto lauti guadagni, ma ciò che si aspettava non era nulla rispetto a quanto riuscì a realizzare. Neppure nei suoi sogni più folli aveva sperato di superare un profitto del cento per cento, e invece arrivò al mille per cento. Così, da vero indiano, si accinse con ponderata lentezza a vendere la sua merce, disposto a impiegare il resto dell’anno per liquidarla tutta.
Fu a Fort Yukon che Zanna Bianca vide per la prima volta i bianchi. Rispetto agli indiani che conosceva, rappresentavano per lui un’altra razza di esseri, una razza di dei superiori. Gli parve che possedessero un potere superiore, ed è sul potere che poggia la divinità. Zanna Bianca non fece un ragionamento, non giunse alla drastica generalizzazione che gli dei bianchi erano più potenti. Era una sensazione in lui, nulla più, ma non meno efficace. Come, da piccolo, le incombenti masse dei tepee eretti dall’uomo lo avevano colpito come manifestazioni del potere, così era sbigottito adesso dalle case e dal colossale fortino, in tronchi massicci. Quello era potere. Quegli dei bianchi erano grandi: avevano, sulla materia, un dominio superiore a quello degli dei fino ad allora conosciuti, dei quali il più potente era Castoro Grigio. Eppure Castoro Grigio era un dio-bambino, tra quegli dei dalla pelle bianca.
Naturalmente, tutte queste cose Zanna Bianca le sentiva soltanto, non ne era affatto consapevole. Tuttavia è sulle sensazioni, assai più che sull’attività del pensiero, che gli animali agiscono, e ogni atto compiuto adesso da Zanna Bianca si basava sulla sensazione che gli uomini bianchi fossero divinità superiori. All’inizio nutrì nei loro confronti grandi sospetti: chissà quali ignoti terrori rappresentavano, chissà quali ignoti dolori potevano procurare. Era curioso di osservarli e timoroso tuttavia di esserne notato. Nelle prime ore si accontentò di aggirarsi furtivo e di spiarli da distanza di sicurezza; poi vide che non capitava nulla di male ai cani che erano presso di loro; allora si spinse più vicino.
Anche Zanna Bianca, a sua volta, era oggetto di grande curiosità da parte loro: il suo aspetto di lupo colpiva subito l’occhio, e tutti se l’indicavano l’un l’altro. Quei gesti che lo indicavano lo misero in guardia, e quando qualcuno cercava di avvicinarlo, arretrava mostrando i denti. Nessuno riuscì a posare la mano su di lui, e fu una fortuna che non lo facessero.
Zanna Bianca arrivò presto a capire che in quel luogo vivevano solo pochi degli dei, una dozzina in tutto. Ogni due o tre giorni un piroscafo (altra colossale manifestazione di potere) accostava alla riva e si tratteneva per alcune ore. Uomini bianchi scendevano da queste imbarcazioni e poi di nuovo vi salivano, e il loro numero pareva incalcolabile. In quei primissimi giorni Zanna Bianca vide più bianchi di quanti indiani avesse mai visto in tutta la sua vita; e giorno dopo giorno continuavano ad arrivare, a fermarsi e poi a riprendere il loro viaggio lungo il fiume, fino a scomparire.
Ma se gli dei bianchi erano onnipotenti, i loro cani non valevano granché. Zanna Bianca se ne accorse quasi subito, mescolandosi a quelli che scendevano a riva con i padroni. Avevano forme e dimensioni irregolari; alcuni avevano le zampe brevi, troppo brevi; altri le avevano lunghe, troppo lunghe; avevano il pelame corto, anziché una folta pelli...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- PARTE PRIMA - Il mondo selvaggio
- PARTE SECONDA - Figlio del mondo selvaggio
- PARTE TERZA - Gli dei del mondo selvaggio
- PARTE QUARTA - Gli dei superiori
- PARTE QUINTA - Il mondo degli uomini
- Copyright