Gli stallieri stavano assicurando le tirelle ai cavalli, la guardia, armata fino ai denti con un randello e delle pistole, stava salendo a sedersi accanto al cocchiere, i passeggeri erano tutti al loro posto. La diligenza diretta verso sudovest era quasi pronta a partire. I parenti dei viaggiatori stavano già salutando. Erano in due o tre, radunati intorno al terrazzo coperto del bar albergo Gloucester, da dove si vedeva meglio e si era al riparo dalla pioggia. Infatti, nonostante fosse settembre, il tempo era inclemente; la pioggia cadeva fine bagnando il viso e rendendo gli abiti umidi e sgradevoli.
Una persona arrivò di corsa nella semioscurità, tenendosi il cappello e urlando: — C’è ancora posto?
— Solo sul tetto — rispose il cocchiere.
Si udì un gemito. — Oh, povero me. Sto diventando un po’ troppo vecchio per queste cose.
Ma in quel momento la portiera della carrozza si aprì e un giovanotto, dal viso molto pallido e ricoperto di un velo di sudore, uscì barcollando leggermente. Una ragazza sporse la testa fuori dal finestrino. — Non vi sentite bene, signore?
— No — boccheggiò lui. — Temo di sentirmi veramente male. Dovrete andare senza di me.
— Ma...
Il giovanotto fece un gesto verso il cielo, disse: — Scusatemi — e si dileguò nella notte.
— Non tutto il male vien per nuocere — esclamò John Rawlings e, sempre tenendosi il cappello sulla testa, percorse in fretta gli ultimi metri e si infilò nella diligenza prima che qualcuno dei passeggeri sul tetto avesse il tempo di scendere e di andare a occupare il posto.
Le lancette dell’orologio del postiglione indicavano le otto. Era ora di partire. Con un forte schiocco di frusta la diligenza uscì rumorosamente dal cortile, passando davanti al cappellaio Boone e alla pescheria di Joseph Miller.
— Signore e signori, prima fermata Brentford — gridò la guardia, annunciando che il lungo viaggio era cominciato.
John Rawlings, ansimando ancora per lo sforzo, si sistemò sul sedile, si tolse il cappello e osservò gli altri passeggeri. Di fronte a lui c’era una giovane donna bruna molto graziosa che, quando John le rivolse un inchino, inclinò il capo con molta grazia. Vicino a lei c’era un individuo piuttosto malridotto che aveva l’aria di aver conosciuto tempi migliori. Ma fu sull’uomo in fondo alla carrozza che gli occhi dello speziale indugiarono più a lungo. Si trattava infatti di uno degli individui più particolari che John avesse mai visto.
Era color ebano e molto bello, con dei tratti fini ed eleganti e dei languidi occhi scuri ornati da lunghe ciglia che non avrebbero sfigurato su una donna, e aveva un fisico muscoloso. John si accorse che l’africano doveva essere alto più di un metro e ottanta e con delle spalle poderose, al momento nascoste sotto una giacca di velluto color prugna e un mantello da viaggio grigio.
John guardò alla sua destra e scorse una donna corpulenta seduta rannicchiata. Aveva degli occhi acquosi, da pesce, e si accorse immediatamente dello sguardo dello speziale, che ricambiò con aria sospettosa. Dopo di lei, a fianco di John, c’era un ometto azzimato, con una parrucca bianca indossata con cura. John si fece subito l’idea che fosse un maestro di danza, soprattutto per la precisione con cui compiva anche i più piccoli movimenti.
La donna con gli occhi da pesce emise un gran sospiro e con un forte accento tedesco esclamò: — Ach, sono così preoccupata per i miei bagagli. Arriveranno sani e salvi a Exeter? Io ne dubito molto.
— Perché mai, signora? — chiese la giovane bruna.
— Mia cara signorina, non dovete aver viaggiato molto, altrimenti sapreste che le strade sono piene di canaglie e vagabondi. Pensate alle locande, alle stazioni di posta, agli stallieri, per non parlare dei briganti e degli altri banditi. Glielo dico io, i bagagli non sono al sicuro da nessuna parte se non sotto il nostro naso.
— Ma non è possibile tenerli sotto controllo in una diligenza — fece osservare il maestro di danza.
La donna con gli occhi di pesce lo squadrò. — Questo è ovvio, signore. Però io ho intenzione di controllare i miei, a costo della mia stessa vita.
John tirò fuori un libro da sotto il mantello e si mise a leggere, determinato a non lasciarsi trascinare in futili discussioni. Il suo piano funzionò e la conversazione continuò attorno a lui, con la tedesca che diventava via via più permalosa, mentre la giovane bruna faceva l’innocente e la provocava, mantenendosi però sempre gentile. Il maestro di ballo, con molto tatto, ripiombò invece nel silenzio.
Viaggiavano ormai da un’ora ed era tornata a regnare la pace quando improvvisamente l’africano ruppe il silenzio. — Qualcuno sa a che ora arriveremo a Brentford?
John alzò lo sguardo, stupito dalla voce piacevole e ben modulata dell’uomo. Guardò l’orologio. — Più o meno tra venti minuti.
— Eccellente, amico mio. Permettete che mi presenti. Mi chiamo Jack Beef.
— Io sono John Rawlings. Siete diretto a Exeter?
— Proprio così. Posso presentarvi il mio manager? — Indicò l’uomo dall’aspetto malandato. — Lui è Nathaniel Broome.
John si inchinò come poté. — Piacere di conoscervi.
— Il piacere è mio — rispose l’altro con una vocetta stridula.
— Vi starete chiedendo perché mai io viaggi con un manager — continuò Jack con una risatina. — Il fatto è che io sono un pugile e sto andando a Exeter per un incontro.
— Molto interessante — rispose John.
Jack Beef fece una faccia malinconica. — In realtà è una vita dura. Ammetto che si vedono dei posti interessanti, ma di buono non c’è altro.
— Oh, andiamo — intervenne Nathaniel. — E quello che guadagni? E i lord a cui hai stretto la mano?
L’africano fece un gran sorriso e si rivolse agli altri viaggiatori: — Il mio nome d’arte è “la Piramide Nera”, a quanto pare perché il mio torace ha quella forma, alla rovescia, naturalmente — aggiunse con una gran risata che fece sorridere tutti, tranne la signora tedesca che continuava a guardare il soffitto della carrozza e a borbottare “Ach”.
Poi, rapidamente com’era cominciata, la conversazione si spense e continuarono il viaggio in silenzio finché alle nove e venti la diligenza si fermò nel cortile della locanda I tre piccioni di Brentford. John, rammentando il terribile Natale che aveva trascorso lì da fuggiasco, quando era stato accusato dell’omicidio di sua moglie, provò un brivido.
Il maestro di ballo se ne accorse e chiese: — Tutto bene, signore?
John gli sorrise. — Sì, perfettamente. È solo una notte inclemente.
Il piccoletto si inchinò. — Mi presento. Mi chiamo Cuthbert Simms. A chi ho l’onore di rivolgermi?
— John Rawlings. Sono uno speziale. E voi, signore?
— Io insegno l’arte della danza ai giovani e agli anziani. Per molti anni ho lavorato per una famiglia importante ma... — Sospirò. — Le cose cambiano, ahimè.
John si compiacque con se stesso di aver indovinato la sua professione. — Funziona così, già. Permettetemi di offrirvi da bere. Credo che non ripartiremo prima di mezz’ora.
Il piccoletto fece una faccia cupa. — La diligenza viaggia anche di notte, vero?
— Sì. Stanno cambiando i cavalli.
Ed era vero. La pariglia originale era stata liberata dai finimenti e il mastro di posta stava portando quattro bestie fresche.
— Allora faremo meglio a bere qualcosa per prepararci — disse Cuthbert e seguì John dentro la locanda.
Mezz’ora dopo tutti i passeggeri stavano risalendo a bordo. La signora tedesca aveva trascorso il tempo in parte minacciando e in parte pregando la guardia affinché custodisse i suoi bagagli.
— Prego, si accerti che tutto sia al suo posto.
— Le assicuro, signora — ripeté l’uomo con appena una lieve sfumatura di irritazione nella voce — che nella cesta ci sono tre borse e una cappelliera.
— Ma sono proprio le mie?
— Sì, signora. Ce le ho messe io stesso.
Un pochino raddolcita, la donna salì a bordo e si sistemò nell’angolo, dove fece finta di addormentarsi immediatamente. John, osservandola, notò che uno degli occhi era rimasto leggermente aperto, e ne trasse le sue conclusioni.
Erano passati quasi tre anni da quando la vita di sua moglie, la sua adorata Emilia, era stata brutalmente troncata nei giardini di Gunnersbury House. Tre anni in cui aveva provato tutta la gamma di emozioni possibili, da quelle del vedovo inconsolabile a quelle dell’uomo di nuovo innamorato. In quel lasso di tempo aveva rincontrato la capricciosa Elizabeth di Lorenzi, più anziana di lui e così diversa come lo può essere una suora da una cortigiana. Lui aspirava al matrimonio e lei non ne voleva neppure sentir parlare, lui voleva sistemarsi e lei voleva continuare ad avere avventure. In effetti, aveva ormai cessato di nutrire qualsiasi speranza su di lei, fin quando era arrivata una lettera misteriosa con cui lei gli ordinava di andarla a trovare nel suo magnifico palazzo appena fuori Exeter. Ed era per quella ragione che aveva preso la diligenza, lasciando sua figlia Rose alle cure del nonno, il formidabile e affascinante sir Gabriel Kent.
Che cosa poteva volere Elizabeth da lui, adesso?, si chiedeva. L’ultima volta che l’aveva vista si era fatto l’idea che per loro non ci potesse essere alcun futuro. E invece lei lo aveva convocato. Con un sospiro, John si avvolse nel mantello e provò ad addormentarsi.
Vicino a lui Cuthbert Simms, azzimato come un moscardino, dormiva tranquillo, con la testa delicatamente appoggiata sulla spalla dello speziale. Di fronte la giovane bruna si era tolta la cuffia e se l’era posata in grembo, e poi si era appisolata contro la fiancata della diligenza. Ma furono la Piramide Nera e Nathaniel Broome ad attirare l’attenzione di John quando, di tanto in tanto, gli capitava di svegliarsi. Erano appoggiati l’uno all’altro come una coppia di vecchie signore, russando, Broome piano e la Piramide Nera con un verso più profondo che si addiceva alla sua stazza. A John vennero in mente le due sfortunate donne che sedevano sul tetto e, ripensando al modo in cui all’ultimo momento si era assicurato il posto all’interno, si sentì rimordere la coscienza al punto che prese in considerazione l’idea di cederlo alla prima fermata.
Dormì meglio che poté e quando riaprì gli occhi vide che l’alba stava iniziando a fare la sua comparsa nel cielo e che la diligenza stava rallentando avvicinandosi al villaggio di Thatcham. Al Cigno a due teste cambiarono ancora una volta i cavalli e ai passeggeri vennero concessi quaranta minuti per fare colazione. Stiracchiandosi e sbadigliando mentre gli altri entravano, John aiutò gentilmente le due donne che sedevano di sopra a scendere. Una di loro aveva un volto molto familiare e lo speziale si convinse che doveva averla già vista da qualche parte. L’altra aveva un’aria molto giudiziosa, con un viso cordiale e dei limpidi occhi azzurri, nonostante avesse passato tutta la notte seduta scomodamente all’umidità.
John le rivolse un inchino. — Posso offrirvi il mio posto per l’ultima tratta del viaggio, signora?
Lei lo guardò con occhi grati. — Sono più che lieta di accettare. E alla fermata successiva farò il cambio con la signora Gower, con la quale ho condiviso una notte terribile sotto la pioggia.
Lo speziale annuì. — Lo immagino. Vedrò se qualcuno degli altri signori è disposto a fare cambio con lei.
La donna gli fece una riverenza. — Vi ringrazio. Lasciate che mi presenti. Mi chiamo Lucinda Silverwood.
— E io sono John Rawlings. — Si inchinò.
— Sto andando nel Devon da mia figlia che si appresta ad avere il suo primo bambino — continuò la signora Silverwood.
John, rammentando quanto fosse agitata la madre di Emilia quando era nata Rose, provò per un istante un pizzico di nostalgia al pensiero della prima volta che aveva posato g...