Ama ciò che sei
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Ama ciò che sei

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ama ciò che sei

Informazioni su questo libro

Marta sta dormendo profondamente nel suo appartamento di Parigi, quando il telefono squilla. È notte fonda: la voce della madre le dice che deve tornare subito a Torino, perché Andrea sta morendo. Poche ore dopo, Marta è di nuovo nella città dove è cresciuta. Corre in ospedale, scivola nella penombra della stanza in cui giace Andrea, solo che lui, ora, è una donna.

Marta lo ha sempre saputo, che il più grande desiderio di Andrea era quello di non essere maschio. Ma sono cresciuti insieme, hanno condiviso la sofferenza di famiglie difficili e la voglia di costruire un futuro diverso, e lei non ha potuto fare a meno di provare per lui qualcosa di molto simile all'amore…

Quando Andrea morirà, di lì a poche ore, Marta scoprirà che lei e Alice, la figlia che ha partorito appena diciottenne, sono state nominate eredi di tutti i suoi beni. E, proprio tra le pareti della piccola e accogliente casa che ha appena ereditato, capirà che i lunghi anni in cui lei e Andrea hanno vissuto lontani nascondono molti segreti. Segreti semplici eppure impensabili, che come fiumi sotterranei giungono fino a lei e possono finalmente dare senso, pace e nuova linfa all'esistenza.

Silvia Tesio dà vita a un racconto che ha l'energia di una commedia degli equivoci e la profondità di un dramma antico e più che mai attuale, quello della ricerca dell'identità. Come prismi di un caleidoscopio, i personaggi di questa vicenda si muovono con grazia tra gli anni Settanta e oggi, regalandoci a ogni pagina un solare, coraggioso inno alle infinite possibilità dell'amore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804652328
eBook ISBN
9788852067549

1

«Sta morendo.» È come se non fosse stato uno squillo a svegliarmi, ma uno sparo. Dicono che quando tocca a te la vita ti passa davanti agli occhi in un attimo. Non importa quanti anni hai o quanto è stata complicata. Tutto si riduce a una frazione di secondo.
«Marta, sei ancora lì?»
Sono le cinque del mattino. A Parigi nessuno è mai morto da quando ci abito. Soprattutto a quest’ora.
«Sì, scusa. Dammi un momento.»
«Sapessi quanto mi dispiace parlarti di questo al telefono... Il fatto è che ha chiesto di te e non credo reggerà ancora a lungo.» Per la mamma concedermi qualche secondo per metabolizzare una notizia di questa portata significa riempire di parole ogni singolo spazio. Non importa se non la ascolti. Lo fa perché si sente a disagio. Come me da piccola quando fischiettavo attraversando un corridoio troppo buio.
«Se vuoi rivederlo ancora una volta devi venire subito.»
Cerco di mettere contemporaneamente a fuoco l’orologio e la situazione. Il che non è facile per diversi motivi, tra i quali che alla mia età due bottiglie di Dom Perignon non si smaltiscono in un attimo.
«Marta, benedetto il Signore, di’ qualcosa!»
«Va bene, ho capito. Prendo il primo treno utile. Dammi il tempo di lavarmi la faccia.»
Mia madre tace di quel silenzio piccato che solo a lei riesce così convincente. Me la immagino, davanti alla cornetta del vecchio telefono mentre rigira il filo tra le dita che spuntano appena dall’orribile vestaglia a scacchi ereditata da mio padre nel 1975, quando ancora si usava la flanella.
«Che c’è?» le chiedo, già caricata a molla. La conosco. Sperava che avrei reagito a modo suo: che avrei pianto e magari le avrei permesso di consolarmi. Di sentirsi indispensabile.
«Nulla.»
«Ok. A domani, allora.» Voglio solo riagganciare e cercare di capire che cosa provo esattamente.
«È che voi due eravate così uniti» pigola. «E adesso sembra che non te ne importi niente.»
«Cristo mamma, abbi pietà.»
«Non bestemmiare, Marta. Lo sai che non lo sopporto.»
«E allora mettiamo giù così siamo tutt’e due più contente.»
«Non litighiamo. Sono solo preoccupata. Andrea era come un fratello per te...» Cerca l’ennesimo sistema per trattenermi. È quello che succede da sempre, più o meno. Anche per questo ho stabilito una distanza geografica fra di noi. Ci vediamo a Natale, ai matrimoni e ai funerali. In tutte e tre le occasioni mi vengono rivolte domande alle quali rispondo nel tono più neutro possibile. Di solito dopo un po’ l’interrogatorio cessa. Anche se con la mamma, il silenzio può diventare un terreno di scontro altrettanto agguerrito.
Stavolta però mi sento costretta a una resa momentanea. Viceversa, avrei già interrotto la comunicazione con una scusa qualsiasi. Probabilmente, anche senza nessuna scusa.
«È stato molto tempo fa, mamma. Ora fammi vestire o ci metterò un secolo.»
«In aereo faresti prima...» bisbiglia appena. Non per questo è meno fastidiosa. Probabilmente se avessi scelto l’aereo avrebbe detto che non conveniva, visto il tempo che ti tiene in ballo tra una cosa e l’altra. Il treno sarebbe stato certamente la soluzione migliore!
«Ci vediamo domani» sbuffo, anche se troppo piano perché mi senta. «Quando arrivo ti chiamo.» Click.
Non è colpa sua. Nemmeno mia, credo. Solo che mia madre ancora non si rassegna al fatto che non abbiamo molto da dirci. Forse perché abbiamo parlato troppo in passato. Lei di sicuro.
La prima cosa che ho cercato di insegnare a mia figlia Alice è di non fidarsi delle apparenze, perché quasi sempre si rivelano suggestioni ingannevoli. La seconda è stata il valore del silenzio. È nel silenzio che conosciamo meglio noi stessi, che raccogliamo le forze, che ci creiamo un’individualità. Parlare troppo è quasi sempre deleterio, quanto ascoltare troppo.
Appoggio il cordless sulla scrivania e butto l’occhio sulla montagna di fogli a terra, vicino al mio vestito e ai collant smagliati. Improvvisamente mi sento ridicola. Percepisco il petto alzarsi e abbassarsi con la stessa foga di tre ore fa. Solo che tre ore fa si alzava e si abbassava al ritmo che Nicolas scandiva sopra di me con il suo corpo nudo e scuro come un’ombra. Adesso invece fa tutto da solo. È come avere una campana di morte che mi rimbomba dentro.
«Che succede?» Nicolas mi fissa. È seduto sul letto dove poco prima abbiamo fatto l’amore, ha già capito che voglio che si rivesta.
Quando ci siamo conosciuti pensavo sarebbe stata la storia di una notte, invece è passato più di un anno e ancora facciamo un sesso apprezzabile. Lui si arrabbia quando parlo di noi in questo modo. Dice che è volgare e so che non si riferisce al linguaggio che uso.
Pensa che il mio atteggiamento sminuisca ciò che siamo, ma la verità è che sono realista. Una donna di quarantatré anni e un ragazzo di ventinove sono volgari per definizione. Concettualmente. E anche esteticamente, a voler cercare il pelo nell’uovo.
Intendo dire che nessuno dei due troverebbe eccitante guardare un video di quando scopiamo insieme. Lo so per certo, dato che la sola volta che gli ho permesso di filmarci, quando abbiamo rivisto la nostra performance sul grande schermo al plasma del salone avremmo voluto nasconderci tra i cuscini del divano, ognuno per conto proprio.
Ero stata sopra di lui per quasi tutto il tempo, senza pensare al mio ventre sporgente (che quando sono in piedi si nota appena!) e ai piccoli seni a punta sul suo petto nudo. Sembravo una pecora flaccida! Per questo, il giorno dopo mi sono iscritta in palestra. Ho fatto un abbonamento semestrale con un personal trainer.
Inutile dire che quella dell’iscrizione è stata anche l’unica settimana in cui ho approfittato dei suoi saggi consigli. Sentire un ragazzetto con la metà dei tuoi anni che ti chiama signora per tutto il tempo e ci tiene un po’ troppo a definirti “giovanile” e “ancora una bella donna”, è tutto tranne che incentivante. Se non altro adesso ho la scusa per non tornarci. Viceversa avrei dovuto ammettere la mia pigrizia cronica.
«Devo andare a casa» mi sento dire a Nicolas, mentre infilo un paio di vecchi jeans che normalmente non userei nemmeno per scendere a fare la spesa.
«Sei già a casa.» È talmente giovane e bello che a volte vorrei picchiarlo.
«Intendo in Italia. Devo tornare a Torino.»
«Ton père?»
Qualche mese fa mio padre ha avuto una piccola crisi di panico e la mamma ovviamente ha trattato la cosa come se fosse un attacco cardiaco. Quando Nicolas ha risposto al telefono, perché sfortunatamente ero sotto la doccia, era talmente agitata da mandare in confusione anche lui. Credo che non si aspettasse di sentire una voce maschile e che la cosa abbia aumentato la sua tensione emotiva. Più tardi ho spiegato a Nicolas che non era stato niente, però credo gli sia rimasto il dubbio che io gli tenga nascosto qualcosa.
«Non c’è pericolo.» Sorrido mentre infilo una delle infinite camicie bianche che popolano il mio armadio. «Papà è uno che tende a seppellire gli altri.»
«Lo stai facendo ancora.» Si gratta un sopracciglio.
«Faccio cosa?»
«Tagliarmi fuori.»
Potrei rispondergli che lo capisco, che al suo posto non resisterei un giorno di più accanto a una come me, che è un angelo. Potrei, certo. Ma non voglio mentirgli. Sarò anche cruda, ma sappiamo entrambi che stare con me ha i suoi vantaggi. Diversamente non potrebbe permettersi i vestiti che indossa né conoscerebbe le persone che lo stanno introducendo negli ambienti giusti.
A Parigi, un architetto di ceto medio basso, appena laureato e senza agganci ha le stesse probabilità di fare carriera di un cameriere londinese con aspirazioni teatrali. A parte questo, sicuramente non scoperebbe in lenzuola di seta.
Al diavolo: con quello che spendo perché lui non ci perda troppo in questa relazione, posso permettermi di essere stronza. E volgare, certo. A letto, peraltro, non sembra dispiacersene.
«Chi sta morendo, allora?» torna alla carica.
«Un vecchio amico, ma adesso non mi va di parlarne.»
«Mi dispiace.» Nicolas si avvicina aprendo le braccia scure. Mi ricorda l’angelo nero di un dipinto.
«Devo sbrigarmi.» Lo bacio sulla guancia e afferro il borsone che ho preparato in fretta e furia. Mi sento soffocare. Voglio solo uscire senza essere costretta a dare spiegazioni.
So che ci soffre ma non posso farci niente. Anche se la differenza di età fosse molto minore, tra noi non funzionerebbe comunque. Siamo troppo diversi. A Nic piace condividere tutto mentre io – il mio ex marito ne sa qualcosa – fatico anche a fare spazio allo spazzolino da denti di qualcun altro nel mio bicchiere. Sono fatta così.
L’unica persona con cui davvero ho vissuto in quel tipo di intimità profonda, che da allora rifuggo come una malattia, non c’è più. È morta venticinque anni fa, quando tecnicamente era ancora in vita. Adesso sta morendo per la seconda volta. E a quanto pare ha chiesto di me. La verità? Avrei voluto che non lo facesse.
Quando avevo nove anni la mia famiglia ha traslocato nel cuore di un quartiere che, nonostante la sua invidiabile posizione a ridosso della piazza più grande d’Europa, sarebbe rimasto per sempre piuttosto popolare.
L’appartamento in cui i miei genitori si erano trasferiti subito dopo il matrimonio, quello dov’ero nata e vissuta per i primi nove anni della mia vita, non andava più bene, visto che aveva finito per trasformarsi in una sorta di magazzino dove papà raccoglieva ogni genere di riviste e videocassette. Quando il salotto non era stato più sufficiente, i faldoni avevano cominciato il loro esodo verso la sala da pranzo e presto si erano piazzati sotto i letti, di fianco agli armadi, in anticamera, nello sgabuzzino e in garage (a scapito dell’Alfa Romeo parcheggiata fuori). Soltanto la mia stanza non era stata colonizzata, ma solo perché il mio casino non lasciava spazio ad altro. Non c’è da stupirsi se un giorno mia madre aveva deciso che, lavoro o meno, non ne poteva più.
“Porta tutto giù in cantina!” le avevo sentito dire un pomeriggio mentre ero nella mia camera, immersa in una prima edizione illustrata di Pippi Calzelunghe.
In quel periodo ero noiosa, abbastanza secchiona e poco loquace. Trascorrevo i miei giorni in camera a studiare o me ne stavo rintanata sotto le coperte a leggere di nascosto da mio padre, perché fondamentalmente non mi andava che modificasse la sua idea di me.
Che continuasse pure a considerarmi una sfigata senza speranza né interessi! Qualunque cosa pensasse non mi toccava, bastava che non scoprisse cosa facevo quando non poteva vedermi.
Mi occupavo con quotidiana pazienza della stesura di un diario. Prendevo nota di ogni minimo avvenimento o stato d’animo. In modo quasi maniacale. È stata la mia salvezza. Il sistema più efficace per proteggermi e non impazzire, visto che una serie infinita di ricordi sarebbero in seguito stati negati e archiviati dai miei genitori come frutto della mia troppo fervida immaginazione.
«Hai sentito che cosa ti ho chiesto?» Se la voce della mamma cominciava a tremarle nella gola non era buon segno. Capitava raramente perché il suo modo di essere aggressiva non è mai stato plateale come quello di papà, e proprio per questo quando succedeva mi spaventavo.
Era come una mina inesplosa che si preparasse a scoppiare da un momento all’altro, ma mio padre sembrava non accorgersene e continuava a stuzzicarla, incurante dei danni che un simile atteggiamento avrebbe potuto provocare.
«Non lo hai chiesto. Me lo stai imponendo. E comunque la cantina è umida, perciò non ha senso starne a discutere.»
«Tu decidi se, quando e cosa ascoltare. Decidi come dovrei sentirmi e che cosa meriti una risposta. Ti rendi conto di quanto sei arrogante?»
«E tu, di quanto sei melodrammatica?»
Immaginavo la mamma afferrare un coltello da pane e piantarglielo più volte nel petto guardandolo dritto in faccia mentre si dissanguava.
«Allora: hai già scelto un vestito per la premiazione?» Quando era in difficoltà o non aveva voglia di affrontare un discorso, papà rilanciava un argomento totalmente diverso. L’alternativa era alzarsi e uscire sbattendo la porta e, un po’ più raramente, dichiarare il suo totale disinteresse per la faccenda.
Mia madre invece sarebbe rimasta aggrappata al filo del suo pensiero svolazzando sulla rotta che gli dava quell’uomo, come una coccinella alla coda di un aquilone. Finché non si fosse spezzata.
«Che ci vengo a fare? Nell’invito non compaio nemmeno.»
«L’invito è per due. Se vuoi venire vieni. Se no fa lo stesso.» Ma non faceva lo stesso nemmeno un po’, visto che in seguito ho sentito papà rinfacciarle di non essere la compagna ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. AMA CIÒ CHE SEI
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. Ringraziamenti
  17. Copyright