Cosa mi è saltato in mente?
Non ci sono parole. Anzi, una c’è, ed è guaio. Mi sono detta: inutile girarci intorno, questa è la classica cosa che non dovrebbe mai accadere, figuriamoci in un momento come questo, nel bel mezzo dell’appuntamento più importante della mia vita sportiva e davanti agli occhi di tutto il mondo.
Così, un momento fa, quando mi sono resa conto che la classica cosa che non dovrebbe mai accadere era invece appena accaduta, ho avuto un soprassalto e mi sono sentita gelare, ho visto il panico negli occhi di coloro che se ne sono accorti subito dopo di me e non ho potuto fare altro che chiedermi: sei impazzita? Dimenticare il numero in albergo? Come si fa? La Federazione internazionale e il Comitato di gara te ne assegnano uno, in doppia copia, e tu devi prendertene cura. Non è difficile, giusto?
E invece non ce l’avevo.
È stato tremendo, non me lo sarei aspettato da me. A giudicare dalle facce, nemmeno loro. Né il mio allenatore Enrico, né mia madre, né Folco Donati, il presidente della squadra. Tutti con gli occhi fuori dalle orbite, esterrefatti, terrorizzati, immobili. Per fortuna ci ha pensato mio padre a prendere il toro per le corna: è schizzato via senza pensarci un momento, nemmeno il tempo di contare fino a tre e stava già salendo le scale dell’albergo, una dopo l’altra fino a irrompere nella mia camera, dove effettivamente avevo lasciato il numero. In men che non si dica era già di ritorno.
Allenatore, fisioterapista, compagne, tutti a dirmi: «A posto, stiamo calmi. Non importa, non importa».
Respiro profondo, ed ecco che finalmente il numero si trova al suo posto: sulla mia schiena.
E importa. Eccome se importa.
Perché in questo preciso momento, prima della gara più significativa della mia vita e davanti agli occhi di tutto il mondo, io ci devo lavorare un momento.
Tre, sei, tre.
Me lo ripeto un’altra volta, lentamente. Va a finire che quasi mi convinco.
Tre. Sei. Tre.
C’è il solito problema che sembra un dispari, ma non mi perdo d’animo, ho imparato come si fa.
Con calma, senza saltare alle conclusioni: trecentosessantatré.
È un pari?
Non lo è. Ma io posso vederlo come un pari. Infatti tre più tre fa sei, dunque è una specie di sei sei. E sei sei va benissimo, non è perfetto?
È perfetto, nessuna paura.
Tutto andrà come deve andare.
Lo so, sono una pazza che odia la matematica ma non fa altro che invischiarsi nella matematica. Una matematica del tutto mia, ossessiva e scaramantica, priva di regole fisse, che riscrivo ogni volta.
Il fatto è che io non sopporto il quattro, da sempre. È proprio odio, dunque per me l’importante è che non sia mai quattro. Con l’otto va anche peggio. Quando me l’hanno affibbiato non ho perso un secondo e sono partita come una forsennata con la mia missione mentale. Ho passato una vita così, facendo tutto, tutto, tutto, per cambiare certi numeri e scomporli e trasformarli. In Spagna, l’anno scorso, mi hanno dato un sei. Ovviamente ero felice, perché un sei è il massimo. E infatti è andata a meraviglia.
Ma adesso è adesso, e sono qui: NRGi Arena, Århus, Danimarca, Campionati mondiali individuali femminili.
Io e un palazzetto pieno.
Io e il mio trecentosessantatré – io e il mio numero pari.
Pronti al decollo?
Ci sono. Il solito sguardo a mio padre, seduto dritto sugli spalti – annuisce, mi dà coraggio – e la solita certezza: non devo sbagliare. Non devo deludere nessuno, ma soprattutto non devo deludere me stessa.
Sono caduta dalla trave ma non mi sono lasciata scoraggiare. Enrico mi ha detto: «Ferrari, è il momento di fare sul serio, di mettere la freccia!».
E io ho pensato che sono la prima al mondo che nel corpo libero porta ben cinque diagonali.
Il tappeto è lucido e per un momento mi sembra sterminato, poi quando lo toccherò col piede non mi sembrerà più niente e sarò sintesi e consistenza. Sarò raccolta e potenziale, feroce e lieve, pronta a far deflagrare la bomba della forza e a suonare il violino dell’equilibrio.
La mia mente si vuota all’improvviso, come un bicchiere che qualcuno ha bevuto d’un fiato.
Sono soltanto il mio corpo, predisposto a detonare perfetto e controllato, fuori da se stesso e secondo geometria.
Devo solo respirare, immobile, col naso. Enrico me lo dice sempre: «Cosa ti cambia? Respiri con le spalle?».
Be’, a essere sinceri sì, io respiro con le spalle. Invento la matematica e prendo aria dal muscolo sottoscapolare: le alzo e le abbasso. Faccio scorta.
Mi stringo la coda di cavallo afferrandola con le mani e separando i capelli con forza. L’elastico s’incolla alla testa.
E parto.
Prima diagonale.
Tsukahara avvitato: salto doppio con due avvitamenti. Atterro bene – passo indietro.
Altro tsukahara, perfetto.
Coreografia e salto artistico.
Guardo i giudici, ma non li vedo.
Tre avvitamenti e arrivo leggera.
Rondata, salto indietro teso con un avvitamento e mezzo. Non batto bene tra un salto e l’altro, quindi cambio. Sento che potrei cadere e tolgo il secondo avvitamento, dunque: un avanti teso senza avvitamento. Poi un enjambée cambio ad anello e un enjambée cambio dritto.
Dovrei fare tre giri ma ne faccio due e mezzo, finisco sbandando impercettibilmente.
Mi preparo a un doppio carpio, l’ultimo.
E oplà : atterraggio perfetto.
È finita?
Torno al centro, sorrido, il pubblico esplode.
L’ho fatto così bene?
Non penso di averlo fatto da Dio, ma mi sembra di essermi difesa.
Saluto e corro via.
Enrico mi viene incontro, mi abbraccia e mi solleva. Quindi la mia compagna Monica Bergamelli, e anche Salvatore il fisioterapista, detto Salva, mi brulicano addosso come formiche impazzite, sento l’elettricità che emanano.
Devo totalizzare almeno 15,225 per ottenere il primo posto, ma secondo tutti ho preso di più. Questo cambia le cose, e mi dico: sta’ a vedere che hai delle possibilità . Mi dico: sta’ a vedere che questa la porti a casa.
Ci credo e non ci credo.
Il mio corpo è caldo, stanco, ustionato. Le gambe vibrano come corde di chitarra.
Mi aggiro, faccio su e giù, non riesco proprio a stare ferma. L’attesa – quest’attesa – è infinita. Il punteggio non esce. Per quanto dovrò starmene qui ad attendere che il mio destino sia tradotto in una cifra?
Ancora la matematica. Ancora i calcoli.
Sul tabellone, in ansia, leggo Longines mille volte. Leggo le pubblicità .
Poi guardo il pubblico: lascio vagare un’occhiata lungo le gradinate dove so che siedono i miei genitori, poi plano a bordo campo e vedo la rumena Sandra Izbaşa, l’avversaria più temibile, la fuoriclasse, che si regge il mento con una mano guardando in basso.
Il tabellone non dice ancora nulla e io ho un fiatone che mi stira i polmoni.
Poi, all’improvviso, appare: 15,500. Totale: 61,025.
Il mio nome lampeggia.
Il tabellone dice: 1. Vanessa Ferrari.
Ed ecco che il mondo, in un attimo, sparisce. Come per lo scoppio di una granata, tutto va in pezzi. Saltano in aria i miei occhi, che registrano solo frammenti, come in un carosello febbricitante; salta in aria questo palasport, perché tutti gridano e scatenano un terremoto; salta in aria mia madre, che sugli spalti spara in aria le braccia e grida: «Lo sapevo! Lo sapevo!». Salta in aria anche Folco, che sembra posseduto da un demone.
Sta fermo solo il calendario, perché io l’ho inchiodato alla pagina di oggi, 19 ottobre 2006: ho quindici anni e mezzo e sono la prima ginnasta italiana della storia a essere campionessa del mondo.
Enrico mi solleva.
Dovrei essere felice? Sono felice.
Corro verso papà , che scende i gradini della platea furiosamente, corro e non capisco niente. Corro e intorno a me tutto corre anche più forte.
Per un attimo è come se non stesse accadendo a me, ma mi dico sì, sono proprio io, non sto sognando, è tutto vero, non sono in camera d’albergo, non è la notte precedente, sono sveglia e sono qui.
Corro per non pensare, per andarmi a riparare da tutto questo frastuono che non potevo immaginare.
Corro e non so. Non so se vorrei scappare o buttarmi ancora più dentro questa bellissima vittoria, come un tuffo al centro di un’acqua azzurra e trasparente.
Corro e vorrei – per sempre? all’infinito? – solo correre, correre, correre...
... correre, correre, correre forte, più forte che posso. Un po’ perché ho paura, un po’ perché non ho scelta.
Se mi beccano sono guai, laggiù non ci dovrei nemmeno andare, papà me l’ha ripetuto almeno cento volte.
Laggiù c’è Ba. E con Ba ci si può fare male, male per davvero.
Ba fa paura anche a Ivan e Michele, i miei fratelli. Ba fa paura a tutti.
Io, però, ci vado lo stesso.
Sono fatta così: gli sfreccio vicino con la bicicletta rosa e sento in pancia un temporale.
È successo anche a Michele: un giorno me l’ha rubata e, spaventato da Ba, ha pedalato come un matto, è inciampato in un tombino ed è finito gambe all’aria.
Io ci passo, ma faccio finta di non guardare.
Tanto poi va a finire che guardo lo stesso.
E mentre guardo, faccio girare le gambe più che posso.
Mi sento inseguita e fuggo – pedalo all’impazzata, una centrifuga di gambe, piedi, pedivelle...