
- 322 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il gioco delle passioni
Informazioni su questo libro
La sfida di Marco Donati e di Regina ha una posta alta: smascherare la corruzione di stato, averla vinta sulle carogne. L'intelligenza appassionata, sembra suggerire Bevilacqua, può umiliare il potere in un'Italia come quella di oggi, brutale e indifferente alla giustizia. Raramente Venezia è stata descritta ed esplorata con tanta novità, e in una continua suspance, nel mistero del suo fascino. Un romanzo di un'attualità sconcertante.
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Informazioni
Print ISBN
9788804364993eBook ISBN
9788852065682Capitolo primo
1
Cominciò così. Con Regina che cantava.
La sua voce usciva dalla chiesa sconsacrata, in prossimità del Rio dell’Arsenale, dove gli attori avevano provato lo spettacolo fino alle prime luci del giorno. Era un canto di saluto, con una nostalgia di vita persa. Pareva sorgere da un magico campiello – l’altoparlante lo amplificava, senza nulla togliere alla suggestione e al segreto – diffondendosi in quell’angolo di Venezia da cui si allontanava una notte temporalesca, lasciando posto allo schietto sereno di una giornata di domenica.
La voce di Regina spaziava in quell’inatteso chiarore di cristallo. Marco Donati ebbe la sensazione di coglierla, con un presentimento, prima ancora di udirla: sembrava rivolgersi a lui soltanto, per attirarlo e indurlo a reagire con una felice concentrazione dei sensi e della memoria. Egli si abbandonò a quel richiamo che intese come un misterioso messaggio, e respirò a fondo l’odore dell’acqua che scorre intorno alle case, un odore unico al mondo, che stimola la mente più di qualsiasi profumo.
Mentre una brezza lo raggiungeva dal mare, si disse che mai aveva avvertito così teso, quasi esasperato, il potere di percepire ogni elemento della scena grandiosa che cominciava a vivere intorno a lui, fino a provarne una vertigine, un senso di onnipotenza.
Quale sortilegio – esclamò fra sé – può prodursi da una voce...
2
Entrando in Venezia col motore del motoscafo al minimo, ritto alla guida, Marco Donati aveva visto spuntare il sole e, in quell’istante, aveva avuto la certezza che sarebbe stata, per lui, un’alba determinante, con un che di fatale.
Seppe che era arrivato il suo momento decisivo, come se gli fosse scattata una molla nel cuore e nella mente, assicurandogli l’inizio di un tempo nuovo. Lo rallegrò supporre che, a convincerlo con questa rivelazione, fosse stato quel canto di donna che lo emozionava e gli risultava familiare benché, di colei che cantava, ignorasse ogni cosa.
Piaceva, al Donati, entrare in Venezia venendo dall’Arsenale Vecchio, o dalle quinte dove affiorava la sporcizia dei canali, o dal Ghetto, i cui edifici in abbandono invadevano le acque con folate di topi. A volte, partiva dalle nubi grigiastre del polo industriale, dove Marghera offuscava la bellezza delle albe e dei tramonti. Intendeva affacciarsi all’abbagliante insieme di fantastiche costruzioni che la Serenissima offre allo sguardo, spuntando dal sudiciume e dal senso di malessere che soffocano la parte segreta della città.
La sua ambiguità ne veniva provocata.
Nelle acque inquinate, infatti, egli fissava riflettersi la parte sordida, e appunto “sporca”, della sua personalità; nello splendore dei Palazzi e della Basilica, gli pareva invece di poter scrutare, con occhi ammirati, l’altra e opposta metà del suo essere. Le sue due nature, del malvivente e dell’uomo dall’apparenza impeccabile, fino ad allora si erano alleate, come i Mori dell’orologio, all’occorrenza prevalendo ora la prima, ora la seconda.
Quell’aggettivo, impeccabile, gli piaceva, e se ne serviva anche non del tutto a proposito. Seguendo nell’aria il canto di Regina, pensò che poteva attribuirselo per molti aspetti: impeccabili i suoi quarant’anni, portati da una figura energica e asciutta; impeccabile il volto dove, fra una sporcatura di bianco alle tempie, gli occhi sapevano esprimere, a seconda della necessità, inflessibile durezza o conciliante amabilità. Quegli occhi chiari piacevano alle donne e le conquistavano, spiazzavano gli avversari e ingannavano gli interlocutori, simulavano sentimenti che non esistevano e occultavano passioni nel momento stesso in cui si accendevano. Era lo sguardo la più efficace macchina da trucchi per il prestigiatore Marco Donati.
Impeccabile, infine, la maniera che aveva escogitato per porre in atto la decisione di chiudere la vita doppia condotta per anni, che pur gli era cascata a pennello, simile al doppiopetto che impeccabilmente indossava.
In futuro, sarebbe stato nient’altro che un signore rispettabile. O almeno così si illudeva, senza sapere – e lui, più di chiunque, avrebbe dovuto invece saperlo – che il destino gioca scherzi imprevedibili, anche a chi crede di essere l’accortezza fatta persona.
3
Attratto dal canto di Regina, il Donati si diresse verso la chiesa sconsacrata.
Un venticello faceva correre i resti del Carnevale da poco finito; alcuni di essi volarono a stamparsi contro i suoi calzoni, per poi tornare a volteggiare nell’aria. Sembravano giocare con lui; o meglio, prendersi gioco, insieme alle sue riflessioni, delle passate avventure che aveva vissuto alle spalle della società (amava definirle “il mio gran Carnevale”).
Non appena entrò nella chiesa, si arrestò, prima perplesso, subito conquistato.
Regina cantava su una ribalta improvvisata, e intorno si muovevano gli attori: una compagnia di giovani stravaganti – ipotizzò il Donati – ragazzi e ragazze arrivati a Venezia nel giro delle mascherate. Era il canto a dettarne gesti e battute, ma riusciva impossibile capire di quale spettacolo facessero le prove, in un’ora insolita e in un luogo desolato, dove la scenografia, se tale poteva definirsi, mostrava grandi cubi illuminati in modo da sembrare di ghiaccio, forse per simboleggiare un gelo cosmico che imprigionava la terra. Vedendo avanzare il nuovo venuto, gli attori si fermarono, via via, a fissarlo.
Soltanto Regina continuò la sua prova.
Gli occhi del Donati non si staccarono da lei. Camminando verso la chiesa, aveva cercato di immaginarne, oltre alle sembianze, seduzioni che pur nascendo dalla sua figura ne formassero come l’alone, paragonabili alla gioia di ascoltarla. Non fu deluso. Constatò che la sconosciuta aveva, della bellezza, quella malìa, quell’insieme di caratteristiche che non si esauriscono nell’aspetto, ma formano un’indole e fanno credere che un’anima carnale, ancora tutta da conoscere, è presente in noi come l’anima spirituale. In questo insieme, consiste il fascino.
Così almeno aveva sempre pensato il Donati, fin da quando, giovane e agli inizi del suo malaffare, era stato costretto a vedersela con un campionario impressionante di femminilità. Allora aveva scoperto che soprattutto con le donne la natura si compiace delle disuguaglianze che fanno dubitare di Dio: ad alcune riservando favori smisurati, ad altre crudeli condanne.
Si era fermato, per prendere respiro; la soggezione dovuta, ne era convinto, a misteriosi poteri, non gli aveva dato tregua. Ma la sconosciuta continuò ad attirarlo, quasi intendesse dimostrargli ancora che la natura l’aveva privilegiata, facendone un’eccezione. O forse no, forse era lui che, stregato dalla sua voce, la percepiva in una dimensione che era specchio del sogno con cui ogni uomo aspetta l’incontro con la compagna della propria vita, e così sopravvivono i fantasmi vissuti nella fantasia dell’infanzia, quando tutto appare sublime.
Anche il corpo di Regina si rivelò in questa dimensione. Lei indossava una tunica disadorna, che la copriva fino ai piedi, ma spostandosi di continuo ora per cercare la luce ora per rifuggirne, veniva a disegnarsi nella trasparenza provocata dal fascio del riflettore. Si delinearono forme che ne rendevano la sensualità, la perfezione, e di nuovo il Donati convenne che era un corpo di donna come l’aveva sempre desiderato.
Riprese ad avanzare, cercando di non prestarsi più alle seduzioni che l’avevano soggiogato, stordito; abbassò persino la testa, per evitare gli occhi della donna, ora impegnata in un’altra canzone che gli sembrò bellissima, ed era ingiusto – pensò – persino penoso che un’artista talmente dotata e favorita da testi che stupivano per la loro qualità, dovesse esibirsi nello squallore di quel luogo, dove si confondevano nella sporcizia avanzi di culto e di bivacco.
Il Donati avrebbe saputo, in seguito, che Regina creava da sola i suoi motivi con un talento non meno bizzarro della sua inquietudine; il primo la portava fuori degli schemi in quelle composizioni musicali, la seconda nella vita. Era un talento che avrebbe meritato maggior fortuna, e Regina l’avrebbe avuta se non fosse stata, proprio lei, causa delle sue sconfitte e delusioni: raggiungendo il successo e poi perdendolo per il puro gusto di perderlo, afferrando magnifiche occasioni per poi aprire le mani e lasciarle svanire.
Negli anni difficili, li aveva talmente sognati i propri meriti riconosciuti dal mondo, che a quella voluttà del sogno che si spezza nel brusco risveglio, aveva finito per affezionarsi morbosamente, fino a volerla provare anche nella realtà ad occhi aperti. Importanti teatri l’avevano richiesta, e lei si era esibita, una, due sere, senza più presentarsi la terza: capace di starsene al buio, sola, a fissare la facciata del teatro quando si colmava di luci e di applausi, con la gioia dolorosa di dirsi: “Potrebbero essere per me, potrebbero illuminare l’oscurità che ora mi circonda, liberarmi dal senso di estromissione che mi stringe la gola”.
Si chiedeva, senza riuscire a rispondersi: perché quell’incoerenza, quel vizio che la spingeva, in pari misura, all’ambizione e alla distruzione? Certo, il suo passato aveva conosciuto profonde infelicità, e ne conservava i segni; ma le ripugnava vedervi la causa di tutto, trincerandosi dietro il solito alibi delle anime deboli. Ben altrimenti doveva arrivare alla conoscenza delle sue contraddizioni...
Lo stesso discorso valeva per i suoi rapporti con gli uomini, anche potenti, che avvicinandola perdevano la testa, pronti a darle la luna; lei poteva irretirli con gaie fantasie, e poi sdoppiarsi, di colpo: in una furia che li rifiutava, li detestava.
Così Regina era sempre stata regina, sì, ma delle cose che non hanno regno, faticate e stravaganti, pagando sulla sua pelle il privilegio dell’anarchia; regina degli spettacoli dove l’intelligenza e il fervore dei commedianti erano destinati alla semiclandestinità.
Aveva sempre amato le facce logore dei comici infelici. Quei comici l’avevano trascinata nel mondo con le loro recite vagabonde.
Il Donati si rese conto di essere arrivato sotto il palco quando il riflettore lo accecò. Regina gli porse la mano e lui trovò lo scatto per il salto sulla ribalta, al suo fianco, contro il fondale povero, ma coi colori che anch’egli preferiva: gli ori e i blu, e sul blu notte una lampeggiante corona, buttata come uno straccio di bandiera.
4
E ora sedevano di fronte, in una stanza squallida, adibita a camerino. Una delle attrici, che si era presentata come Delfina, stava in piedi da una parte, e sembrava vigilasse: doveva essere la compagna del cuore di Regina. Dalle pareti, veniva un odore di calce fresca; su una poltrona stavano buttati i vestiti della protagonista, sul pavimento appariva un mazzo di fiori solitario.
Il Donati ne provò un moto di dispetto. Lui ne avrebbe mandati cento, di mazzi, e sontuosi. Avrebbe gremito quella stanza di fiori.
«Che vuoi, da me?» chiese Regina.
La domanda lo colse di sorpresa perché era arrivato fino a quel punto senza volere niente di preciso, al tempo stesso volendo il massimo che è contenuto in una meraviglia che suggerisce infinite cose senza precisarne nessuna.
Cominciava solo ora a collegare i pensieri. Considerò che, tranne poche eccezioni, gli esseri umani non gli sollecitavano alcun interesse. L’attraeva il gioco di conquistarli, con tecnica diversa a seconda dei tipi e delle situazioni, e da ciò derivava un doversene interessare, ma era altra questione.
Regina ripeté la domanda.
Lui capì che non era il gioco della conquista, a sollecitarlo, semmai il contrario: il piacere di arrendersi, ancora, a chi l’aveva attirato con tanta forza. Che gli stava accadendo con la donna che ora lo affascinava col suo silenzio, non meno di quanto aveva ottenuto con la sua voce? Per la prima volta nella sua vita era preso da un desiderio intenso, ma senza la volontà testarda che sempre lo forzava a realizzarlo, a ogni costo. Era felice di fluttuare in quel desiderio, semplicemente: di esserne in balìa.
«Cosa voglio da te...» rifletté. «Potrei dirti: tutto. Ma è assurdo, no?, se nemmeno ti conosco. Eppure è questo che mi possiede, un sentimento di assoluto,...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Il gioco delle passioni
- Capitolo primo
- Capitolo secondo
- Capitolo terzo
- Capitolo quarto
- Capitolo quinto
- Capitolo sesto
- Capitolo settimo
- Capitolo ottavo
- Capitolo nono
- Copyright