
- 272 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il mondo perduto
Informazioni su questo libro
Un'avventurosa spedizione nel cuore dell'Amazzonia scopre un misterioso altopiano dove il tempo sembra essersi fermato a milioni di anni fa. Scritto nel 1912, il romanzo ebbe subito un grande successo, pari alle storie di Sherlock Holmes.
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Informazioni
IX
Chi avrebbe potuto prevederlo?
Ci è accaduta una cosa terribile. Chi avrebbe potuto prevederlo? Non riesco a scorgere la fine dei nostri guai. Forse saremo condannati a passare il resto della nostra vita in questo luogo strano e inaccessibile. Sono ancora così confuso che non riesco a pensare con chiarezza agli avvenimenti del presente o a quello che ci riserva il futuro. Ai miei sensi sbalorditi il primo sembra troppo spaventoso e il secondo nero come la notte.
Nessuno si è mai trovato in una situazione peggiore; né servirebbe rivelarvi la nostra esatta posizione geografica chiedendo ai nostri amici di inviare una spedizione di soccorso. Anche se potessero farlo, secondo ogni umana previsione il nostro fato si deciderà molto prima che possa arrivare nell’America del sud.
Siamo in verità altrettanto lontani da qualsiasi soccorso umano che se ci trovassimo sulla luna. Se vogliamo farcela dobbiamo contare solo sulle nostre forze. Ho come compagni tre uomini fuori dell’ordinario, dotati di un forte intelletto e di una volontà indomabile. È questa la nostra unica speranza. Solo quando alzo lo sguardo ai volti sereni dei miei compagni riesco a scorgere un po’ di luce nell’oscurità. All’esterno mi auguro di sembrare altrettanto sereno. Dentro di me sono pieno di apprensione.
Lasciate che vi riferisca, con il maggior numero di particolari possibile, la sequenza degli avvenimenti che ci hanno condotto alla catastrofe.
Alla fine della mia ultima lettera ho affermato che eravamo a quattordici chilometri da un’enorme catena di colline rosse che circondavano, senza alcun dubbio, l’altopiano del quale parlava il professor Challenger. La loro altezza, mentre ci avvicinavamo, mi sembrava in alcuni punti superiore a quella affermata da lui – giungendo almeno fino a trecento metri – e avevano curiose striature, caratteristiche, a quanto credo, delle formazioni basaltiche. Qualcosa del genere si può vedere nelle rocce di Salisbury a Edimburgo. La sommità mostrava ogni evidenza di vegetazione lussureggiante, con cespugli vicino al bordo e molti alberi alti più all’interno. Non vedemmo nessuna traccia di vita.
Quella notte ponemmo l’accampamento immediatamente sotto le colline – un luogo quanto mai desolato e selvaggio. Le rocce sopra di noi non erano soltanto perpendicolari, ma ricurve verso l’esterno sulla vetta, sì da rendere impossibile l’ascesa. Vicino a noi c’era l’alto e svettante pinnacolo di roccia al quale credo di avere già accennato in questa narrazione. È come un grande campanile rosso, la cui cima è allo stesso livello dell’altopiano, dal quale è separata tuttavia da un profondo baratro che si spalanca fra loro. Sulla vetta cresce un unico grande albero. Tanto il pinnacolo quanto la collina erano relativamente bassi – centocinquanta o duecento metri, direi.
«Era su quello» disse il professor Challenger accennando all’albero «che ho visto appollaiato lo pterodattilo. Mi sono arrampicato a mezza strada sulla roccia prima di sparargli. Sono propenso a ritenere che un buon rocciatore come me non avrebbe difficoltà ad arrivare in cima, anche se dopo averlo fatto non si troverebbe tuttavia più vicino all’altopiano.»
Mentre Challenger parlava del suo pterodattilo guardavo il professor Summerlee e per la prima volta mi parve di scorgere i segni premonitori del pentimento e della credulità. Sulle sue labbra non c’era alcun sogghigno, ma, al contrario, un’espressione grigia e tesa di emozione e sbalordimento. Anche Challenger la vide e tripudiò nel gustare il primo sapore della vittoria.
«Naturalmente» disse con il suo sarcasmo goffo e pesante «il professor Summerlee si renderà conto che quando dico pterodattilo intendo cicogna – solo il tipo di cicogna senza piume, con la pelle di cuoio, le ali membranose e denti in bocca.» Sogghignò e strizzò gli occhi e si inchinò, finché il collega gli voltò le spalle e si allontanò.
Al mattino, dopo un pasto frugale di caffè e tapioca – dovevamo risparmiare le provviste – tenemmo un consiglio di guerra sul modo migliore di scalare l’altopiano sopra di noi.
Challenger presiedeva con la stessa solennità di un presidente del tribunale nell’esercizio delle sue funzioni. Immaginatelo seduto su una roccia, con il suo assurdo cappello di paglia infantile spinto indietro sulla testa, gli occhi arroganti che ci dominavano da sotto le palpebre abbassate, la grande barba nera che si agitava mentre lui descriveva lentamente la nostra situazione attuale e i nostri movimenti futuri.
Sotto di lui avreste potuto vedere noi tre – io, abbronzato, giovane e vigoroso dopo la nostra camminata all’aria aperta; Summerlee, serio, ma ancora scettico, dietro la sua eterna pipa; Lord John, affilato come la lama di un rasoio, con la figura agile e pronta appoggiata al fucile e lo sguardo d’aquila posato avidamente sull’oratore. Dietro a noi erano raggruppati i due meticci e il piccolo manipolo d’indiani, mentre davanti e sopra a noi torreggiavano quelle costole di roccia enormi, rosse, che ci separavano dalla nostra meta.
«Non c’è bisogno di dire» incominciò la nostra guida «che in occasione della mia visita precedente ho esaurito ogni mezzo possibile per scalare le colline, e dove io non sono riuscito ritengo improbabile che possa riuscire qualcun altro, perché posso affermare di essere un buon alpinista. Non avevo con me nessun congegno da rocciatore, ma questa volta ho preso la precauzione di portarli. Con il loro aiuto sono sicuro di riuscire a scalare il pinnacolo isolato fino in vetta; ma finché la catena principale di colline ci sovrasta è inutile tentare di scalarla. In occasione della mia visita precedente ho dovuto affrettarmi per l’avvicinarsi della stagione delle piogge e la fine delle provviste. Queste considerazioni hanno limitato il mio tempo e posso affermare di aver esaminato solo circa dodici chilometri delle colline alla vostra destra senza trovare nessuna via di risalita. Che cosa fare allora?»
«Mi sembra che ci sia una sola cosa ragionevole da fare» disse il professor Summerlee. «Se lei ha esplorato verso est, dovremmo percorrere la base delle colline verso ovest e cercare un punto accessibile per la nostra scalata.»
«Proprio così» disse Lord John. «È molto probabile che questo altopiano non sia di grandi dimensioni e gli gireremo intorno finché non troveremo un modo per salire, o torneremo al punto di partenza.»
«Ho già spiegato al nostro giovane amico qui» disse Challenger (ha il vezzo di alludere a me come se fossi uno scolaretto di dieci anni) «come sia assolutamente impossibile che si trovi una facile via di accesso da qualche parte, per il semplice motivo che se ci fosse l’altopiano non sarebbe isolato, e non si sarebbero date le condizioni che hanno prodotto un effetto così singolare sulle leggi generali dell’evoluzione. Riconosco tuttavia che potrebbero esserci punti nei quali un esperto rocciatore sarebbe in grado di raggiungere la vetta, ma dai quali un animale grosso e pesante non sarebbe in grado di scendere. Una cosa è certa, che c’è un punto accessibile.»
«Come lo sa, signore?» chiese Summerlee con asprezza.
«Perché il mio predecessore, l’americano Maple White, ha compiuto una simile scalata. Come avrebbe potuto vedere altrimenti il mostro che ha ritratto nel suo album?»
«Il suo ragionamento si basa su fatti non ancora comprovati» disse Summerlee ostinato. «Riconosco l’esistenza del suo altopiano, perché l’ho visto; ma non mi sono ancora convinto che contenga una qualsiasi forma di vita.»
«Quello che lei riconosce, signore, o che non riconosce, è di importanza incommensurabilmente scarsa. Sono lieto di apprendere che l’altopiano, almeno, è riuscito a farsi strada faticosamente nella sua mente.» Alzò lo sguardo all’improvviso, e con nostro sbalordimento balzò dalla roccia e afferrando Summerlee per il collo gli voltò la faccia in su. «E adesso, signore!» gridò con voce roca per l’emozione. «Riesce a convincersi che l’altopiano contiene qualche forma di vita animale?»
Ho già detto che una spessa frangia di vegetazione orlava il bordo delle colline. Da questa era emerso un oggetto nero luccicante. Mentre avanzava lentamente e si protendeva sul baratro, constatammo che era un serpente molto grande con una strana testa a forma di vanga. Ondeggiò e tremolò sopra di noi per un minuto con il sole mattutino che scintillava sulle sue spire snelle e sinuose. Quindi si ritirò lentamente e scomparve.
Summerlee era così affascinato che non aveva opposto resistenza mentre Challenger gli sollevava il volto. Adesso si liberò del collega e riacquistò la sua dignità.
«Sarei lieto, professor Challenger» disse «se riuscisse a fare le sue osservazioni senza afferrarmi per il mento. Neppure l’apparizione di un comunissimo pitone delle rocce mi sembra giustificare una simile libertà.»
«Ma c’è vita sull’altopiano, comunque» rispose trionfante il collega. «E adesso, dopo aver dimostrato questo punto fondamentale in modo che sia chiaro a chiunque per quanto prevenuto o ottuso, sono dell’opinione che la cosa migliore da fare sia togliere l’accampamento e dirigerci verso ovest finché non troveremo un modo per salire.»
Il terreno ai piedi delle colline era roccioso e ineguale, e procedevamo con lentezza e difficoltà. All’improvviso, tuttavia, arrivammo a qualcosa che ci sollevò il cuore. Era il posto dove era sorto un vecchio accampamento, con diverse lattine di carne di Chicago vuote, una bottiglia con l’etichetta «Brandy», un apriscatole rotto e una quantità di altri resti di viaggiatori. Un giornale accartocciato e disintegrato si rivelò essere il «Chicago Democrat», sebbene la data fosse stata cancellata.
«Non è il mio» disse Challenger «deve essere quello di Maple White.»
Lord John osservava incuriosito un grande albero di felci che ombreggiava l’accampamento. «Dico, guardate qua» osservò. «Credo che intenda essere un’indicazione.»
Sul tronco dell’albero era stata inchiodata una striscia di legno duro che puntava verso ovest.
«È senza dubbio un’indicazione» disse Challenger. «Che altro mai? Trovandosi in una situazione pericolosa il nostro pioniere l’ha lasciata affinché chiunque lo seguisse potesse sapere da che parte era andato. Forse durante il cammino ci imbatteremo in qualche altra indicazione.»
E così fu, ma si trattava di indicazioni di natura quanto mai orribile e inattesa. Proprio sotto le colline cresceva una grande macchia di bambù, come quella che avevamo attraversato durante il viaggio. Molti di quei fusti erano alti almeno sei metri, con punte forti e acuminate che costituivano lance formidabili. Costeggiavamo questa macchia quando il mio sguardo venne attirato dal luccichio di qualcosa di bianco all’interno. Infilando la testa fra i fusti mi trovai a fissare un teschio scarnificato. C’era tutto lo scheletro, ma il teschio si era staccato ed era rotolato più vicino a noi.
Con qualche colpo di machete dei nostri indiani ci aprimmo un varco e potemmo studiare i particolari di quella vecchia tragedia. Si distinguevano solo pochi brandelli di stoffa, ma sui piedi ossuti c’erano i resti di stivali ed era evidente che il morto era un europeo. Un orologio d’oro di Hudson, di New York, e una catena alla quale era appesa una stilografica giacevano fra le ossa. C’era anche un portasigarette d’argento con inciso sul coperchio «J.C. da A.E.S.». Le condizioni del metallo sembravano dimostrare che la catastrofe non era accaduta molto tempo prima.
«Chi può essere stato?» chiese Lord John. «Povero diavolo! Sembra che non gli sia rimasto neppure un osso intero.»
«E il bambù cresce attraverso le costole schiacciate» disse Summerlee. «È una pianta che cresce in fretta, ma è senza dubbio impensabile che questo corpo sia stato qui mentre le canne raggiungevano un’altezza di sei metri.»
«Quanto all’identità dell’uomo» disse il professor Challenger «non ho dubbi in proposito. Mentre percorrevo il fiume prima di raggiungervi alla fazenda ho fatto indagini molto approfondite su Maple White. A Para non sapevano nulla. Per mia fortuna avevo un indizio ben preciso, perché nel suo album c’era un disegno che lo ritraeva a colazione con un certo ecclesiastico di Rosario. Sono riuscito a trovare questo prete e, sebbene si sia dimostrato molto polemico e se la sia presa assurdamente per il fatto che gli facevo notare l’effetto corrosivo della scienza moderna sulle sue credenze, mi ha dato ciò non di meno qualche informazione sicura. Maple White è passato da Rosario quattro anni fa, o due prima che vedessi il suo cadavere. A quell’epoca non era solo, ma c’era con lui un amico, un americano di nome James Colver, che era rimasto nella barca e non aveva conosciuto questo ecclesiastico. Ritengo pertanto indubitabile che noi guardiamo in questo momento i resti di James Colver.»
«Né si può dubitare» disse Lord John «di come abbia incontrato la morte. È caduto, o è stato spinto, dalla cima e si è impalato. In quale altro modo si sarebbe rotto tutte le ossa e come avrebbe potuto essere stato infilzato da queste canne con la punta tanto al di sopra delle nostre teste?»
Cadde fra noi il silenzio mentre stavamo intorno a quei resti frantumati e ci rendevamo conto della verità delle parole di Lord John Roxton. La cima sporgente delle colline si protendeva sopra il canneto. Senza dubbio era caduto da lì. Ma era caduto? Si era trattato davvero di un incidente? O… già prospettive minacciose e terribili incominciavano ad apparire in quella terra sconosciuta.
Riprendemmo il cammino in silenzio, continuando a costeggiare le colline compatte e ininterrotte, come quei mostruosi campi di ghiaccio antartici che avevo visto raffigurati estendersi da un orizzonte all’altro e torreggiare alti sugli alberi maestri delle navi che li esploravano. In circa dieci chilometri non vedemmo alcun crepaccio o fessura. Poi all’improvviso notammo qualcosa che ci riempì di nuovo di speranza. In una depressione della roccia, protetta dalla pioggia, era disegnata con il gesso una rozza freccia, che continuava a indicare verso occidente.
«Di nuovo Maple White» disse il professor Challenger. «Aveva il presentimento che i suoi passi sarebbero stati seguiti degnamente.»
«Aveva gesso?»
«Fra gli oggetti che ho trovato nel suo zaino c’era una scatola di gessi colorati. Ricordo che il bianco era ridotto a un mozzicone.»
«Questa è senza dubbio una prova inconfutabile» disse Summerlee. «Non possiamo fare altro che accettare la sua guida e procedere verso occidente.»
Procedevamo da circa dieci chilometri quando vedemmo un’altra freccia sulla roccia. Si trovava in un punto nel quale per la prima volta la parete delle colline era interrotta da una stretta fessura. In questa fessura c’era una seconda indicazione che accennava verso l’alto, con la punta un po’ elevata come se il luogo i...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Il mondo perduto. Resoconto delle recenti incredibili avventure del professor E. Challenger, di Lord John Roxton, del professor Summerlee e del signor Ed Malone della «Daily Gazette»
- I. A tutti è dato compiere azioni eroiche
- II. Provi con il professor Challenger
- III. È un individuo assolutamente impossibile
- IV. È la cosa più grande del mondo
- V. Obiezione!
- VI. Ero il Flagello del Signore
- VII. Domani scompariremo nell’ignoto
- VIII. Gli avamposti di un nuovo mondo
- IX. Chi avrebbe potuto prevederlo?
- X. Sono accadute le cose più incredibili
- XI. Una volta tanto l’eroe sono io
- XII. Nella foresta c’era da morire di spavento
- XIII. Uno spettacolo che non dimenticherò mai
- XIV. Furono quelle le vere conquiste
- XV. I nostri occhi hanno visto grandi meraviglie
- XVI. Un corteo! Un corteo!
- Copyright