Chadzi-Muràt
  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

L'eroica lotta del capo caucasico Chadži-Muràt contro l'esercito russo, un intreccio di avventure, di vendette e di tradimenti nel lungo racconto, postumo, dell'autore di Guerra e pace.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804378501
eBook ISBN
9788852064913

CHADŽI-MURÀT

Tornavo a casa attraverso i campi. Si era nel cuore dell’estate. I prati erano stati falciati, e ci si apprestava a tagliare la segala.
Incantevole è la varietà di fiori in questa stagione dell’anno: i fiori odorosi del trifoglio, rossi, bianchi, rosa e lanuginosi; le sfrontate margheritine, di un bianco latteo, con il disco giallo squillante, “m’ama, non m’ama”, e il loro afrore dolciastro e piccante; la gialla colza dall’odore di miele; le campanule lilla e bianche, alte e diritte, come tulipani; i piselli rampicanti; le scabbiose, gialle, rosse, lilla, rosa, ben allineate; la piantaggine, con la sua lanugine rosa e il quasi impercettibile e gradevole profumo; i fiordalisi di un fulgido blu al sole e appena fioriti, e azzurri e purpurei la sera e quando sono prossimi ad appassire; e i teneri fiori della cuscuta, dall’odore di mandorla, che subito sfioriscono.
Avevo colto un grande mazzo di fiori e mi avviavo verso casa, quando notai in un fosso una splendida lappola in pieno fiore, di color cremisi, di quella specie che da noi è detta “tartara” e che i mietitori evitano con cura di tagliare, e che quando è incidentalmente tagliata, eliminano dal fieno per non pungersi le mani. Mi venne l’idea di coglierla per sistemarla al centro del mazzo. Scesi nel fosso e, scacciato il calabrone peloso che si era insediato nel calice e vi si era mollemente e dolcemente assopito, presi a strappare il fiore. Ma riuscì assai arduo: non solo perché lo stelo pungeva da ogni lato, persino attraverso il fazzoletto nel quale avevo avvolto la mano, ma anche perché era così resistente che lottai per cinque minuti e lo strappai fibra per fibra. Quando alla fine lo staccai, lo stelo era ormai tutto sfilacciato e il fiore non appariva più così fresco e bello. Inoltre, così goffo e sgraziato, stonava con i fiori delicati del mazzo. Mi rincrebbe di aver sciupato inutilmente un fiore, che era bello al suo posto, e lo gettai via. “Ma che energia, che forza vitale!” pensai, ricordando con quanto sforzo l’avevo strappato. “E come ha difeso strenuamente la sua vita, come l’ha venduta cara!”
La strada che conduceva a casa attraversava un campo di terra nera e grassa a maggese, appena arato. Procedevo lungo la dolce salita per una via di terra nera, polverosa. Il campo arato apparteneva a una proprietà assai grande, al punto che da entrambi i lati della strada e di fronte non si scorgeva altro che uno scuro terreno, non ancora a maggese. L’aratura era buona e nel campo non si intravedevano né una pianta né un’erba: era completamente nero. “Com’è distruttivo e crudele l’uomo, quanti esseri viventi, quante piante ha annientato per assicurarsi la sopravvivenza” pensavo, cercando, senza volere, qualcosa di vivo in quel campo nero e morto. Dinanzi a me, sul lato della strada, si scorgeva un cespuglio. Quando mi avvicinai, riconobbi una “tartara” uguale a quella da cui avevo vanamente strappato e gettato via il fiore.
Il cespuglio di “tartara” aveva tre piccoli fusti. Uno era stato strappato e il resto del ramo si protendeva come un braccio mozzato. Gli altri due avevano ciascuno un fiore. I fiori, che dovevano esser stati rossi, ora erano neri. Uno stelo era spezzato, e la metà, con il fiore sporco alla fine, penzolava; mentre l’altro, pur imbrattato del fango della nera terra, continuava a stagliarsi nel cielo. Era chiaro che tutto il cespuglio doveva esser stato travolto da una ruota e si era poi rialzato, e sebbene curvo da un lato, era rimasto in piedi. Era come se gli avessero strappato una parte del corpo, estirpato le viscere, reciso una mano e cavato gli occhi, e lui continuasse ad ergersi e a non arrendersi all’uomo che aveva distrutto tutti i suoi simili intorno.
“Che energia!” pensai “l’uomo ha sopraffatto tutto, distrutto milioni di piante ma lui non si arrende.”
E rammentai un’antica storia caucasica di cui in parte ero stato testimone, e in parte avevo udito parlare o forse mi ero soltanto immaginato. Ecco la storia, così come si è andata delineando nella mia immaginazione e nel ricordo.

I

Si era alla fine del 1851.
In una fredda sera di novembre Chadži-Muràt faceva il suo ingresso nell’aùl1 ceceno di Machket, non ancora in pace, avvolto nel fumo odoroso del kizjàk.2
Era cessato da poco il canto intenso del muezzin, e nell’aria tersa della montagna, intrisa dell’odore del fumo del kizjàk, fra i muggiti delle mucche e i belati delle pecore, che si radunavano, strette le une accanto alle altre, nelle saklì3 anguste del villaggio, risonavano le voci aspre e gutturali degli uomini, e dalla fontana quelle delle donne e dei bambini.
Chadži-Muràt era un naìb4 di Šamìl’, noto per le sue imprese, che non si metteva mai in viaggio senza il suo stendardo e senza la compagnia di una decina di mjurìd, che gli volteggiavano intorno sulle loro selle. Ora, avviluppato nel cappuccio e nella burka5 da cui pendeva la carabina, cavalcava con un solo mjurìd, cercando di farsi notare il meno possibile, scrutando coi suoi occhi mobilissimi e neri i volti degli abitanti in cui si imbatteva per via.
Giunto al centro dell’aùl, Chadži-Muràt non proseguì per la strada che conduceva alla piazza, ma svoltò a sinistra, in un angusto vicoletto. Davanti alla seconda saklja del vicolo, scavata nella pietra, si fermò e si guardò intorno. Sotto la tettoia non vi era nessuno, ma sul tetto, dietro il comignolo di argilla, dipinto di fresco, stava disteso un uomo, coperto da un tulup.6 Chadži-Muràt lo sfiorò con il manico del suo frustino e fece schioccare la lingua. Dal tulup balzò fuori un vecchio in berretto da notte, con un bešmèt7 consunto e lucido. Gli occhi del vecchio, senza ciglia, erano rossi e cisposi ed egli batteva le palpebre, cercando di dischiuderli. Chadži-Muràt gli disse «Salam Aleikum» e si scoprì il viso.
«Aleikum Selam8 gli rispose il vecchio, sorridendo con la bocca sdentata quando lo riconobbe, e levatosi sulle esili gambe, prese ad infilare gli zoccoli dai tacchi di legno che si trovavano accanto al comignolo. Quando li ebbe calzati, infilò senza fretta le maniche del tulup sfoderato e tutto sgualcito e scese all’indietro la scala appoggiata al tetto. Continuando a vestirsi mentre scendeva, il vecchio dondolava la testa sul sottile collo rugoso e abbronzato, biascicando senza sosta qualcosa. Una volta a terra, afferrò in segno di ospitalità le briglie del cavallo di Chadži-Muràt e la sua staffa destra. Ma l’agile e forte mjurìd al seguito di Chadži-Muràt smontò rapidamente da cavallo e allontanò il vecchio, sostituendosi a lui.
Chadži-Muràt scese da cavallo e, zoppicando leggermente, si rifugiò sotto la tettoia. Dalla porta gli si precipitò incontro un ragazzo di una quindicina d’anni che fissò gli occhi neri e rilucenti come more sui nuovi venuti.
«Corri alla moschea a chiamare tuo padre» gli ordinò il vecchio, e precedendo Chadži-Muràt, spalancò la porta leggera e cigolante che conduceva nella saklja. Mentre Chadži-Muràt entrava, dalla porta uscì una donna non più giovane, esile, sottile che indossava un bešmèt rosso sopra la camicia gialla e i calzoni blu corti e larghi, portando dei cuscini.
«Sii il benvenuto» disse, e piegandosi in due, prese a disporre i cuscini lungo il muro anteriore per far accomodare gli ospiti.
«Che i tuoi figli abbiano lunga vita» replicò Chadži-Muràt, dopo essersi sfilato la burka, il fucile e la sciabola e averli affidati al vecchio.
Il vecchio appese con cura il fucile e la sciabola al chiodo accanto alle armi del padrone di casa fra due grandi bacili che luccicavano sul levigato intonaco della parete.
Chadži-Muràt, aggiustandosi la pistola sulla schiena, raggiunse i cuscini disposti dalla donna a terra, e sedette, dopo aver incrociato i lembi della giubba circassa. Il vecchio sedette di fronte a lui sui talloni nudi, e socchiusi gli occhi, levò le mani con i palmi rivolti verso l’alto. Chadži-Muràt fece lo stesso. Poi, recitando insieme una preghiera, si passarono le mani sul volto, ricongiungendole all’estremità della barba.
«Ne chabar?» chiese Chadži-Muràt al vecchio «che c’è di nuovo?»
«Chabar iok,9 nessuna novità» rispose il vecchio, fissando non il volto, ma il petto di Chadži-Muràt, con i suoi occhi rossi e spenti. «Io sto con le api, solo oggi sono venuto a far visita a mio figlio. Lui lo sa.»
Chadži-Muràt comprese che il vecchio non voleva rivelare ciò che sapeva e che a lui premeva conoscere, e fatto un lieve cenno con il capo, smise di far domande.
«Nessuna nuova che sia buona» disse il vecchio. «Di nuovo vi è soltanto che tutte le lepri sono a consiglio per cacciar via le aquile. Ma le aquile continuano a dilaniare ora l’uno ora l’altro. La settimana scorsa quei cani dei russi hanno dato fuoco al fieno di quelli di Mičik, ah, se si potesse fracassar loro la faccia…» fece con la sua voce rauca e maligna il vecchio.
Entrò il mjurìd di Chadži-Muràt, e percorrendo con il suo passo lungo e leggero il pavimento di terra, si sfilò, come aveva fatto Chadži-Muràt, la burka, il fucile e la sciabola, tenendo su di sé solo il pugnale e la pistola, e li appese ai chiodi cui erano attaccate anche le armi di Chadži-Muràt.
«Chi è?» chiese il vecchio a Chadži-Muràt, indicando il nuovo venuto.
«Il mio mjurìd. Il suo nome è Eldàr» rispose Chadži-Muràt.
«Bene» disse il vecchio e indicò a Eldàr un posto sul tappeto di feltro, accanto a Chadži-Muràt.
Eldàr sedette, incrociando le gambe, e prese a fissare in silenzio, con i suoi begli occhi da montone, il vecchio divenuto a un tratto ciarliero. Raccontava come dei prodi avessero catturato la settimana prima due soldati, uccidendone uno, e mandando l’altro a Vedeno da Šamìl’. Chadži-Muràt ascoltava distratto, spiando la porta e prestando ascolto ai rumori che provenivano da fuori. Sotto la tettoia si udirono dei passi, la porta scricchiolò ed entrò il padrone di casa.
Il padrone della saklja, Sado, era un uomo sui quarant’anni, con una barbetta corta, il naso lungo e gli occhi neri, sebbene non così splendenti come quelli del ragazzo quindicenne, suo figlio, che si era precipitato a cercarlo, e che insieme a lui era entrato nella saklja, e si era seduto accanto alla porta. Dopo essersi sfilato presso la porta gli zoccoli di legno, si ributtò il vecchio e logoro colbacco indietro, sulla nuca non rasata da tempo su cui crescevano fluenti i neri capelli, e subito si accoccolò di fronte a Chadži-Muràt.
E come il vecchio, socchiusi gli occhi, levò le mani con i palmi rivolti all’insù, recitò una preghiera, si passò le mani sul viso e solo allora cominciò a parlare. Disse che da Šamìl’ era giunto l’ordine di arrestare Chadži-Muràt, vivo o morto, che solo il giorno prima erano partiti i suoi emissari, che la gente aveva paura di disobbedire e perciò bisognava essere prudenti.
«In casa mia» disse Sado «nessuno, finché sarò in vita, farà del male a un mio kunàk.10 Ma fuori, che accadrà? Occorre riflettere.»
Chadži-Muràt ascoltava attento, assentì con il capo. Quando Sado smise di parlare, disse: «Va bene. Ora bisogna inviare dai russi un uomo con una lettera. Andrà il mio mjurìd, gli occorre solo una guida».
«Manderò il fratello Bata» disse Sado. «Chiama Bata» fece rivolto al figlio.
Il ragazzo balzò come una molla sulle agili gambe e, agitando le braccia, uscì in gran fretta dalla saklja. Dopo una decina di minuti ritornò con un čečenec scuro, abbronzato, asciutto, con le gambe corte, con indosso una čerkeska11 gialla e sdrucita dalle maniche sfrangiate e delle uose nere e cad...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Bibliografia essenziale
  5. Cronologia
  6. CHADŽI-MURÀT
  7. Copyright