
- 182 pagine
- Italian
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Chiamata per il morto
Informazioni su questo libro
George Smiley è nei guai: su di lui si addensano i sospetti per la morte di un alto funzionario del Foreign Office e lo scandalo minaccia di compromettere l'intero apparato di sicurezza inglese. Smiley ancora una volta dovrà cavarsela da solo...
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Informazioni
Print ISBN
9788804395072eBook ISBN
97888520665111
Breve storia di George Smiley
Quando Lady Ann Sercomb, verso la fine della guerra, sposò George Smiley, lo descrisse ai suoi amici aristocratici, molto stupiti, come un tipo d’una mediocrità da togliere il fiato. Quando, due anni dopo, lo abbandonò per un corridore d’automobili cubano, annunciò enigmaticamente che, se non lo avesse lasciato allora, non sarebbe mai più stata capace di farlo. Il visconte Sawley si recò appositamente al suo club per annunciare che la gatta aveva fatto i gattini.
Questa battuta, che per qualche tempo fu la barzelletta della buona società, può essere compresa soltanto da coloro che hanno conosciuto Smiley. Basso di statura, grasso e di temperamento tranquillo, si diceva che spendesse molti quattrini per comprarsi vestiti molto brutti che pendevano addosso alla sua figura tozza come la pelle addosso a un rospo rinsecchito. Alle nozze Sawley dichiarò infatti che «la Sercomb si era maritata con un rospo con l’impermeabile». Ignaro di questa definizione, Smiley aveva percorso malcerto la navata della chiesa, incontro al bacio che l’avrebbe trasformato in un principe.
Era ricco o povero? un paesano o un prete? e lei, dove diavolo l’aveva pescato? L’assurdità del matrimonio era sottolineata dall’indiscutibile bellezza di Lady Ann e il mistero era aggravato dalla sproporzione esistente fra l’uomo e la sua sposa. Ma il pettegolezzo ha bisogno del bianco e nero, ha bisogno di attribuire ai suoi personaggi difetti e motivi facilmente descrivibili nella stenografia della conversazione. Smiley, senza scuole, senza genitori, senza una carriera militare o un mestiere, né ricco né povero, viaggiava senza una precisa etichetta nel bagagliaio del treno espresso della società e ben presto diventò un bagaglio smarrito, destinato, dopo il divorzio, a rimanere un collo non reclamato da nessuno nel polveroso scaffale delle notizie di ieri.
Quando Lady Ann seguì il suo astro a Cuba, dedicò qualche pensiero a Smiley. A malincuore riconobbe che se nella sua vita ci fosse stato un solo uomo, quest’uomo sarebbe stato Smiley. Si sentì retrospettivamente soddisfatta di averlo dimostrato durante il matrimonio, che era stato perfetto.
L’effetto della partenza di Lady Ann sul suo primo marito non interessò la società, che in genere è indifferente nei confronti delle conseguenze di un fatto sensazionale. Eppure sarebbe stato interessante sapere che cosa Sawley e il suo entourage avrebbero detto della reazione di Smiley, con quella sua faccia carnosa, sotto gli occhiali, corrugata in un’intensa concentrazione quando leggeva con estrema attenzione i poeti tedeschi minori, con le mani umide e paffute strette sotto delle maniche cadenti. Ma Sawley, in questa occasione, reagì soltanto con un’alzata di spalle, dicendo: «partir c’est mourir un peu». E aveva l’aria di non rendersi conto che, mentre era Lady Ann che stava correndo via, una parte di George Smiley era effettivamente morta.
La parte di Smiley che sopravvisse contrastava tanto col suo aspetto quanto con i suoi amori o la predilezione per i poeti misconosciuti: ed era la sua professione, quella di agente segreto. Una professione che amava e che gli procurava in abbondanza colleghi oscuri quanto lui per carattere e per origine. La professione gli procurava pure ciò che un tempo aveva amato sopra ogni cosa nella vita: divagazioni accademiche sopra il mistero del comportamento umano, attenuate mediante l’applicazione pratica delle sue personali deduzioni.
Un tempo, verso gli anni Venti, all’epoca in cui Smiley era uscito dalla sua banalissima scuola e gironzolava pigro, scrutando dentro i tenebrosi cortili del suo banale collegio di Oxford, aveva sognato le accademie e una vita dedicata alle oscurità letterarie della Germania del diciassettesimo secolo. Ma il suo insegnante, che conosceva bene Smiley, lo pilotò con molta saggezza lontano dagli onori che indubbiamente gli sarebbero toccati. In un dolce mattino del luglio 1928, uno Smiley imbarazzato e tutto rosso sedeva di fronte a una commissione di investigazioni del Comitato d’Oltremare per la Ricerca Accademica di cui egli, inspiegabilmente, non aveva mai sentito parlare. Jebedee (il suo insegnante) era stato stranamente ambiguo nella presentazione: «Caro Smiley, dia a questi signori la prova che possono averla, e loro la pagheranno abbastanza male per garantirle una compagnia abbastanza decente». Smiley era piuttosto seccato e lo disse. Era preoccupato perché Jebedee, di solito così preciso, era tanto evasivo. Di malumore, accettò di rinviare la sua risposta fino a quando non avesse visto le “persone misteriose” di Jebedee.
Non venne presentato alla commissione, ma conosceva di vista metà dei suoi componenti. C’erano Fielding, lo studioso del Medioevo francese, di Cambridge, Sparke, della Scuola di lingue orientali, e Steed-Asprey, che aveva pranzato fra gli invitati importanti la sera in cui Smiley era stato ospite di Jebedee. Fu costretto ad ammettere di aver riportato una notevole impressione. Per quanto riguardava Fielding, il fatto stesso di aver lasciato le sue stanze, di essere uscito da Cambridge, era un miracolo. Più tardi Smiley ricordò sempre quell’incontro come una specie di danza dei sette veli: un calcolato susseguirsi di rivelazioni, ciascuna delle quali faceva apparire le varie parti di una misteriosa entità. Infine, Steed-Asprey, che aveva l’aria di essere il presidente, sollevò l’ultimo velo e la verità apparve sotto i suoi occhi in tutta la sua abbagliante nudità. Gli veniva offerto un posto in quello che, per usare un termine migliore, Steed-Asprey definì pudicamente Controspionaggio.
Smiley aveva chiesto del tempo per riflettere. Gli diedero un mese. Nessuno parlò di denaro.
Quella sera passò la notte a Londra, in un posto abbastanza buono, e andò a teatro. Si sentiva stranamente privo di pensieri e la cosa lo turbava. Sapeva molto bene che avrebbe accettato e che avrebbe potuto farlo già nel corso dell’incontro. Ma aveva evitato di farlo per un’istintiva prudenza e forse anche per il comprensibile desiderio di civettare un po’ con Fielding.
Dopo l’accettazione ci fu il periodo di addestramento: case di campagna anonime, istruttori anonimi, una buona dose di viaggi e, lontano miraggio, la prospettiva fantastica di lavorare completamente da solo.
La sua prima missione fu relativamente piacevole; consisteva nella nomina, per due anni, a englischer Dozent presso un’università provinciale tedesca. Qualche lezione su Keats e poi vacanze in padiglioni da caccia bavaresi in mezzo a gruppi di studenti tedeschi pieni di zelo e ostentatamente promiscui. Verso la fine di ciascuna di queste lunghe vacanze, egli portava alcuni di questi studenti in Inghilterra, dopo aver scelto i più adatti e avendo già trasmesso, con mezzi clandestini, le sue raccomandazioni a un recapito di Bonn. In due anni, non seppe mai se le sue raccomandazioni erano state accolte o ignorate. Non aveva la minima possibilità di sapere neppure se i suoi candidati erano stati presi in considerazione né se i suoi messaggi erano giunti a destinazione; quando era in Inghilterra, non aveva il minimo contatto col Dipartimento.
Le sensazioni che gli venivano dall’esecuzione del suo lavoro erano eterogenee e contraddittorie. Si divertiva a valutare, con un certo distacco, quello che chiamava “la spia potenziale” in ogni essere umano, a escogitare piccoli test di carattere e di comportamento capaci di informare circa le qualità di un candidato. Questo suo lato era insensibile e inumano – in questo ruolo Smiley era il solito mercenario internazionale, amorale, privo di una vera ragione salvo quella del tornaconto personale.
D’altra parte era rattristato di constatare che in lui ogni naturale piacere si estingueva gradatamente. Sempre riservato, ora tendeva a chiudersi in se stesso e a respingere le tentazioni dell’amicizia e della lealtà verso gli altri; si guardava con prudenza dalle reazioni spontanee. Impegnando tutto il suo intelletto, si sforzava di osservare il genere umano con un’oggettività clinica e, poiché non era né immortale né infallibile, odiava e anche temeva l’ambiguità della propria vita.
Ma Smiley era anche un sentimentale e il lungo esilio aveva rafforzato il suo amore per l’Inghilterra. Coltivava avidamente i ricordi di Oxford; ne evocava la bellezza, la quiete razionale e la matura ponderazione dei suoi giudizi di allora. Sognava una vacanza autunnale a Hartland Quay, lunghe passeggiate sulle scogliere della Cornovaglia, con la faccia lisciata e calda per la lotta contro il vento marino. Era questa la sua seconda vita, la vita segreta. E cominciò a odiare il brutale fermento della nuova Germania, i cortei e le acclamazioni degli studenti in uniforme, le loro facce arroganti, segnate da cicatrici, e le loro espressioni volgari. Gli dispiacque anche il modo in cui la Facoltà cercò di immischiarsi nella sua materia, la sua amata letteratura tedesca. Poi c’era stata una notte, una terribile notte dell’inverno 1937, in cui Smiley era rimasto alla finestra della sua stanza e aveva assistito a un grande falò nel cortile dell’università: intorno, centinaia di studenti con le facce esultanti e illuminate dalla luce guizzante. Nel rogo pagano venivano lanciati dei libri, a centinaia. Lui conosceva gli autori di quei libri: Thomas Mann, Lessing, Heine e tanti tanti altri. Smiley stringeva nella mano madida la cicca della sigaretta, vigile, pieno di odio, esultante perché aveva riconosciuto il nemico.
Il 1939 lo trovò in Svezia, agente accreditato di un rinomato fabbricante di armi di piccolo calibro, con le credenziali della ditta opportunamente retrodatate. Altrettanto opportunamente era stato in certo modo ritoccato il suo aspetto. Smiley aveva scoperto in sé un’attitudine a recitare la parte assunta, che andava molto al di là dell’elementare cambiamento dei suoi capelli e dell’adozione di un paio di baffetti. Aveva recitato quella parte per quattro anni, facendo avanti e indietro tra la Svizzera, la Germania e la Svezia. Non aveva mai pensato che fosse possibile vivere di terrore per tanto tempo. Contrasse un tic nervoso all’occhio sinistro, che gli rimase per quindici anni; la tensione tracciò rughe sulle sue guance carnose e sulla fronte. Imparò cosa significava non dormire mai, non riuscire a rilassarsi, sentire a tutte le ore del giorno e della notte il battito incessante del proprio cuore, conoscere il fondo della solitudine e dell’autocommiserazione, l’improvviso, irragionevole desiderio di una donna, la voglia di bere, di muoversi, di una droga qualunque capace di attenuare lo stato di tensione.
Su questo sfondo compiva le sue vere operazioni, il suo lavoro di spia. Col passare del tempo la rete si estese; altri paesi cercarono di porre riparo alla loro scarsa lungimiranza e preparazione. Nel 1943 venne chiamato. Dopo meno di sei settimane cominciò a desiderare di tornare all’estero, ma non ottenne il permesso di andarsene.
«Lei è perfetto,» diceva Steed-Asprey «addestri nuovi uomini, prenda il tempo che vuole. Viaggi, faccia qualche altra cosa. Insomma se la sbrogli!»
Smiley propose alla segretaria di Steed-Asprey, Lady Ann Sercomb, di sposarlo.
La guerra era finita. Ebbe il congedo e lui portò la sua bella sposa a Oxford, per dedicarsi ai segreti della Germania del diciassettesimo secolo. Ma due anni dopo Lady Ann era a Cuba e le rivelazioni di un giovane russo, addetto al cifrario segreto a Ottawa, crearono una nuova richiesta di uomini dotati dell’esperienza di Smiley.
Il lavoro era di un genere nuovo, la minaccia difficilmente decifrabile e, all’inizio, quell’attività gli piacque. Ma uomini più giovani erano entrati in scena, forse con una mentalità più fresca. Smiley non era fatto per le promozioni e a poco a poco si rese conto che era entrato nell’età adulta senza mai essere stato giovane e che nel frattempo era stato messo da parte, anche se molto cortesemente.
Le cose erano cambiate; Steed-Asprey se n’era andato, abbandonando il nuovo mondo per l’India, alla ricerca di un’altra civiltà. Jebedee era morto; era salito su un treno a Lilla, nel 1941, assieme al suo radiotelegrafista, un giovane belga, e di nessuno dei due si erano più avute notizie. Fielding aveva formulato una nuova tesi sull’Orlando. Soltanto Maston era rimasto. Maston, l’uomo di carriera, la recluta del tempo di guerra, il consigliere del Ministero per il controspionaggio, “l’uomo numero uno”, come l’aveva definito Jebedee, “per il tennis del potere a Wimbledon”. Le alleanze della NATO e le gravi misure progettate dagli americani modificarono completamente il contenuto del Controspionaggio di cui faceva parte Smiley. Scomparsi per sempre i tempi di Steed-Asprey, l’epoca in cui le azioni venivano impostate davanti a un bicchiere di Porto in una stanza del collegio Magdalen di Oxford. Il dilettantismo ispirato di un pugno di uomini molto qualificati e mal pagati aveva consentito l’efficienza, la struttura burocratica e le manovre di un grande ufficio governativo che adesso era nelle mani di Maston, coi suoi costosi vestiti e i suoi atteggiamenti cavallereschi, i suoi distinti capelli grigi e le cravatte argentee; Maston, che ricordava persino il compleanno della sua segretaria e che aveva maniere proverbiali fra le impiegate dell’archivio; Maston, che, a furia di moine, estendeva il suo impero e che a malincuore si muoveva verso sempre più importanti cariche; Maston, che offriva eleganti ricevimenti a Henley e si nutriva dei successi dei suoi subordinati.
Era stato assunto durante la guerra, come impiegato dello Stato in pianta stabile, in un normale ministero, un uomo capace di maneggiare le carte e adatto a completare lo splendore del suo stato maggiore con l’ingombrante congerie della burocrazia. Per i superiori era piacevole trattare con un uomo che conoscevano, un uomo che sapeva ridurre tutto al grigio, che conosceva i suoi padroni e sapeva come comportarsi con loro. Sapeva farlo molto bene. I superiori amavano la sua modestia quando giustificava le sue compagnie, la sua falsità quando difendeva le stravaganze dei suoi subordinati, la sua flessibilità quando formulava nuove consegne. Da parte sua, non ometteva di sfruttare i vantaggi che spettavano a “un uomo di cappa e spada suo malgrado”, il quale adottava la cappa di fronte ai padroni e serbava la spada per quando si trovava di fronte ai servi. Apparentemente la sua era una posizione eccezionale. Nominalmente non era il capo del Controspionaggio, ma il consigliere del ministro per le informazioni e Steed-Asprey l’avevano definito per sempre il Capo eunuco.
Per Smiley era un mondo nuovo: corridoi splendidi e illuminati, giovanotti eleganti. Si sentiva meschino e antiquato. Ricordava con nostalgia la fila di case in rovina a Knightsbridge, dove per lui era incominciato tutto. Il suo aspetto sembrava riflettere questa inquietudine attraverso una specie di decadenza fisica che lo rendeva più che mai curvo e simile a una rana. Il suo tic lo induceva ad ammiccare sempre più spesso e acquistò il nomignolo di “talpa”. Tuttavia la sua nuova segretaria lo adorava e quando parlava di lui lo chiamava invariabilmente “il mio caro orsacchiotto”.
Smiley non era troppo vecchio per andare all’estero. Ma Maston aveva dichiarato esplicitamente: «In ogni modo, vecchio mio, è come se lei non fosse rifiorito, dopo tutte le faccende della guerra. Meglio restare a casa, vecchio mio, badare al focolare».
Tutto quanto per spiegare come mai George Smiley, alle due del mattino di mercoledì 4 gennaio, sedeva in un tassì londinese diretto a Cambridge Circus.
2
Qui non si chiude mai
Nel tassì si sentiva al sicuro. Al sicuro e al caldo. Il calore l’aveva contrabbandato lì dal suo letto, contro l’umidità della notte di gennaio. Si sentiva sicuro, invece, perché era fuori della realtà: era solo il suo spirito che vagava per le vie di Londra e constatava l’esistenza di molti infelici a caccia di piaceri, sotto gli ombrelli dei fattorini, delle prostitute, avvolte negli impermeabili di politene, come pacchi-regalo. Era il suo spirito, constatava, balzato fuori dall’abisso del sonno interrotto dallo squillo del telefono sul comodino… Oxford Street… Perché Londra è l’unica capitale del mondo che di notte perde la sua personalità? Smiley, stringendosi nel soprabito, non riusciva a immaginare un’altra città, tra Los Angeles e Berna, disposta a rinunciare così prontamente alla sua lotta quotidiana per l’identità.
Il tassì svoltò in Cambridge Circus e Smiley si raddrizzò con un sobbalzo. Ricordò la ragione per cui l’ufficiale di servizio gli aveva telefonato e questo lo distolse brutalmente dai suoi sogni. Ricuperò tutta la conversazione, parola per parola: uno sforzo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Chiamata per il morto
- 1. Breve storia di George Smiley
- 2. Qui non si chiude mai
- 3. Elsa Fennan
- 4. Un caffè a La Fontana
- 5. Maston e confessioni al lume di candela
- 6. Tè e simpatia
- 7. La storia del signor Scarr
- 8. Riflessioni in una stanza d’ospedale
- 9. Far ordine
- 10. La storia della Vergine
- 11. Un club poco decoroso
- 12. Sogno in vendita
- 13. L’inefficienza di Samuel Fennan
- 14. Le porcellane di Dresda
- 15. L’ultimo atto
- 16. Echi nella nebbia
- 17. Caro consigliere
- 18. Fra due mondi
- Dossier George Smiley. a cura di Paolo Bertinetti
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