Eppure, al termine di ogni atto nella tragicommedia che fu la vita di Ronnie, lo stesso interrogativo resta caparbiamente senza risposta: perché? Qual era il profitto, il vantaggio, l’utile? Quale speranza realistica poteva aver mai nutrito Ronnie – dato altresì che era pieno di debiti, in fuga dall’Inghilterra ed esposto in qualsiasi momento a vedersi scoperto nei suoi vari travestimenti – di vedere controfirmato, assicurato e deliberato il suo progetto di pura fantasia? Che speranza poteva mai aver avuto di vedersi nelle vesti del vincitore trionfante in sella a un cavallo bianco, che fugge al galoppo con il suo bottino di guerra? La prima risposta che mi balza alla mente, in una sola parola, è: nessuna. Il divertimento era qui e subito, e non domani. Gli immortali non ne hanno bisogno. La seconda risposta, la mia preferita, è che imbrogliava anche se stesso. Credeva nel piccolo fondo abbandonato di Colin Clark. Credeva di stare rendendo un servizio inestimabile all’anziana contessa sottraendole i suoi quadri. Credeva nella sua visione fantastica di una grande città canadese sorta dal nulla e adatta agli eroi di domani. E se compresa nel prezzo vi fosse stata anche la Tour Eiffel avrebbe creduto anche in quello.
Oppure considerate la seguente avventura. Mio fratello Tony e io, più o meno intorno rispettivamente ai diciotto e ai sedici anni di età, una certa estate durante le vacanze scolastiche stiamo morendo di noia quando Ronnie, di punto in bianco, propone di concederci una settimana a Parigi e di divertirci un po’. Da parte sua è un’offerta piuttosto insolita, dato che implica la disponibilità di un bel mucchio di quattrini in contanti. Tuttavia insiste, e ci consegna in effetti un rotolo di banconote per i biglietti del treno, aggiungendo che possiamo chiedere tutti i soldi in più di cui avremo bisogno all’ambasciatore di Panama in Francia, un tipo di classe sopraffina a cui Ronnie forniva casse di whisky scozzese senza etichetta, sotto protezione diplomatica. L’ambasciatore, spiega, apre le casse nella sua cantina, appiccica sulle bottiglie una qualunque etichetta di scotch, quella che ritiene più appropriata, e spedisce tutto a Panama, di nuovo sotto protezione diplomatica. Il piano va avanti senza intoppi da un po’, perciò ne consegue che un bel gruzzolo è in attesa di essere ritirato. Nello stesso slancio di generosità, Ronnie dichiara che Tony e io possiamo spendere le prime cinquanta sterline del malloppo incassato. L’ambasciatore e la sua splendida moglie ci ricevono con tutti gli onori diplomatici, ci invitano a cena e ci fanno passare una magnifica serata. Ma dei soldi neppure l’ombra. Perché dovrebbe darci dei soldi, argomenta in modo affascinante il nostro esimio anfitrione, quando Ronnie gli è debitore di una piccola fortuna? A quanto pare quello che Ronnie ha mancato di dirci è che l’ambasciatore lo ha pagato in anticipo per il whisky di marca anonima e sta ancora aspettando la prima consegna. Tony e io ci scusiamo e ce ne andiamo. L’ambasciatore stava dicendo la verità? O stava frodando il suo truffatore? A quei tempi non ero abbastanza smaliziato ed esperto per formarmi un’opinione al riguardo. E continuo a non esserlo.
Il giorno dopo tentiamo di portare a buon fine la seconda commissione affidataci da Ronnie a Parigi: presentatevi come se niente fosse all’Hôtel George V, miei cari, che tra parentesi è uno dei migliori “pub” in cui avrete mai occasione di mettere piede, ordinatevi un drink al bar, spalla a spalla con alcune delle donne più belle del mondo, salutatemi affettuosamente il caro vecchio Louis – o Henri, o come diavolo si chiama il concierge capo –, rifilategli con discrezione una banconota da dieci sterline prelevata dal gruzzolo che avrete ritirato il giorno prima dall’ambasciatore panamense e riportatemi la sacca con le mazze da golf che mi tengono da parte in previsione di una mia visita successiva all’hotel. Grazie all’inflessibilità dell’ambasciatore, non abbiamo nessuna banconota da dieci sterline per Louis o Henri o come diavolo si chiama, ma se anche le avessimo avute non credo che avrebbe fatto una gran differenza. Ci presentiamo al concierge, spieghiamo la cosa, lui sbatacchia la mano su un campanello e da dietro una porta invisibile compare un direttore. “Niente mazze da golf finché il conto di vostro padre non sarà saldato.” Il direttore aggiunge in tono acido che un centinaio di serie complete di mazze da golf non basterebbe a coprire il debito. Per uno spaventoso momento sembra persino chiedersi se può sequestrare anche noi due. Ma non lo fa, o ce la diamo a gambe levate prima che ci provi, per trascorrere tre giorni senza un soldo con i clochard sul lungosenna, sbocconcellando baguette e scolando fiaschetti di un disgustoso vino rosso.
Ci furono effettivamente vittime reali, questo è il problema. Macchie rosse di sangue sul tappeto. Vere vite distrutte e cuori infranti, e qui non c’entra l’amore. Quello stesso anno Tony e io ci prodigammo per sbrigare un’altra piccola commissione per Ronnie, e a questo ricordo la vergogna è immutata. L’obiettivo stavolta non era, purtroppo, un cerimonioso ambasciatore panamense, o un agiato avvocato immobiliare, o il presunto erede di una grande fortuna in opere d’arte, bensì un’anziana coppia che abitava di fronte a noi, giusto dall’altra parte della strada, a Chalfont St Peter. Sir Eric si era ritirato da poco da una distinta carriera di funzionario statale in India e, rientrato in patria dopo una vita, era perciò estraneo alla nazione che aveva così a lungo rappresentato. Le istruzioni di Ronnie a me e a Tony, abbaiate al telefono da Londra, furono di presentarci subito a casa di Sir Eric e di dirgli che sarebbe andato tutto bene. Come, tutto bene? domandammo. “Tutto bene, perdiana! Non tentennate! Ditegli che se soffia sul fuoco rovinerà tutto. Andrà tutto bene.” L’assegno è in viaggio. Con profonda riluttanza Tony e io ci recammo a casa di Sir Eric e gentile consorte, degustammo il loro sherry e facemmo fiaccamente del nostro meglio nel garantire per l’integrità di Ronnie mentre Sir Eric e signora ci scrutavano con atterrita incredulità. “Viviamo grazie alla nostra pensione” spiegò Sir Eric, con il tono che si usa con i bambini “e grazie a un piccolo capitale ereditato da mia moglie. Abbiamo affidato tutto quello che abbiamo a vostro padre perché lo investisse.” Poi arrivò la micidiale domanda: potevamo rassicurarli che Ronnie, da tutto quel che sapevamo di lui, era degno di fiducia per quanto atteneva ai loro risparmi? Non ricordo cosa risposi. Forse non fui io a condurre la conversazione. Lo fece Tony. Attraversammo spesso la strada per recarci da loro. A volte ci andava uno di noi, a turno, a volte tutt’e due insieme, finché alla fine dicemmo a Ronnie che non ce la sentivamo più di andare da loro.
“Ha perdonato suo padre?” mi chiese il piccolo e luccicante capo del personale dell’MI5 il giorno in cui assunsi l’incarico al loro servizio.
“Oh, tanto tempo fa, signore” replicai, con il sorriso angelico di Ronnie.
E questa è un’altra cosa che ho ereditato da lui: la maschera del buon senso.
Come Ronnie ci rifilò la notizia che Olive aveva spiccato un volo notturno dalla casa in finto stile Tudor di Rickmansworth resta un mistero. Non ho alcun ricordo di pianti luttuosi tranne nella strana occasione in cui Tony e io ci ritrovammo in una situazione di particolare solitudine e per un impulso comune ci commiserammo l’un l’altro. La mia supposizione è che Ronnie, dopo la fuga di nostra madre, non annunciò tanto la sua scomparsa quanto lasciò trapelare tutt’altra spiegazione, dopo di che banalizzò la notizia e infine la trattò come acqua che passa sotto i ponti. Olive era malata: Ronnie deve averci detto almeno questo, perché da bambino andai a trovarla in un ospedale assolato, dove era a letto seduta in una corsia tutta per lei, con indosso un golf di lana d’angora. Ma Olive, interrogata anni dopo al riguardo, negò in modo assoluto di essere stata ammalata in quel periodo. E negò anche di aver mai posseduto un golf di lana d’angora: “Non avrei mai potuto comprarlo, tesoro, perché pizzi...