Primo giorno della 205esima Olimpiade
Il certame dei trombettieri non accennava a finire. Publio Aurelio, che non nutriva un debole particolare per le fanfare, sbadigliava nel suo seggio portatile, con l’occhio all’intraprendente Tullia nascosta poco lontano, accanto al fratello immusonito. A distoglierla dal suo proposito non era valsa alcuna autorità: dopo molti pianti e singhiozzi, la matrona aveva ottenuto di presenziare travestita alla parata di apertura delle Olimpiadi, dietro la promessa di celarsi in un verecondo ritiro a partire dal giorno seguente, allorché avrebbero fatto la loro comparsa gli atleti in gara, in tutta la loro balda e vigorosa nudità.
La visione di una femmina appetibile, seppure in abiti maschili, era di grande conforto ad Aurelio, come pure il cenno di complicità che Tullia gli rivolse furtivamente, approfittando di un attimo di distrazione dell’occhiuto custode.
Ma il privilegio di quel fugace sorriso non bastava da solo a sanare la iattura degli araldi, che trombeggiavano da ore a tutto spiano, con un effetto deleterio sui timpani del senatore, impedito dall’altissima dignità curiale di calzare, come la gran parte del pubblico, un cappellaccio a tesa larga, poco elegante forse, ma ottimo per riparare le orecchie.
Presto al clangore si aggiunsero le mosche, attirate a nugoli dal sangue scorso a fiumi durante le ecatombi e i sacrifici dell’inaugurazione. Quando Aurelio vide le prime agguerrite centurie ronzanti mirare al suo naso, fece segno ai flabelliferi di intervenire energicamente coi ventagli, alla faccia del rango senatoriale, dell’imperturbabilità epicurea e delle antiche tradizioni olimpiche.
«Pensi che il concerto di tube andrà avanti ancora per un bel pezzo?» chiese impaziente a Castore, che sonnecchiava beato, impermeabile all’infernale fracasso.
«Come?» domandò l’accorto greco, togliendosi i tamponi dalle orecchie. Aurelio lo guardò con stizza: certo, avrebbe potuto ordinare allo schiavo di cedergli i tappi, ma ciò sarebbe equivalso ad ammettere di non aver pensato lui stesso a quel semplice rimedio...
Preferì quindi isolare il pensiero dai musicanti per concentrarlo su un tema coinvolgente. E nulla vi era di più adatto di un succoso delitto.
A suscitare le sue perplessità era sempre il ginocchio della vittima: nessuno avrebbe potuto affrontare una corsa, un salto o il lancio del disco con un’articolazione gonfia a tal punto. Ma anche l’aggressore aveva occhi per vedere, e sapeva quindi che Salmoneo non era in grado di gareggiare. E col megarese claudicante, il concorrente che aveva la maggiore possibilità di aggiudicarsi il pentathlon era proprio Pirro: perché mai, allora, ingegnarsi a far fuori il rivale, per di più con un’arma riconoscibilissima?
C’era tuttavia un altro atleta che avrebbe tratto un grosso guadagno nel disfarsi di Salmoneo e di Pirro, l’uno ucciso, l’altro ricercato: Elettrione di Sparta, che, per tal via, diventava automaticamente il sospetto numero uno. Eppure, a ben vedere, non si potevano escludere nemmeno gli altri aspiranti alla corona del pentathlon, tutti rappresentanti delle vecchie e gloriose poleis, Elide, Sparta, Megara e la celeberrima ma decaduta Atene, ridotta a meta di pellegrini nostalgici, che vi si recavano soltanto per visitare l’Accademia, il Liceo e il Giardino di Epicuro.
Ormai da secoli, infatti, la capitale dell’Ellade era solo il prospero emporio di Corinto, e nulla più. Atene era scarsamente rappresentata nei Giochi olimpici, così come le grandi metropoli d’Oriente e l’Urbe stessa, la cui modesta delegazione era caduta sotto la falcidia spietata dei giudici, che avevano ammesso in finale soltanto Duronio di Ariminum e il piccolo Berillio di Leptis Minor. Aurelio, peraltro, sospettava che il ragazzino fosse stato selezionato apposta – assieme ad altri corridori piuttosto oscuri: Leandro di Sicione, Geronimo di Ierapetra, Melisso di Siracusa, Arpocrate di Massalia, Meneptolemo di Faro e Simonide di Curium – soltanto per garantire meglio il trionfo del bel Callimaco dai boccoli d’oro...
A un tratto il corso dei pensieri del senatore fu turbato da un chiasso assordante. Aurelio ci mise un po’ a capire che non era stato il rumore ad averlo distolto dalle sue riflessioni, bensì la sua brusca cessazione: per grazia dei Numi, il concerto degli araldi era finalmente terminato.
«Che fai, padrone, dormi?» intervenne a trarlo dalla sua feconda oziosità il fido Castore.
«Sono attentissimo» dichiarò il patrizio con totale sincerità: aveva dovuto esercitarsi a lungo in quella tecnica per frequentare regolarmente la Curia, dove la dote più apprezzata era appunto quella di sapersi svegliare al momento giusto, ovvero quando i logorroici proclami dei colleghi – tanto più lunghi quanto minore era l’effettiva importanza del relatore – volgevano al termine.
«Ho notizie poco consolanti» lo avvertì l’alessandrino. Aurelio, consapevole delle infinite risorse del segretario, evitò di chiedergli quando le avesse ottenute, visto che per gran parte del certame era rimasto immobile sugli spalti nella pace sorridente dei tappi di cera.
«Lampo è un attaccabrighe che ha già rischiato più volte l’espulsione per il suo vizio di attaccar baruffa con tutti. La pariglia di bai appartiene alla vedova di suo nonno, Ftia, una signora dal passato vivace che a un certo punto ha messo la testa a posto sposando un ricco possidente e, dopo la triste dipartita del coniuge, si è dedicata all’allevamento equino senza risparmiare né tempo né denaro. I suoi puledri, figli di una giumenta due volte vincitrice olimpica, sono frutto di un’annosa e paziente selezione» spiegò il servo mentre accompagnava il patrizio alla tenda. «Li ho visti correre, domine, e ti assicuro che parevano saette scagliate dalla mano di Zeus!»
«Gli investimenti di questa ricca kyria riguardano anche l’uso di veleno per sfibrare i cavalli altrui?» chiese Aurelio adombrato.
«Chiedilo tu alla signora. La troverai nel suo padiglione oltre l’Alfeo: non puoi sbagliarti, è più vasto del Partenone e del tempio Capitolino messi assieme. Ti avverto, però, che Ftia fa sul serio: ha già richiesto una statua commemorativa di marmo pario, da esporre subito dopo aver vinto la corona!»
«È ridicolo che le donne possano concorrere alle Olimpiadi, quando non è loro concesso di assistervi!» si stupì il senatore.
«In ossequio alla tradizione, hanno modo di conquistare per interposta persona il serto olimpico, che non spetta all’auriga, ma al proprietario della scuderia: fu così che Cinisca, sorella del re spartano Agesilao, cinse due volte l’oleastro e altrettanto la cortigiana Belastice, favorita di Tolomeo Filadelfo, re d’Egitto.»
«Quella megera di Ftia, che aspira al titolo, deve appartenere di certo all’aristocrazia elea. Sono nel giusto, Castore?»
«Infatti, domine. Sebbene di umili natali, dopo una fulminante carriera come cortigiana di lusso, è entrata per matrimonio in una delle famiglie più in vista della regione: come saprai, in Grecia le leggi consentono di sposare un’etera in disarmo, purché sia cittadina e lasci il mestiere.»
«Se la vecchia appartiene alla cosca locale, abbiamo poche speranze di contrastarla: si è già visto in qual conto tengano i giudici il sacro impegno di imparzialità reso sulle viscere di un cinghiale sacrificato.»
«Non a caso, si tratta dello stesso giuramento che pronunciò Agamennone nel restituire ad Achille la schiava Briseide, per assicurarlo di non averla sfiorata neppure con un dito...» rammentò l’alessandrino.
«I Giochi sono un covo di intrighi» considerò Publio Aurelio. «Senza dubbio parecchio denaro è già passato di mano, ma è impossibile risalire alle transazioni sulla base del solo papiro di Salmoneo.»
«Che peraltro non sei riuscito a decifrare, domine.»
«Ti sbagli, ci sono finalmente arrivato!» annunciò trionfalmente il patrizio. «La quarta lettera può essere la gamma maiuscola, che si scrive G.» Si mise poi a spiegare: «ONAG, ONAG... onagro! Così siamo di nuovo ai somari e torna in ballo il nostro amico cartaginese!».
«Deve avere una grande passione per le gare ginniche: pochi mesi or sono ha assistito anche ai Giochi Istmici, vinti dallo stesso Pirro che ora accusano di omicidio... A proposito, il corinzio e la sua vittima non soltanto si contendevano la vittoria olimpica, ma erano anche rivali in amore.»
«Dunque c’è sotto una donna!» pregustò il senatore.
«Non esattamente: siamo in Grecia, domine, e per di più in un ambiente atletico precluso alle femmine, dove il fiorire di passioni omofile è tutt’altro che raro» lo corresse Castore. «L’oggetto conteso era appunto un giovinetto. Guarda caso, si tratta proprio del nostro Riccioli d’oro, Naticuccia blanda, o Frullo di chiappe che dir si voglia. L’efebo ha tutte le caratteristiche per far perdere la testa a un amatore, e non pensare che Callimaco sia troppo giovane per queste cose. Scrive Stratone: “Di un dodicenne godo il fiore, ma se gli anni sono tredici il desiderio arde più forte...”. Suvvia, domine, non atteggiare quella faccia scura. A Roma è proibito attentare alla virtù di un ragazzo, ma qui le cose vanno diversamente: Paese che vai, usanza che trovi!»
«Ma si parla di bambini!» obiettò Publio Aurelio. Bambini liberi, si corresse mentalmente: persino nella Capitale nessuno protestava per lo sfruttamento di decine e decine di piccoli schiavi, maschi e femmine, messi a disposizione di clienti particolari nei fetidi bordelli dell’Esquilino. Molti non arrivavano nemmeno all’età adulta, sfiniti dalle sevizie, dalle malattie, dai parti prematuri: un risarcimento al lenone e di loro si perdeva anche il ricordo...
«A dire il vero, Callimaco non sembra poi tanto giovane» osservò Castore.
«Infatti mi chiedo come abbiano fatto ad ammetterlo ai “giochi puerili”.»
«Non è così strano, domine. In Grecia, dove mancano spesso documenti atti a registrare la nascita, l’attribuzione a una fascia d’età è sempre stata una faccenda spinosa: cinque secoli or sono, il re spartano Agesilao non si peritò di usare tutta la sua influenza per far iscrivere alle gare l’amante di un suo ospite persiano, già visibilmente troppo sviluppato per correre in mezzo ai paides. In teoria, oggi che il potere è detenuto dai romani maniaci di censimenti, il problema dovrebbe essere risolto, invece spetta ancora agli ellanodici decidere sull’ammissione alle gare, in base all’aspetto dell’atleta o a informazioni avute da terzi. Sull’età di Callimaco, nella fattispecie, ci sono state e ci sono tuttora parecchie contestazioni da parte degli altri concorrenti, ma Busiride stravede per lui, sicché Callimaco l’avrà di certo vinta...»
«Anche il decano! Possibile che qui nessuno se la faccia con le donne?»
«Il giudice Diagora è il cliente più assiduo dell’etera Aglaia, la stessa che hai gratificato di un ricco dono, senza averne in cambio neppure un cenno. Soltanto di affitto gli costa un patrimonio, ma il denaro sborsato non gli garantisce nemmeno i favori in esclusiva: lei si riserva due notti alla settimana per altri clienti. Ti consiglio di prenotarla, domine, visto che la stretta sorveglianza a cui il cavaliere Tulliano sottopone la sorella ha ormai vanificato i tuoi progetti galanti!»
«A proposito di età, quanti anni attribuisci a Frisso, il figlio di Ermete? Senza dubbio ha già passato da un pezzo l’età dell’efebia.»
«Finché non gli cresce la barba può restare ancora sulla piazza. Perché mai ti preme saperlo?» chiese Castore, scuro in volto.
«Semplice curiosità» affermò Aurelio. «Quel giovane mi fa uno strano effetto...»
Il segretario avvertì un forte solletico alle braccia, dove i peli gli si erano improvvisamente eretti sul bulbo, come accade quando la cute reagisce al freddo o alla paura. Un attimo dopo sentiva il seme del dubbio cadere in terra fertile e crescergli dentro alla stregua di un’erbaccia infestante.
“No, non il padrone” tentò di convincersi.
Ma poi gli sovvenne che nella stessa Roma, dove la seduzione di un adolescente libero cadeva sotto il reato di stuprum, nessuno trovava niente da ridire se un quirite altolocato si teneva in casa qualche servetto compiacente. Il nobile Silla e persino Bruto il cesaricida avevano avuto i loro favoriti, e così tutti i Cesari, con la lodevole eccezione del buon Claudio, che si atteneva scrupolosamente alle donne. Ciò che per un libero è impudicizia, per uno schiavo è dovere, diceva il proverbio: l’essenziale, per i romani, era conservare il ruolo attivo e virile che si confaceva a una schiatta di dominatori. E il senatore Publio Aurelio Stazio, sebbene infarcito di cultura greca, era romano fino all’osso: un donnaiolo impenitente, costituzionalmente incapace di resistere al fascino di una femmina, tentò di rassicurarsi il segretario.
A volte, però, la gente cambia, anche senza rendersene conto: il padrone, infatti, pareva completamente ignaro del tipo di attrazione esercitata su di lui da quella specie di fauno troppo cresciuto che rispondeva al nome di Frisso. E finché ne rimaneva inconsapevole, si poteva ancora riportarlo in carreggiata...
«Una magnifica notizia, do...