La resurrezione della carne
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La resurrezione della carne

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La resurrezione della carne

Informazioni su questo libro

Aspirante poeta, Ivan è diventato famoso per aver scritto La resurrezione della carne, una serie TV sugli zombi. La sua vita, nonostante "il successo", è una calma piatta. Vive passivamente, si lamenta del mondo con cinismo e arguzia. Conosce Giovanna, se ne innamora, e presto hanno un figlio. Ma un evento tragico e imprevisto cambia fatalmente il corso delle cose. La felicità vera, completa, appena trovata, è spazzata via in un colpo solo e Ivan si ritrova molto simile ai non morti della sua serie televisiva: "Chi è stato morso dai resuscitati diventa come loro. Agisce in automatico per il raggiungimento di un unico osceno obiettivo". La ricerca della verità sulla tragedia che gli ha sconvolto la vita lo guiderà come un'ossessione, portandolo negli ambienti più alla moda della città. Quello che scoprirà, con un catartico colpo di scena, gli aprirà una nuova consapevolezza su di sé e sul mondo. Sul Bene e sul Male. Il leader dei Baustelle, sempre più acclamato come voce poetica della musica italiana, torna in libreria con un romanzo d'amore e di dolore, ambientato in una Milano del futuro prossimo, una "Milano da mangiare" che somiglia in modo inquietante a quella di adesso. La resurrezione della carne è un libro potente, lirico, ammaliante, una storia attaccata al nostro presente come un manifesto, perduta nel tempo come una favola.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804643845
eBook ISBN
9788852065781

PARTE PRIMA

1

Tutto mio: il loft di duecento metri quadri in Nuova Bovisa, la macchina ibrida quattro per quattro, i libri d’arte, le tele di giovani pittori quotati, i piccoli vizi, gli oggetti di design. Tutto mio. Guadagnato con poca fatica per un simple twist of fate.
Quando Dawn of the Dead di George A. Romero, titolo italiano Zombi, esce nelle sale è il 1978, io ho quattro anni e mia madre è ancora viva. Il film è un grande successo. Per sfruttare il momento e la moda, il produttore Ugo Tucci contatta Dardano Sacchetti, che è uno in gamba, gli consegna un numero di “Tex Willer” in cui Tex combatte contro i morti viventi e gli commissiona una storia che mescoli il tono avventuroso del fumetto col film di Romero. Sacchetti scrive soggetto e sceneggiatura insieme alla moglie Elisa e la regia viene affidata, dopo due o tre rifiuti da parte di nomi importanti che ritengono il progetto una cazzata, a un professionista non più tanto giovane che se la passa piuttosto male. Lucio Fulci, il “terrorista dei generi”, come lo chiameranno i posteri, ha girato con esiti commerciali modesti Totò, Franco e Ciccio, western e gialli. Zombi 2, invece, il primo vero splatter italiano, sbanca al botteghino. “Finalmente l’orrore torna sotto il segno del fantastico e si tinge di sangue, tantissimo sangue” scrive Manuel Cavenaghi in Cripte e incubi. Dizionario dei film horror italiani. E così, col film di Sacchetti, il terrorista Fulci paga i debiti e scongiura la depressione.
Ricordo: 1) mio padre che andò a vederlo da solo al cinema e tornò a casa raccontando disgustato di essere uscito dalla sala a fine del primo tempo; 2) il pomeriggio di due anni fa in cui l’ho visto su YouTube. Non mi è piaciuto e non mi ha suscitato nessuna emozione particolare. Qualche giorno dopo, però, osservando i capelli prossimi alla decomposizione di una signora anziana che giocava al videopoker in un bar, mi sono chiesto: come sarebbe Milano con i morti viventi (quelli veri, famelici e verminosi, s’intende)?
Quando sono tornato a casa ho scritto tre righe al computer, queste: “Senza nessuna ragione, i morti del Cimitero Monumentale escono dalle tombe e invadono, assetati di carne, la città. Tutti, i morti famosi (Manzoni, Boito, Cattaneo, Hayez, don Giussani) e quelli senza nome”.
Che follia. Un’idea copia di una copia di una copia. Romero ha copiato le leggende voodoo, Sacchetti ha copiato Romero, The Walking Dead ha copiato tutti. Ma il mondo funziona così, le tre righe ormai le avevo scritte e le ho fatte girare. In fondo non mi costava niente.
Corrispondenze, coincidenze, emergenze. Fulci fu pagato sei milioni di lire per girare un film di zombi. Io sono diventato ricco per aver scritto il soggetto della Resurrezione della carne, la prima serie di zombi prodotta in Italia. L’incubo di Fulci comincia a Matul, un’isoletta dei Caraibi; il mio nel cimitero più antico di Milano, un pomeriggio di agosto. Fulci è morto povero e arrabbiato, io sono vivo e sono l’idolo del momento.
Corrispondenze, coincidenze, divergenze. Milano, sei terra, aria, gente, carne, cemento, macchine, velocità, Esposizione universale, cambiamento, ossigeno e veleno. Milano, la tua putrefazione è inodore: ti respiro ogni giorno, ti tocco e, fingendo indifferenza, ti amo. Matul, sei la fonte della decomposizione, puzzi. Matul, non esisti. Matul immaginaria. Matul, nessun segno sull’atlante. Matul, sei lontana e sei l’inizio di tutto.

2

Al Lucky ci vengo sempre per ciò che manca, non per quel che c’è. Cerco l’assenza. In questo bar anonimo sono assenti il caffè non bruciato, la brioche senza grassi idrogenati, l’atmosfera accogliente. Il volume della radio è spesso molto alto, le slot-machine tintinnano, e i ragazzi cinesi con nomi italiani che stanno dietro il bancone non sono né gentili né scortesi. Sono a mio agio qui, in questo vuoto pneumatico di poesia.
Ordino un caffè macchiato e un croissant, mi siedo a un tavolino di plastica, apro il giornale. Cerco di leggere i titoli senza concentrarmi troppo, mantenendo vivo lo stordimento mattutino.
Fuori il sole comincia a riscaldare ogni cosa; sale il solito asettico buonumore e lentamente, con imbarazzo, realizzo di star bene (“Io sto bene, che vergogna” scrisse Luporini, geniale).
Dalle casse si diffonde nel bar una voce femminile, bella, appassionata, intonata: “Ogni storia che non sai, ti scorre sulla pelle” canta, “come se l’amore è dentro te, un fiume dentro te”.
“Come se l’amore è dentro te.” Gli idilli si rompono: li spezza la violenza, la noncuranza, il caso, il mancato congiuntivo. Il modo è in estinzione, si sa, ed è giusto che sia così, è stupido lottare contro i mulini del cambiamento. Ora non riesco più a leggere senza leggere. Mi incazzo, e la giornata comincia senza filtro.
Ricordo nitidamente, nonostante mi sforzi di dimenticare, un mattino in cui, terminata la lezione all’università, mi incontrai con Fausta. Avevamo appuntamento al mercato comunale di quella che ai tempi era ancora piazza Wagner, e che oggi si chiama piazza della Bellezza.
Uscito dalla metropolitana, mi appoggiai a un lampione, felice. Mi accesi una sigaretta, per passare il tempo. Tutto mi sembrava bellissimo. I fiori dei fiorai, i fruttivendoli, il traffico, i semafori, i tubi di scappamento. Un’anziana con un cagnolino al guinzaglio e la pelliccia al collo notò il mio sorriso coglione regalato senza motivo al monossido e al freddo, e mi sorrise di rimando. Un vecchio col basco, invece, mi guardò e, pensandomi inebetito da misteriose droghe allucinogene, biascicò fra sé: «Alegher, alegher, che ’l bus del cul l’è negher». Poi Fausta sbucò dal ventre della metropolitana, bellissima anche lei, come ogni cosa viva o inanimata che mi circondava, coi suoi ricci inestricabili di Medusa, col suo giubbotto di camoscio e gli orecchini indiani con la faccia di Shiva. «Allora, è vero?» «Certo che è vero.» Mi afferrò il collo e mi baciò la bocca. «Dobbiamo festeggiare.»
A Franco Loi le mie poesie erano piaciute tanto. Mi aveva fatto i complimenti. A Fausta le leggevo dopo aver fatto l’amore, mentre mi accarezzava la nuca. Diceva: «Se diventerai famoso, che ne so, un poeta o uno scrittore, mi vorrai ancora bene?». «Certo, scema. Ma non diventerò mai famoso.» «Perché? Che ne sai, scusa?» «L’hai mai visto un poeta di successo di venticinque anni? Vivente, s’intende.» Piacquero anche a Lazzerini, il mio professore di Letteratura contemporanea. E a Franchi di Beato Colle Editore, che decise di pubblicarle su raccomandazione di Loi. Questo succedeva, quel mattino: avevo appena dato la notizia, con un pizzico di orgoglio, alla mia ragazza. «Quanto sei bella, istrice. Stupida ma bella.» Lei mi mollò un calcio in uno stinco, ma di quelli amorosi. Io lanciai il mozzicone acceso in un tombino, come si lancia un giavellotto o una sfida, al mondo e agli dèi.

3

Escono grugnendo dai locali affacciati sulla via, gli uomini che uomini non sono più. I nostri occhi, ovvero il drone che vola alto venti metri sopra la strada, sono il punto di vista di Dio HD. Fuori da un pub la gente scappa in preda al panico. Qualcuno scivola sull’asfalto bagnato dalle birre rovesciate dai post-hipster, qualcun altro vomita per la paura. I morti viventi si riversano in strada spinti dalla fame. Il loro obiettivo è mangiare. Ogni tanto si fermano, a respirare, si direbbe; il volto è cera che ha iniziato a liquefarsi, la bocca, nel caso abbiano già trovato qualcosa da sbranare, è insanguinata. Poi latrano e riprendono a inseguire la carne; si muovono veloci, come i vivi.
Perché mai gli zombi dovrebbero essere lenti? Lo sono sempre stati perché così li hanno scritti. Io ho rubato l’idea a un film di Umberto Lenzi, Incubo sulla città contaminata, e ho fatto viventi morti ma velocissimi, coordinati nei movimenti, rabbiosi e implacabili. In questa puntata affondano i denti nella carne dei frequentatori della movida del Fuori Salone e ne fanno scempio. Le macchine volanti degli americani, che hanno ormai sostituito dolly ed elicotteri, le abbiamo anche noi qui, nel nostro piccolo, per La resurrezione della carne. Stiamo per girare la scena più difficile di oggi: il drone dovrà piombare a picco sulla strada e la macchina da presa dovrà passare dal campo lungo al primo piano. C’è un po’ di tensione nella troupe. Le segretarie di edizione guardano preoccupate il cielo. Davide Fei è un regista giovane ma molto bravo, l’ha dimostrato con la prima serie; gli occhi fissi sul piccolo monitor, se la gode come un bambino al luna park. Il drone sibila tagliando l’aria, e con una planata vertiginosa avvicina lo sguardo dello spettatore a quello della ragazza sconvolta, in lacrime e jeans. La picchiata radiocomandata è riuscita. Ora avremo un secondo di tempo per leggere il terrore, in quello sguardo di preda, e poi, a postproduzione finita, vedremo una mano malata entrare in campo da sinistra e sprofondare nel collo della comparsa. Effetti speciali digitali della SDI, make-up di Sergio Stivaletti, veterano del lattice e del sangue finto: l’orrore di questa fiction è per metà digitale e per metà analogico. Mettersi in competizione con le produzioni estere è stato un azzardo, ma per poter avere una minima speranza di successo non c’era altra scelta. Nell’horror, a cui in Italia non credeva più nessuno, gli effetti sono fondamentali, non puoi più permetterti di spalmare di fango la faccia degli attori e inquadrare qualche larva di mosca. Devi essere credibile, perché nella nostra società l’immagine della morte è ormai comunicata quotidianamente. La produzione ha dato per scontato che lo spettatore, pur non avendo mai profanato tombe o esaminato un cadavere decomposto, abbia almeno intravisto qualche fotogramma di The Walking Dead e Western Flesh Eaters. E lì make-up e special effects sono straordinari, migliori di quelli del cinema. Noi non siamo proprio a quei livelli, ma ci avviciniamo con dignità. Davide dà lo stop, viene annunciata una pausa di un’ora.
Poco dopo sono davanti al cinema Mexico con Marco Campi, sceneggiatore, e con la sua nuova fidanzata, Maria, una siciliana molto somigliante alla ragazza a cui lo zombi poco fa ha squarciato la gola. Marco abbozza un sorrisetto sardonico. «Non sarà troppo sadico girare il massacro dei poveracci che vanno agli eventi del Fuori Salone?» «Mi pare il minimo» faccio io. «Boh. In fondo è una cosa bella della città, e noi la distruggiamo. Gli spettatori capiranno che c’è un tentativo di critica sociale...» dice lui con aria preoccupata. «Alcuni, soltanto alcuni» lo rassicuro. «Sì, sì, ma la mia intenzione, e ne abbiamo discusso tante volte, era tenerla al minimo, la critica sociale.» Marco ha ragione: la nostra serie è cattiva. Però non sono d’accordo sui “poveracci”. I poveracci sarebbero le orde di cristiani che per una settimana di fila, dalle sei di sera fino a notte, si accalcano nei luoghi in cui si brinda al design, cercando disperatamente di essere parte di qualcosa di più alto di loro – una messa, un rave, il mito, la celebrità, la gloria – intasando il traffico e impedendo, per esempio, al piccolo film indipendente in programmazione al Mexico di raccogliere l’incasso minimo per aumentare la distribuzione nelle sale. Quelli se lo meritano, di essere attaccati dai morti. Certa gente deve essere sbranata. È una visione che ho sempre avuto, e il sogno per una volta si avvera, cazzo. E i falsi giovani, i giovani di trent’anni che hanno studiato Architettura ma si intuisce che sono mantenuti dai padri, ragazzi con borsette da donna sottobraccio, pantaloni rovesciati, magliette usurate ad arte, barbe, tatuaggi e chignon, che passeggiano, bevono e commentano, che vanno senza andare da nessuna parte, ebbene, facciamo sbranare anche loro. E in fondo io e te, caro Marco, annoiati con una flûte in mano a guardare da fuori il design norvegese con velato imbarazzo, non saremmo anche noi da sacrificare? Non si può non essere sadici. Se siamo diventati così stupidi, ogni strage è giustificata. «Satelles i, ferrum rape, / perfunde cunas sanguine»: cito Prudenzio per dare più enfasi alla mia tesi nichilista. Maria mi guarda divertita, mi dà dello snob. Ha ragione, sacrosanta, io sono uno snob, e lei è sexy, è giovane, è una di quelle che potrebbero fare le modelle ma invece si occupano di arte e cose serie; viene dalla Sicilia ad amare Marco e a godere la vita qui a Milano. «Andiamo tutti a berci una cosa?» Ma sì, andiamo. Una poesia che avevo scritto tanti anni fa parlava di quanto sia sbagliata l’espressione “bere per dimenticare”, nel senso che le cose sbiadiscono da sole, senza bisogno di aiuti chimici. Vorrei ricordare almeno l’attacco, per fare una battuta e impressionare di nuovo Maria, ma non ci riesco. Allora, mentre ci incamminiamo verso il bar, comincio a parlare, con spocchia insopportabile, del collettivo di artisti palermitani chiamato Laboratorio Mistico Moderno. Lei mi rivela che li conosce personalmente, uno a uno, e che è stata fidanzata con almeno due di loro. Fa caldo, la primavera è in piena attività. Io vorrei essere altrove, un altrove qualsiasi, e poterlo ricordare per sempre.
Il Capetown è affollato, via dei Continenti è chiusa al traffico per le riprese, il Fuori Salone e i lavori che riporteranno – non ho ancora capito perché – la Darsena al suo stato preristrutturazione Expo. Scoliamo i nostri bicchieri di vino bianco fruttato. Marco legge un messaggino sullo smartphone. Alza lo sguardo e ci avverte che la pausa è finita. Lui vuole tornare sul set, io e Maria invece decidiamo di rimanere e ordiniamo altri bicchieri. Mangiamo delle patatine, dei triangolini di mais e delle tartine, ma non abbastanza da arginare una pericolosa sbornia. Maria parla e parla, benedetta ragazza, raffica di mitraglia. Interrompe la storia della sua vita raccontata a folle velocità solo per ridere. Rumorosa ma elegante. Poi si toglie la giacca di pelle, perché fa troppo caldo, e mi lascia intravedere la forma del suo seno perfetto. A sorpresa mi chiede di me, vuole sapere qualcosa del mio passato, vuole che racconti io, adesso. «Il mio passato è l’unica cosa buona che abbia fatto in vita mia, ma per l’appunto è così passato che non me lo ricordo più.» Sorride. «Non te lo ricordi o non lo vuoi ricordare?» «No, giuro, non me lo ricordo.» «Marco mi ha detto che sei una persona colta e sensibile, e che sei appassionato di poesia, e io credo a tutto quello che dice Marco.» «Non dovresti credere a nessuno. Anzi, dovresti credere a tutti, ma al dieci per cento.» Riesce a farmi confessare di aver pubblicato una raccolta di poesie. «Non te ne devi vergognare, è una cosa bellissima. Dà più valore al lavoro che fai adesso, a ciò che sei diventato. Anche io ne scrivo qualcuna, ogni tanto.» Le sorrido, per cortesia; so perfettamente che lei ricorda a memoria tutte quelle che ha scritto. Per scongiurare il pericolo che me ne reciti con enfasi qualcuna, mi butto su Montale: «Tu non ricordi la casa dei doganieri / sul rialzo a strapiombo sulla scogliera». Lei mi ascolta sognante. E io: «È giusto che io non ricordi nulla delle mie poesie se c’è qualcuno che ha scritto parole come queste. Se mai sarò ricordato, sarà per La resurrezione. Credimi, è molto meglio così».
D’improvviso Maria mi prende la mano. «Vieni, andiamocene» dice, e mi strappa dalla sedia. Lascio cinquanta euro sul tavolo e scappiamo. Dal taxi, stordito, guardo verso i tavoli fuori dal locale. Una cameriera ci osserva, immobile, malinconica, con un vassoio in mano. Riesco a incrociare il suo sguardo. L’alcol me la fa sembrare pura e irreale. Vorrei che nessuno zombi la toccasse mai, vorrei chiederle come si chiama. È una giovane madonna, aspetta le ordinazioni e mi guarda mentre vado via. Sul sedile posteriore del taxi, Maria mi prende la faccia tra le mani e mi bacia sulla bocca. «Andiamo al mio hotel. Ti va di fare l’amore?» «Ma tu e Marco?» chiedo. «Non siamo mica fidanzati. Siamo andati a letto insieme due volte. Ti piaccio un po’?» Sono ubriaco, vorrei dirle “Guarda lasciamo perdere”. Vorrei chiederle se ha visto anche lei la Madonna del Capetown. Invece mi metto a ridere come un cretino e non oppongo resistenza. Per l’ennesima volta, senza obiezioni e senza cena, vado a farmi violentare.

4

A Milano, dicono, la bellezza è nascosta. È sempre stato così, anche prima dell’Esposizione universale. Siccome non si offre platealmente e non incanta subito, va scoperta piano piano e poi assaporata. Milano non è Roma, non ne ha le cicatrici monumentali, né l’aria e lo spazio. Milano non ha la grandiosità del Colosseo, ha il pudore della Pinacoteca di Brera: Milano non dà pugni allo stomaco. Bisogna entrare nei cortili delle case private (da Manzoni in giù, nella scala della celebrità), sbirciare oltre le inferriate dei giardini e scoprire eleganze inaspettate, decorazioni, affreschi, bassorilievi eseguiti da anonimi del Settecento, pavoni e fenicotteri rosa. Quand’ero piccolo, nelle domeniche di primavera passeggiavamo lungo corso Venezia, oggi via della Comunicazione; mio padre deviava su via Cappuccini e io lo seguivo zitto; giunti davanti al cancello del giardino di Palazzo Invernizzi mi diceva: «Vai, Ivan, guarda dentro. Chi cerca trova». E io, con la testa fra le sbarre di ferro di due secoli prima, cercavo di fotografare i fenicotteri con gli occhi. Fenicotteri alieni, scoperti da altri. Tutte le meraviglie di questa città mi sono state tramandate. Da mio padre, dai vecchi, dai morti.
Io non ho mai davvero scoperto niente da solo. E in fondo scoprire neanche mi interessa così tanto. Chi ha più il tempo e la voglia di farlo, oggi? La maggior parte degli abitanti di questa città non si può più permettere assaggi da gourmet, li finge soltanto. Vive lo spazio metropolitano in maniera brutale, usa e getta. Non ha tempo per entrare a Sant’Eustorgio e stillarne con gli occhi le linee romaniche, non ha tempo per prenotare una visita al Cenacolo (nessuno dei miei amici, anche quelli colti e preparati, l’ha mai visto, tant’è che qualcuno ha elaborato una teoria secondo la quale il capolavoro leonardiano non è mai stato dipinto); nessuno ha più tempo per svicolare da corso America, lasciandosi alle spalle lo shopping, per entrare in piazza Steve Jobs e poi nella chiesa di Sant’Alessandro, dove il pulpito e i confessionali ricoperti di pietre dure intagliate nel 1661 da Carlo Garavaglia aspettano silenziosi, fra una funzione e l’altra. Nessuno ha più tempo di degustare il museo di Storia naturale, perché sono tutti impegnati in pause pranzo alternative nei bar o sull’erba del parco Energie per la Vita, indaffarati in picnic improvvisati, a far finta di ignorare il lavoro (di cui poi finiscono inevitabilmente per parlare) mentre danno morsi frettolosi a un sushirrito, due forchettate all’insalatona fiori eduli e tonno abbattuto e sorsate furtive come sveltine a bevande gassate non dietetiche. Peccato, perché il museo è ancora bello. Bello come le cose nascoste, buie e impolverate, gratis e abbandonate. Dentro, ordinati in un percorso avventuroso, ci sono i mostri, gli scheletri, i diorami e le cose che incantano. Antonio Riccardi ha scritto: “Nel diorama non c’è né prima né dopo / ma solo il culmine delle vite esemplari / di certe piante, di certi animali”. Il tempo là dentro è cristallizzato: il visitatore, se visitasse, si meraviglierebbe, vedrebbe se stesso rappresentato in una teca, ricostruito e fissato in aeternum. Non rimane che ammettere che una bellezza del genere, in questo tempo che non ha tempo, è sprecata. Roma la Grande bellezza di Paolo Sorrentino, Roma la Roma di Federico Fellini, la decadente, la maestosa, la monumentale, la ladrona, la sciantosa, rimane la più fuori moda fra le due contendenti, ma allo stesso tempo la più moderna. Disperato, posso camminare per Roma e da un lampo estetico subito lasciarmi sorprendere, cullare ed estasiare: gratis, senza fatica.
Il corpo nudo di Maria: gratis, senza fatica, steso sul letto accanto a me. Un corpo di donna che dorme in pace dopo l’amore, giace supino come il monumento funebre a Ilaria del Carretto nella cattedrale di San Martino a Lucca. Quel corpo bellissimo non mi dice niente, e l’anima non ha rapito la mia. Mi sforzo di compiere almeno un piccolo gesto di tenerezza. Una comunicazione a senso unico, di ringraziamento, per l’org...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La resurrezione della carne
  4. Prologo
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. Epilogo
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright