L’Apocalisse! Quando Oriana Fallaci intitolò così il suo ultimo libro, risero di lei. Me li ricordo benissimo: «adesso-fa-pure-la-profetessa», piegavano il labbruccio con un po’ di schifo. Fate schifo voi: se creperemo come idioti, sarà merito dell’aria fetida di violette marce di buonismo, della strategia della mano fiduciosa, offrendo pace, mentre quelli vogliono solo il nostro collo. Dietro gli esperti in salamelecchi (salam = pace), vengono i profondi conoscitori della giugulare e della carotide.
E non facciano finta, i signori dal bel birignao, di guardarsi in giro per scoprire a chi alludo. Alludo a te, il nome dattelo da solo, italiano delle élite da mostra e da biennale e triennale, cineforum e «Repubblica delle idee», festival della filosofia e applausi a Dario Fo, sventolando i libri pacifisti di Tiziano Terzani vestito da santone contro la rabbia di lei, Oriana, con il guru dalla gran barba bianca che si scioglieva delicatamente nella morte accettando di disperdere la sua scintilla nell’effluvio universale, e lei che invece le si ribellava, si teneva stretta ostinatamente alla vita, con il cappellino e la sigaretta, maledicendo l’Alieno, il suo fottutissimo tumore.
Parlo per te, che adori i ponti per Baghdad, sospiri di invidia per chi ci va per essere sequestrato e riscattato, perché si fa così, e si fanno marce perché si ceda, meglio musulmani che morti, in fondo una religione vale l’altra, poveri pirla che leggono Ben Jelloun e pensano siano tutti così, gente profonda ma che va bene anche per un aperitivo.
Mi rendo conto che l’incazzatura mi fa scivolare nel teatro con il dito puntato. Di certo non perdono quanti hanno lasciato Oriana in balìa del linciaggio con le olivette del bel mondo da terza pagina, e poi la sua effigie calpestata, insultata in ogni piazza, corteo, dibattito televisivo, e che fosse chiamata in tribunale a rendere conto di odio razziale. Proprio così. Ci invadono, hanno il proposito di conquistarci, e noi che si fa? Si processa la Fallaci, con il cancro incorporato ormai più grande di lei, per incitazione all’odio.
Ha scritto L’Apocalisse, vedeva più lontano di tutti gli altri. Ricordo che dopo le reazioni scandalizzate, per il boom di vendite e di consensi tra la brava gente che aveva capito al volo la minaccia, i chierici del pensiero debole optarono per il silenzio indifferente. Giornaloni e televisioni decisero che fosse morta prima del tempo. Anche il «Corriere» faceva così; la Rizzoli pubblicava il libro, una notizia, poi quel macigno scagliato dalla Fallaci veniva legato e impacchettato. Si lasciava che quei volumi circolassero in un mondo vastissimo, milioni e milioni di lettori, i quali lo gustavano, si lasciavano catturare dal ritmo coincidente con le tesi, tesi da paura, e lingua da rotolarvisi dentro tanto era bella, e dava forza. Paura e forza. Proprio come Cassandra, voleva far paura non perché si crepasse male, ma per giocarcela, rispondendo colpo su colpo, disposti a morirci, ma non a testa china. Lei, sul destino finale, improvvisamente vide qualche luce. Nell’Apocalisse ci diede per spacciati. Poi incontrò «Ratzinger», gli piaceva chiamarlo così, uno scrittore come lei, con cui fumarsi una sigaretta, come in effetti fece a Castel Gandolfo. E sentì uno strano conforto. Gli parve che un papa e un’«atea-cristiana» come lei, alleati potessero radunare un esercito di milioni di resistenti almeno nella testa, e con la paura blu di vedersi portar via le nostre chiese, le nostre croci e pure le nostre minigonne; la paura che è la giusta forma del coraggio quando devi recitare la parte definitiva.
Invece, intorno, che desolazione, quanta disponibilità a lasciarsi invadere, convinti che almeno gli attici in centro, se inviti lo sceicco giusto, saranno preservati. Quanta viltà travestita da buon senso, motivata dalla pretesa di vivere a ogni costo, senza sapere che questo voler salvare la ghirba a qualsiasi prezzo, anche quello del tradimento e della perdita della dignità , produce un’anemia organica che consentirà all’Arcinemico di far rotolare con facilità teste e libertà . Oriana l’ha vista bene in azione:
Nessuno può negare che in Europa e soprattutto in Italia il Male venga presentato con due pesi e due misure. Nessuno può negare che pei nemici dell’Occidente i nostri media avanzino sempre qualche giustificazione. Nessuno può negare che le nequizie islamiche siano sempre accompagnate da qualche silenzio o da qualche ma, qualche però. E la risposta al mio interrogativo è proprio il cancro incurabile del nuovo nazifascismo, del nuovo bolscevismo, del nuovo collaborazionismo. Soprattutto il collaborazionismo di coloro che berciano o scrivono sui muri «Dieci-cento-mille-Nassiriya». Che sui siti Internet chiedono «Dieci Euro per la Resistenza Irachena». Che durante i loro cortei bruciano le automobili e spaccano le vetrine dei McDonald’s. Che nei loro comizi definiscono Bush un criminale, un boia, un assassino da consegnare alla Corte dell’Aja. Il collaborazionismo, insomma, d’una Sinistra che le bandiere rosse le ha sostituite con le bandiere arcobaleno. E che le bandiere arcobaleno le sventola solo a favore dell’Islam. Il collaborazionismo, infine, di coloro che in buona fede gli si accodano. Oppure si tappano gli occhi, gli orecchi, la bocca, e tacciono per viltà .
Si tappano gli occhi, ma pretendono anche che nessuno cerchi di aprirli e farli aprire. Così noi-della-Fallaci eravamo tanti ma non esistevamo, un po’ come il samizdat, l’autoeditoria clandestina dell’Unione Sovietica. Un mondo sott’acqua, un esercito di pesci, aprivamo la bocca ma non saliva alcun suono alla superficie, solo bollicine. Però quella voce l’abbiamo infilata in una bottiglia, come ho visto fare in un film o era un cartone animato. E questo libro vuole essere l’eco di quel grido, che non si è perduto, non è stato seppellito al Cimitero degli Allori con Oriana. Non c’è bisogno che mi svegli più di notte, come vedi agisco.
Agivo anche allora. Io andavo in televisione, scrivevo su «Libero» e facevo scrivere di lei; organizzai la raccolta di 70.000 firme autenticate per chiederne la nomina a senatore a vita, figuriamoci. Ma serviva a graffiare le mani candide del poterazzo romano, per dare un po’ fastidio e impedire il silenzio totalitario, tenere acceso il lucignolo fumigante. Robetta, la mia. Quella di Oriana, anche presa a cucchiaini, faceva resuscitare la brava gente. Amplificavo qualsiasi testo di conferenza, traduzione di intervista in Polonia o in America, fosse battuta a macchina e strabattuta a macchina.
Perfezionista sempre: anche nelle prose di guerra mentre la casa brucia, la virgola per Oriana valeva più di cento bombe. Pensai bene, d’accordo con lei, di aprire anche una finestra quotidiana sulla prima pagina di «Libero» facendo intervenire politici e professori, anche di opinioni opposte, uno favorevole e uno contrario alle tesi di Oriana, purché quel tema lì, l’Apocalisse e il Mostro musulmano, non fosse soffocato nelle cantine della Repubblica italiana e della società amorfa comandata dai maître à penser in flanella. Lei era d’accordo anche nell’impegno a tollerare i disaccordi, come no? Figuriamoci se altrimenti mi cimentavo nella raccolta di pareri talvolta ostili. Non sono mica matto. Ma poi non resisteva, e mi beccavo i suoi insulti, anche per lettera. Ora lo ammetto: sbagliavo, non a ospitare i suoi critici, ma a lasciarli dire senza reagire sbugiardandoli. Una cosa la scatenava come una furia: il gioco sul suo cognome. Vi vedeva uno sfregio che sfiorava la sua guancia ma tagliava la faccia a suo padre e risaliva a insolentire i suoi avi, fino al Trecento e ancora più indietro.
Oriana strapazzò con quattro colpi di Olivetti Armando Plebe, un pacifico filosofo di destra, di origini però fasciste e, come spesso capita ai fascisti, filomusulmano. Ma il povero Plebe, persona mite, non sapeva quel che faceva, era convinto si potesse scherzare sulle cose sacre, com’è il nome, che è la storia e la stirpe. Invece capì tutto benissimo e si espresse da vero campione di vigliaccheria uno molto in alto, Carlo Azeglio Ciampi. Da capo dello Stato disse: «Uomini e nazioni stanno cercando risposte adeguate. Il comune obiettivo è la pace, una pace vera, frutto di leale collaborazione nell’affrontare i problemi del mondo, non di ambiguità e di fallaci impegni». Ovvio che parlava di lei. Ma ebbe l’accortezza di alludere e basta. Lei capì e rispose: «Per carità anzi pietà di Patria sorvolo su quelle [sevizie] compiute dai numi dell’Olimpo Costituzionale che in pubblici discorsi si sono squallidamente abbassati a usare il mio cognome come aggettivo spregiativo, cioè fallaci-inganni, fallaci-illusioni».
Ora Ciampi è infermo e mi spiace, ma perché si comportò così non riesco a capirlo. Non una parola su chi trascinava in tribunale una grande donna, ma parole scagliate addosso a quella donna? Che cosa siamo diventati, se il garante dell’unità della nazione abbandona al pestaggio chi difende il cuore della Patria? «Pietà di Patria.» In realtà , tutto il mondo comme il faut aveva questa capacità di costituirsi in falange per bastonarla in squadra, però avendo l’avvertenza di involtolare il manganello e la spranga nelle pezze di cotone per non fare rumore, alla fine senza neanche più darle la soddisfazione di nominarla. Cantanti con il cappellino figo e Alti Papaveri e Alti Pennacchi dello Stato impegnati a dileggiare l’Innominata molto fallace, invece che dar retta al suo grido, almeno un secondo: «Troia brucia, Troia brucia». Jovanotti, il cantore di una vita ridotta a sorbetti di albicocche ma di sinistra, la canzonò con una filastrocca vigliacca: «La giornalista scrittrice che ama la guerra / perché le ricorda quando era giovane e bella».
Non ama la guerra, ama la vita, e dà guerra a chi la vuole annientare, perché senza libertà non è neanche vita. Ho usato il presente: mi capita di dimenticarlo, ma è morta. Il suo grido meglio di no. Sono qui apposta. Riecheggia persino, finalmente, come pensiero colto in tutto quel gran mondo di pescecani azzimati, da premio letterario e da medaglia d’oro della cultura. Ovvio: senza nominarla.
Prima pagina della «Repubblica», del 16 marzo 2015. Titoletto a un’inchiesta di tale Graeme Wood: Che cosa vuole l’Is (e come finirà ). Non lo dicono in prima, forse per non far vedere il plagio. Due paginate dentro hanno questo titolo cubitale: Dall’Islam all’Apocalisse. Ma va? Finirà con l’Apocalisse. Ma meglio non dirlo, scandendolo in prima pagina. Meglio non spiegare che questa parola tremenda la pronunciò Oriana Fallaci e diede titolo a un libro trattato come un cattivo romanzo undici anni prima. Undici anni buttati via. Undici anni di lavoro per il Mostro.
Scrive Oriana:
Voglio essere tra quelli che muoiono senza avere mai avuto sulla fronte e sulla mano il marchio della servitù o della complicità . Lo conosce, no, il bel passaggio dove l’evangelista Giovanni racconta queste cose? «Allora vidi scendere dal cielo un angelo che teneva in pugno la chiave del mondo sotterraneo e una lunga catena. E l’Angelo afferrò il Mostro, lo gettò in quel mondo, con la chiave ne chiuse l’entrata. La sigillò sopra di lui affinché non potesse ingannare più nessuno. Poi, seduti sul trono, vidi coloro a cui Dio aveva chiesto di giudicare i servi del Mostro, i complici del Mostro. Erano le anime dei decapitati, quei giudici, le anime delle persone uccise dal Mostro perché s’erano messe dalla parte del Bene. Erano anche le anime di coloro che ai piedi del Mostro non s’erano mai inginocchiati, che al Mostro non avevano mai eretto statue, e che quindi non avevano mai avuto il marchio sulla fronte e sulla mano. E quei morti tornarono in vita, vissero per mille anni.»
Non piegarsi al male, non essere servi, piuttosto farsi decapitare. Ma meglio ancora impedire che quel Mostro avanzi divorandoci. Ovvio: è il Nemico mortale.
Non è vero che l’abbiamo creato noi: ha il Dna dell’islam più puro e antico. Ma gli abbiamo fornito noi l’utero in comodato gratuito, grazie a guerre idiote che hanno determinato l’habitat perfetto per la resurrezione del Califfato dalla polvere dov’era stato sepolto da Kemal Atatürk nel marzo 1924. Abbiamo fornito armi e addestrato guerrieri musulmani, che quando hanno avuto notizia che fosse tornato alla luce il «Signore dei credenti», con il nome di al-Baghdadi, hanno girato contro di noi la loro abilità e i loro razzi, con quel sovrappiù di crudeltà che viene dalla mistica. Alla malora. E adesso siamo ancora qui a gingillarci, a cercare presunti nostri alleati islamici che hanno come ideale la sharia, però si accontentano di volercela imporre per via legale, impiccandoci alla corda della nostra democrazia e del nostro lassismo, come racconta Michel Houellebecq in Sottomissione. Qualcuno lo accusa di essere eccessivo, di trattare i nostri musulmani poveri e oppressi come futuri padroni, con il risultato di metterci in guardia.
Sopravvalutano la nostra attuale stirpe occidentale. Quasi che di fronte alla prospettiva di islamizzarsi, la gente si organizzi per resistere. Figuriamoci. Sarò controcorrente, ma quel romanzo mi spaventa perché tende a spegnere la paura, a illustrare un mondo in fondo sereno, islamico ma piacente, ordinato, con la possibilità di assecondare istinti goderecci a un costo modesto.
Per questo accogliamo festosamente e da creduloni le dichiarazioni di avversità al terrorismo dei vari imam, oggi persino incravattati e senza tosoni al mento; autorizzano anche ragazze velate a esibire la loro voce. Dimenticano che la sharia, la purissima sharia che sta vincendo grazie al Califfo, è fatta di crocifissioni, amputazioni, lapidazioni. Totale dispotismo teocratico. Non abbiamo abbastanza paura: alla fine pensiamo che alla peggio ci arrendiamo e ci adattiamo, che lo stellone italiano ammorbidirà il Signore dei credenti, che unisce potere religioso e civile. Che i napoletani suoneranno il mandolino, e via. Mandolini? Vietati. Fumo? Vietato. Sarà contento Umberto Veronesi per dieci minuti. Poi, quando gli toglieranno il bicchiere di rosso, si lamenterà anche lui. È una teocrazia. E oggi ha anche la sua massima espressione nel totalitarismo globale della bandiera nera. Ma non abbiamo abbastanza paura. Pensiamo che sottomettendoci ce la caveremo. O magari che saranno immuni dal virus della jihad se, invece di lasciarli bighellonare, offriremo ai figli di prima, seconda o terza generazione dei maghrebini e dei pachistani le «tecnicalità », le famose tre «i» di Berlusconi: inglese, impresa, informatica. Illusione, dolce chimera. Useranno le tre «i» per sottometterci meglio. Il cardinale Giacomo Biffi sostiene che non ci saranno alternative in questo secolo tra islam e cattolicesimo. Perché il vuoto di chi non crede in niente di eterno alla fine viene riempito da un pieno spirituale. Temo abbia ragione. Temo però sia ottimista a pensare che le due religioni se la giocheranno alla pari. Vince il più cattivo, nella vita.
Non ho comunque nessuna intenzione di convertirmi né a Dio né ad Allah. Ma tifo per il cattolicesimo. È vero che il cristianesimo che ho conosciuto fa abbastanza schifo. Ma peggio del cristianesimo c’è solo l’islam. I curati non tirano sassi alle adultere, e quanto al vino, lo bevono loro per ragioni di lavoro. Ma se vincono gli altri, i giovanotti a cui abbiamo offerto gratis le tre «i» faranno la ronda, ci esamineranno l’alito e troveranno senz’altro spie che racconteranno dove teniamo l’ultima bottiglia di whisky.
Non sono contro l’istruzione degli immigrati. Ma non è quello il rimedio alla barbarie. Semmai la fa diventare più raffinata. Quei ventenni musulmani di casa nostra si arruolano per scannarci non perché subiscono emarginazione sociale e disoccupazione, ma perché abbiamo lasciato in giro nelle moschee visibili e in quelle invisibili che circolano su Internet i predicatori della nostra morte e della loro vita. Non è che io abbia rimedi in mente tali da toglierci il pericolo di torno. Ma limitarlo almeno, quello sì.
A fine marzo la Digos di Brescia ha individuato tre militanti dell’Isis che gettavano reti dovunque per raccogliere soldati da spedire dal Califfo o da impiegare per qualche attentato a casa nostra. La propaganda che diffondevano (e gira ancora, si moltiplica mentre mi leggi, per la legge inesorabile dell’elettronica) è suadente, gloriosa, dà un senso alla vita al prezzo della morte degli altri. Si chiama «e-jihad». È una guerra santa virtuale, ma poi menano e sparano sul serio. Nel lasso di tempo che passa dal virtuale alle pozze di sangue vale la regola dell’intangibilità del libero pensiero? Io sono convinto che questo valga sempre, meno quando si è in guerra, e i cervelli esplodono per un proiettile di piombo qui o in Iraq con un movente che si chiama Corano. Scommettiamo che i nostri giudici, grazie a leggi che consentono di mettere in galera i giornalisti per degli articoli, sosterranno che in fondo non si può censurare né un pensiero né una religione e li lasceranno andare con tante scuse? E magari processeranno per islamofobia chi mette in dubbio la sincerità democratica degli imam. Sono organizzatissimi. Ci sono studi di avvocati lestissimi a fare causa per danni a chi accenni a legami tra certe prediche e gli attentati.
Ho imparato una cosa. La causa per islamofobia, sia che finisca in condanna sia in assoluzione, è la premessa per la morte degli accusati. Nel marzo 2008, per esempio, l’Uiof (Unione delle organizzazioni islamiche di Francia) fece sapere con un comunicato stampa:
La nostra Unione perseguirà tutte le procedure legali per porre fine all’accanimento contro il Profeta Maometto – pace su di lui – e alla stigmatizzazione sistematica dell’islam e dei musulmani.
Chiunque, giornalista, politico o avvocato, si occupi di islam ha buone probabilità di venire citato in tribunale per «oltraggio nei confronti di un gruppo di persone in ragione della l...