
- 322 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La poltrona n° 30
Informazioni su questo libro
Monte Field, un losco avvocato di New York, si è recato a teatro per assistere a un dramma poliziesco di grande successo. Ma quando il sipario cala sulla scena, cala anche sulla sua vita. Il caso si presenta subito complicato: dove sono finiti i biglietti acquistati per le poltrone accanto al luogo del delitto e mai usati? Che fine ha fatto il cappello della vittima, chi e perché l'ha fatto sparire? E chi ha offerto a Field quell'ultimo whisky fatale? Domande a cui la polizia non riesce a dare una risposta. Fino a quando non entrano in scena i Queen, padre e figlio che, grazie alla loro logica deduttiva e all'istinto professionale, riusciranno a ricomporre i pezzi dell'intricato enigma.
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Informazioni
Print ISBN
9788804526070eBook ISBN
9788852067068Parte prima
Il poliziotto deve spesso seguire gli insegnamenti dei “bakadori”, ossia di quegli stupidi uccelli che, pur sapendo della sorte disgraziata che li attende per mano – e per randello – degli avidi frequentatori delle spiagge, sfidano una morte ignominiosa al solo scopo di seppellire le loro uova nelle rive sabbiose… Così deve fare il poliziotto. L’intero Giappone non dovrebbe impedire loro di fare schiudere le uova alla perfezione.
da Mille foglie
di Tamaka Hiero
1
Dove vengono presentati un pubblico teatrale e un cadavere
La drammatica stagione teatrale del 192… ebbe inizio in un modo sconcertante. Eugene O’Neill aveva trascurato di redigere un nuovo dramma in tempo per consentire l’incoraggiamento finanziario dell’intelligentsia, mentre per quanto riguardava il settore di pubblico meno evoluto si era assistito al principio a un certo afflusso – privo di entusiasmo, occorre specificarlo – e poi a un deflusso orientato principalmente verso le più ingegnose – o ingenue? – delizie dei cinematografi.
Quella sera di lunedì 24 settembre, pertanto, quando una leggera pioggerella mista a foschia ammorbidiva i bagliori elettrici del quartiere teatrale di Broadway, l’affluenza del pubblico era sorvegliata con occhi cupi da direttori di teatro e da produttori i cui interessi andavano dalla Trentasettesima Strada a Columbus Circle. Diverse opere in cartellone stavano allora ricevendo il benservito dai rispettivi finanziatori, i quali nel farlo convocavano a gran voce la Divinità e il bollettino metereologico quali testimoni della loro tragedia. Quella pioggerella penetrante manteneva infatti il pubblico dei teatri più vicino ai suoi apparecchi radio e ai suoi tavoli da bridge. Broadway costituiva davvero una vista avvilente per quei pochi che avevano la temerarietà di aggirarsi per le sue strade deserte.
Il marciapiede dinanzi al Roman Theatre, sulla Quarantasettesima Strada a ovest della Broadway, comunque, ospitava una discreta folla di spettatori, considerata la stagione già inoltrata. Il titolo della commedia, Gunplay, brillava a grandi lettere sopra l’ingresso, e i cassieri si davano da fare per accontentare la fila di persone dinanzi al botteghino aperto per la rappresentazione di quella sera. Il pomposo portiere, rigonfio del prestigio della sua uniforme e della placidità dei suoi anni, ammetteva in teatro gli spettatori in cilindro e abito da sera, e le loro impellicciate accompagnatrici, con un’aria soddisfatta, come se l’inclemenza del tempo non costituisse affatto un problema per tutti coloro che erano coinvolti nella produzione o nella rappresentazione di Gunplay.
Dentro il teatro, che fra l’altro era uno dei più recenti fra quelli aperti a Broadway, gli spettatori si accomodavano ai loro posti con aria visibilmente apprensiva, poiché il tono estremamente violento del dramma in cartellone era cosa risaputa da tutti. Lentamente, anche l’ultimo spettatore smise di sfogliare il proprio programma; il classico ritardatario pestò i piedi del vicino per raggiungere il proprio posto; poi le luci si attenuarono e il sipario si sollevò. Una pistola abbaiò nel silenzio, un uomo lanciò un urlo… la rappresentazione era cominciata.
Gunplay era la prima opera teatrale della stagione ad avvalersi dei suoni collegati abitualmente al mondo del crimine. Pistole automatiche, fucili mitragliatori, le sirene delle retate poliziesche nei night club di dubbia fama, il rimbombo letale della vendetta di qualche banda… insomma, l’intero armamentario sonoro di un mondo criminale romanticizzato era racchiuso in tre atti dal ritmo serrato. Era un riflesso esagerato di quei tempi, naturalmente: un po’ crudo e cruento, un po’ di cattivo gusto, e quindi estremamente gradevole al palato del pubblico teatrale. Di conseguenza le recite si replicavano dinanzi a una platea stracolma sia con il bel tempo sia con la pioggia. Il pienone di quella sera costituiva un’ennesima prova della popolarità di quello spettacolo.
La recita procedette normalmente, e il pubblico rimase elettrizzato dal finale tempestoso del primo atto. Poiché la pioggia era cessata, durante i dieci minuti di intervallo parecchi spettatori uscirono nel vicolo di fianco al teatro per una boccata di aria fresca. Con l’alzarsi del sipario all’inizio del secondo atto, le detonazioni sul palcoscenico aumentarono di numero e d’intensità mentre un dialogo esplosivo accompagnava sotto le luci del proscenio l’evolversi della vicenda verso il suo punto cruciale. Nulla di strano, quindi, se una certa agitazione in fondo alla platea passò inosservata, in quel buio e nel bailamme di voci recitanti. Nessuno sembrò accorgersi che qualcosa non andava, e lo spettacolo proseguì. Gradualmente, però, l’agitazione crebbe in intensità. A questo punto alcuni spettatori sul fondo del settore sinistro cominciarono ad agitarsi sui loro sedili e a riaffermare i loro diritti con zittii irritati. La protesta fu contagiosa. In pochissimo tempo decine di occhi si voltarono verso quel settore della platea.
Improvvisamente un urlo stridulo lacerò l’aria. Gli spettatori, eccitati e affascinati dalla rapida sequenza dei fatti sul palcoscenico, piegarono ansiosamente i colli in direzione dell’urlo, convinti di stare per assistere a un altro colpo di scena del dramma.
Senza preavviso, le luci del teatro si riaccesero, rivelando volti stupiti, impauriti e allarmati. Sull’estrema sinistra, accanto alla porta chiusa di un’uscita laterale, un robusto poliziotto teneva per un braccio un uomo magro dall’aspetto nervoso. Allontanando un gruppetto di curiosi con un gesto secco di una manona, l’agente urlò con tono stentoreo: «Restate tutti dove siete! Che nessuno si muova dal suo posto!».
La gente scoppiò a ridere.
Le risate si spensero rapidamente. Il pubblico notò infatti una curiosa esitazione da parte degli attori sulla scena. Pur continuando a snocciolare le loro battute dietro le luci del proscenio, gli attori lanciavano ogni tanto occhiate stupite verso la platea. Gli spettatori, notando queste occhiate e cominciando a fiutare con una punta di panico una tragedia nell’aria, presero ad alzarsi dai loro posti. La voce tuonante del poliziotto tornò a farsi udire: «Restate ai vostri posti, ho detto! Non muovetevi!».
Il pubblico capì bruscamente che non si trattava di una variante del dramma, ma di una ben più cruda realtà. Diverse donne strillarono e si avvinghiarono ai loro cavalieri. In galleria, dove gli spettatori non erano in grado di vedere cosa succedeva di sotto, scoppiò un pandemonio.
Il poliziotto si voltò seccamente verso un uomo tarchiato e dall’aria straniera che, in abito da sera, gli stava vicino continuando a torcersi le mani.
«Signor Panzer, devo chiedervi di far chiudere tutte le uscite e di tenerle ben chiuse» ringhiò l’agente. «Mettete un inserviente a ogni porta e dite loro di bloccare chiunque cerchi di uscire. Mandate anche qualcuno fuori, nei vicoli laterali, finché non arriveranno rinforzi dalla stazione di polizia. E fate in fretta, signor Panzer, prima che qui si scateni l’inferno!»
L’ometto dal colorito olivastro corse via, facendosi largo fra un gruppo di spettatori agitati che, in spregio agli ordini tuonati dal poliziotto, si erano alzati per porgli delle domande.
La giacca-blu se ne stava a gambe larghe all’ingresso dell’ultima fila del settore sinistro, nascondendo con la sua figura massiccia un uomo in abito da sera il cui corpo era accasciato in una posa bizzarra sul pavimento fra le due file di poltrone. Sempre senza mollare il braccio dall’uomo tremante al suo fianco, lanciò una rapida occhiata sulla destra.
«Ehi, Neilson!» gridò.
Un uomo alto e dai capelli arruffati uscì di corsa da una stanzetta vicino all’ingresso principale e si aprì un varco fino all’agente, fissando poi la figura inerte fra le due file di poltrone.
«Cosa diavolo è successo, Doyle?»
«Meglio chiederlo a questo tipo» rispose cupo il poliziotto, dando uno scrollone al braccio dell’uomo che teneva ben stretto. «Qui c’è un uomo morto, e il signor…» lanciò un’occhiata feroce al magrolino che cercò di farsi ancora più piccolo.
«P-Pusak… W-William Pusak» balbettò l’ometto.
«… il signor Pusak» proseguì Doyle «dice di averlo sentito sussurrare che era stato ucciso.»
Neilson fissò di nuovo il cadavere, allibito.
Il poliziotto si morse un labbro. «Sono in un bel guaio, Harry» disse rauco. «L’unico agente in tutto il teatro, e questa banda di pazzi urlanti da tenere a bada… Avrei bisogno di un favore.»
«Non hai che da dirlo… È proprio un bel guaio!»
Doyle ruotò furibondo su se stesso per rivolgersi a uno spettatore che, tre file più avanti, era salito con i piedi sul suo sedile per vedere meglio cosa stesse succedendo sul fondo. «Ehi, voi!» urlò. «Scendete subito! E voi altri, tornate ai vostri posti o vi arresto tutti quanti!»
Si rivolse di nuovo a Neilson. «Harry, vai nel tuo ufficio e telefona alla Centrale, dicendo che c’è stato un assassinio» sussurrò. «Chiedi dei rinforzi… parecchi rinforzi. Dì loro che siamo in un teatro, così sapranno cosa fare. E prendi anche il mio fischietto… esci in strada e fischia con tutto il tuo fiato. Devo avere subito un po’ di aiuto.»
Mentre Neilson si riapriva un varco tra la folla, Doyle gli gridò dietro: «Meglio chiedere di mandare qui il vecchio Queen, Harry!».
L’uomo dai capelli arruffati scomparve nel suo ufficio e pochi istanti dopo, dal marciapiede davanti al teatro, giunse un fischio stridulo e ripetuto.
Il direttore del teatro – l’ometto dalla carnagione olivastra a cui Doyle aveva ordinato di disporre uomini alle uscite e nei vicoli – cercò di tornare dal poliziotto fra la ressa. Lo sparato della sua camicia era leggermente gualcito e lui si stava tamponando il sudore dalla fronte con aria esterrefatta. Una donna lo bloccò mentre tentava di avanzare, squittendo: «Perché questo poliziotto ci trattiene qui, signor Panzer? Ho tutto il diritto di andarmene, se lo voglio! Non mi importa se è successo un incidente… io non c’entro affatto… sono affari vostri… per favore, ditegli di smetterla di importunare delle persone innocenti!».
L’ometto balbettò, cercando di sfuggirle. «Andiamo, signora, vi prego… Sono certo che l’agente sa quello che sta facendo. È stato ucciso un uomo… quindi è una faccenda seria, lo capite? Come direttore di questo teatro io devo seguire i suoi ordini… Vi prego, restate calma e abbiate un po’ di pazienza…»
Riuscì a liberarsi dalle sue grinfie e si allontanò prima che lei potesse protestare.
Doyle, intento ad agitare spasmodicamente le braccia, si era messo in piedi su un sedile e tuonava: «Ho detto che dovete mettervi seduti e starvene tranquilli, tutti quanti! Non mi importa se siete anche il sindaco in persona… anzi, sì, proprio voi, con il monocolo… restate seduto o vengo io a provvedere! Ma non capite cosa è successo? Fate silenzio, ho detto!». Scese dal sedile, asciugandosi fra qualche imprecazione il sudore dalla fascia interna del berretto.
In tutta quella confusione, mentre la platea ribolliva come un gigantesco calderone e dalla galleria la gente si sporgeva a rischio dell’osso del collo per capire cosa succedesse di sotto, la brusca interruzione della recita sul palcoscenico passò inosservata. Gli attori avevano interrotto le loro battute a mezzo, battute rese insignificanti dal dramma accaduto dall’altra parte del proscenio. Adesso l’abbassarsi del sipario poneva fine all’intrattenimento di quella sera. Gli attori, parlottando fra loro, si diressero verso le scale del palcoscenico. Come gli spettatori, anch’essi sbirciavano allibiti verso il punto focale di tutto quel trambusto.
Fra loro, una paffuta e anziana signora con un abito a dir poco vistoso – la celebre attrice d’importazione scelta per il personaggio di Madame Murphy, la “proprietaria di un locale notturno” – che rispondeva al nome di Hilda Orange; la sottile e squisita figura di “Nanette, fanciulla della strada”, ovvero Eve Ellis, il principale personaggio femminile del dramma; l’alto e robusto eroe maschile, James Peale, vestito di ruvido tweed e con in testa un berretto; l’attor giovane, Stephen Barry, elegantissimo nell’abito da sera che gli serviva per caratterizzare il giovanotto della buona società caduto nelle grinfie della “banda”; Lucille Horton, la cui interpretazione della “donna perduta” si era attirata una pioggia di elogi dai critici teatrali che in quella sfortunata stagione avevano trovato ben poco per cui stravedere; un anziano signore con pizzo il cui irreprensibile abito da sera costituiva una lode per la sartoria di Monsieur Le...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- La poltrona nº 30
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Parte quarta
- Copyright