Ci sono pallavoliste dappertutto, anche sui muri. Soprattutto sui muri. Questi cinesi prendono il volley molto sul serio. Siamo a Xiamen, in raduno pre-Mondiale, e viviamo all’interno di un campus interamente dedicato alla pallavolo, dove è impossibile pensare ad altro. Quando non sei in palestra, le pareti di tutti gli altri spazi sono ricoperte con foto e gigantografie di azioni di gioco. Rigorosamente raffiguranti giocatrici della Repubblica Popolare di Cina.
In realtà poi il nostro Mondiale non sarà qui, ma in Thailandia, e questa è solo una tappa per permetterci di arrivare al torneo già acclimatate e abituate al fuso orario. Così intanto prendiamo confidenza con questi palazzetti in cui sparano l’aria condizionata a temperature polari e viene quasi la tentazione di allenarsi con addosso la felpa.
Ci hanno detto che a Nakhon Ratchasima, la nostra destinazione finale, il campo dove giocheremo le partite si trova all’interno di un centro commerciale. A noi sembra una bufala, una di quelle storie da raccontare a delle ragazzine che non hanno ancora mai girato per il mondo e hanno visto quasi sempre e solo vecchie palestre italiane. Invece è proprio così: al terzo piano di The Mall, tra un Pizza Hut e uno Starbucks, c’è il palasport dove ci giocheremo le nostre chance di diventare una delle più forti squadre del pianeta.
In realtà il primo posto è già prenotato: lo sanno tutti che il Brasile è imbattibile. Per arrivare a dargli fastidio ci servirebbe un miracolo o tutto l’influsso positivo dei korat, i gatti che sono considerati una sorta di simbolo di Nakhon Ratchasima e pare siano uno straordinario portafortuna. Grigi, con gli occhi verdi e la testa a forma di cuore: sono così belli che me ne porterei subito uno a casa.
Fin da quando ero bambina ho sempre avuto un gatto: quando sono partita per il Club Italia, Patacca è rimasto a Settimo con mamma Silvia, ma ogni volta che torno me lo spupazzo come quando ero piccola e lui era il mio compagno di giochi preferito.
In Thailandia però non ci sono solo splendidi gattini... il mio incubo si chiama geco, quel piccolo rettile che assomiglia a un lucertolone capace di arrampicarsi dappertutto e che le altre ragazze della squadra trovano carino, mentre a me fa semplicemente ribrezzo. Non oso neppure immaginare come reagirei se me ne trovassi uno addosso, se sentissi le sue zampette adesive su di me. Mi metterei a urlare, di sicuro. E poi dovrei trovare il modo di togliermelo senza spiaccicarlo sul pavimento, come farei d’istinto. È più forte di me, i gechi mi mettono una paura irrazionale e incontrollata. Il problema è che questa città sembra esserne ricoperta. Sono ovunque e io cammino sempre guardandomi intorno.
Al di là delle mie personali fobie, a tenerci tutte in apprensione è l’epidemia di influenza suina che sta dilagando. A partire da giugno l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato il livello di allerta massimo, parlando ufficialmente di pandemia, e la Thailandia è uno dei Paesi più colpiti dal contagio. Le famiglie ci bombardano di raccomandazioni via telefono e pure lo staff della Nazionale ci invita a limitare al massimo contatti e situazioni di sovraffollamento. Più facile a dirsi che a farsi, se devi giocare un Mondiale. Per precauzione, quando non siamo in campo ci copriamo bocca e naso con le mascherine verdi da sala operatoria, che ci fanno sembrare sul set di Grey’s Anatomy, ma a quanto pare non basta, perché Sara Carrara – il nostro libero – si ammala. Per fortuna il virus non è grave, se curato adeguatamente e in maniera tempestiva, però lei non è in grado di giocare e questo complica il nostro cammino, perché perdiamo il riferimento più importante che abbiamo in ricezione. E tra sintomi influenzali e cautele da ipocondriaci, aumenta la paura che l’A-H1N1 (il nome ufficiale della febbre suina) si diffonda.
In qualche modo però andiamo avanti: febbricitanti, ma lo «Spirito di Squadra» c’è ancora.
Lo tiriamo fuori vincendo due tie-break di fila, necessari per battere Repubblica Dominicana e Slovacchia e fondamentali per passare il turno perché alla terza partita, come previsto, il Brasile ci asfalta 3-0. Poi però nella seconda fase perdiamo 3-1 contro la Turchia, che non ci aveva mai sconfitto prima. La buona notizia è che abbiamo ancora una chance per guadagnarci l’accesso alla semifinale e, di lì, al podio. La cattiva è che, per sperare di passare, dovremo battere il Belgio campione d’Europa. Ancora loro, ancora la Van Hecke.
Quest’anno nessuno è riuscito a sconfiggerle: 14 partite, 14 vittorie.
Stavolta però Lise e le sue compagne non avranno vita facile come a Rotterdam. Nel terzo set, sull’1-1, abbiamo la possibilità di metterle in crisi, andando subito avanti 7-2. Altro che in Olanda, adesso sono loro ad avere le facce spaventate e disorientate. Sembra fatta, invece non solo non riusciamo a difendere il vantaggio, ma perdiamo pure 25-19. A quel punto le proviamo tutte, rischiamo di più in battuta, sistemiamo il muro e variamo le soluzioni in attacco: se dobbiamo uscire, vogliamo farlo con onore. Restiamo in partita sino all’8-7 del tie-break, poi ci pensa la Van Hecke e finisce 15-9. Niente podio mondiale per noi. Il Belgio sarà terzo, la Serbia chiuderà seconda, mentre a vincere, come da pronostico, saranno le brasiliane.
Noi non siamo pronte per competere con loro. Non ancora.
Al rientro in Italia ci mettiamo subito a lavorare per aprire un nuovo ciclo.
Un terzo posto europeo e un ottavo mondiale dicono che non siamo poi così scarse.
Ora ci attende un progetto biennale: con la Nazionale juniores verrà creato un nuovo gruppo e ritroverò Mencarelli in panchina, così – tra Club Italia e impegni con la maglia azzurra – lavoreremo insieme dodici mesi l’anno. Per fortuna ho imparato ad apprezzarlo, altrimenti una prospettiva del genere potrebbe essere preoccupante.
Il Menca è esigente, richiede il massimo impegno e non esita a intervenire duramente se un allenamento sta prendendo la piega sbagliata. Lo so bene, perché ho assistito a tante sue sfuriate all’Acqua Acetosa, ma quando si tratta di Nazionale la pressione aumenta ulteriormente e non sono ammessi cali di concentrazione. Non quando il prossimo appuntamento è vicino.
Terminato il campionato, per preparare gli Europei effettuiamo collegiali su collegiali. La nostra squadra si è arricchita di un pezzo importante come Caterina Bosetti, che a soli quindici anni ha già esordito in A1 con Villa Cortese. Caterina è cresciuta respirando pallavolo: suo padre ha allenato anche la Nazionale femminile, sua madre ci ha giocato, collezionando 93 presenze in maglia azzurra, e sua sorella Lucia – maggiore di cinque anni – gli Europei juniores li ha già vinti.
Un bell’innesto per la nostra squadra che, nell’ossatura, rimane la stessa che ha giocato in Thailandia, con me e Letizia in diagonale, Floriana e Giulia centrali, mentre da Novara è arrivata il libero Carolina Zardo, che è cresciuta accanto a Paola Cardullo e ora dà ulteriore solidità alla nostra ricezione.
Prima di partire per la Serbia, dove si svolgeranno gli Europei, tra allenamenti e amichevoli facciamo una sorta di giro d’Italia: Ragusa, Boario Terme, Roma, Nocera Umbra... Cambiano i luoghi, ma il menu è sempre lo stesso, in estate come in inverno: due settimane in palestra, due giorni a casa, poi si ricomincia con altri quindici giorni di lavoro che, con il passare dei mesi, diventa sempre più intenso. O dentro o fuori, non c’è spazio per chi non è disposta a metterci dedizione totale. Non basta fare presenza, stare in campo ed eseguire quello che ci viene detto. Bisogna metterci testa e cuore, altrimenti Mencarelli si accorge subito se siamo distratte o non ci impegniamo abbastanza.
Quando mancano pochi giorni all’esordio e siamo già in Serbia, in ritiro a Niš – una città a una novantina di chilometri dal confine con la Bulgaria –, il nostro coach decide di darci una lezione memorabile.
L’allenamento per un po’ procede come al solito: riscaldamento, esercizi di stretching, poi cominciamo a provare alcune situazioni di gioco. Siamo reduci da un’ora davanti al video, a studiare le nostre avversarie e a ripeterci quello che dobbiamo fare, ma in campo si vede poco, quasi nulla di quello che ci siamo dette qualche minuto prima.
Mencarelli ci osserva, prova a correggerci dando nuove indicazioni, ma poi a un certo punto smette di parlare. E interrompe la seduta.
«Stop, fermatevi. Venite qui.»
Quando siamo tutte davanti a lui, sudate e ansimanti, ci guarda a una a una negli occhi, prima di cominciare a parlare.
«Questo non è un allenamento. O, almeno, non è un allenamento degno dell’Italia. Tra qualche giorno entrerete in campo per giocare un Europeo e la nostra Nazionale ha una tradizione da difendere e onorare: ha vinto le ultime tre edizioni, in diciotto anni solo una volta non è salita sul podio. E adesso tocca a voi.»
Mentre parla, il silenzio è assoluto. Teniamo la testa bassa per timore di incrociarne lo sguardo.
Ci aspettiamo un discorso duro e invece la ramanzina è già finita.
Non ha molto da aggiungere. Passa ai fatti: «Adesso ritornate in spogliatoio. Voglio che giriate le vostre T-shirt al contrario. Finché non vedrò il giusto impegno, vi allenerete così. Perché non siete degne di indossare la maglia azzurra».
È un gesto che fa male, ma il Menca riesce nel suo intento. Ci scuote molto più che con mille parole. E quell’Europeo comincia nel modo giusto: tre partite e tre vittorie. Ungheria, Turchia, Polonia... non lasciamo neanche un set alle nostre avversarie. E neppure la sconfitta contro le tedesche, l’unica nel girone di qualificazione, riesce a farci perdere sicurezza. Anzi. Quando ci ritroviamo nella stanza dove vengono effettuati i sorteggi per le semifinali e dall’urna viene pescato il nome della Germania, noi esplodiamo in un urlo di soddisfazione. Altro che paura: vogliamo prenderci la nostra rivincita. E ce la prendiamo.
A questo punto siamo in finale, sicure di tornare almeno con una medaglia. Per l’oro ci resta l’impresa più difficile: battere la Serbia in casa.
Con la squadra cadette loro in Thailandia sono diventate vice-campionesse mondiali, e questa formazione ricalca quella dell’anno precedente. C’è Sara Klisura, che ha un servizio micidiale, e c’è Ana Bjelica, da cui passa buona parte dei loro attacchi. E poi ci sono 1800 tifosi che riempiono il palazzetto di Niš e qui, a un’ora di strada dal Kosovo, fanno sentire tutto l’orgoglio serbo.
Dovremmo essere impaurite, invece dominiamo la partita sin dall’inizio. Chiara Scarabelli, il nostro capitano, è una sicurezza in ricezione e insieme alla Bosetti offre un’alternativa in più alla Camera, quando non sono io ad attaccare. Le serbe non riescono a tenere il nostro ritmo, devono sempre inseguirci, anche per buona parte del terzo set, che pure vincono. Noi non ci scomponiamo e ognuna si ritaglia un pezzetto d’Europa: Letizia piazza tre ace, Giulia cinque muri, io metto a terra diciannove punti e sono la miglior realizzatrice dell’incontro.
La medaglia d’oro è nostra.
E adesso?
Chi pensa di godersi a lungo questo trionfo, non ha fatto i conti con Mencarelli. Più ci conosce e più sa come spingerci a non accontentarci: rifiatiamo, immergendoci poi nuovamente nella quotidianità del Club Italia, ma intanto lui comincia a instillarci la curiosità per la prossima destinazione e l’obiettivo successivo. Abbiamo un anno per prepararci ad andare in Perú e provare a capire qual è il nostro posto nel mondo, ora che abbiamo dimostrato che in Europa siamo noi le numero 1.
I Mondiali juniores sono una manifestazione che l’Italia non ha mai vinto e, ancora una volta, le favorite sono le brasiliane. Hanno conquistato quattro delle ultime cinque edizioni, non perdono dal 2008 e hanno inanellato 47 vittorie consecutive. Praticamente non abbiamo speranze.
Forse per questo Mencarelli decide che il raduno pre-Mondiale lo faremo proprio in Brasile, a San Paolo. Impareremo dalle più forti, per provare a crescere ancora. Che lezioni, però! Prima di spostarci in Perú, disputiamo tre amichevoli con le brasiliane e non riusciamo a strappare neppure un set. Sono impressionanti e riescono a fare cose che appaiono impossibili. Io resto basita quando vedo Gabriella, la loro numero 12. È alta appena un metro e settantacinque, così compatta e robusta che ti chiedi come faccia a saltare. Ma, appena inizia a giocare, si presenta per quello che è: una schiacciatrice che fa male.
Ce ne fa parecchio anche nella partita con cui iniziamo il Mondiale: il Brasile è il nostro primo avversario, e l’unica nota positiva è che almeno stavolta siamo riuscite a non finire a zero. Perdiamo 3-1 e io vengo battuta nella mia personale sfida con Gabriella. Lei è stata la giocatrice che ha fatto più punti, mettendo 22 palloni a terra, mentre io mi sono fermata a 15.
La nostra avventura è cominciata con un ko e, per quanto prevedibile e prevista, questa sconfitta può condizionarci. Siamo in un girone che sembra una Final Four, non un turno di qualificazione. Dopo il Brasile ci attendono Cuba e la Serbia, che aspetta da un anno di incontrarci di nuovo. Non c’è tempo per elaborare lo choc perché giochiamo ogni giorno, senza pause, e così Mencarelli ci riunisce la sera stessa in una sala dell’hotel di Lima che ci ospita.
Vuole che il giorno dopo ognuna di noi scenda in campo contro le cubane senza retropensieri o paure. E per convincerci sottolinea quella che in effetti è stata una piccola-grande impresa: «Non dovete pensare al risultato finale. Dovete concentrarvi sul set che avete vinto: non ci eravate mai riuscite prima. Questo significa che avete giocato la vostra miglior pallavolo di sempre. Continuate così. Per passare il turno non serve altro».
Ha ragione, come dimostrano i due 3-0 con cui superiamo cubane e serbe.
Ora però ci attende la prova più difficile, non dal punto di vista tecnico, ma nervoso: affrontare il Perú sostenuto da cinquemila spettatori che trasformano l’Eduardo Dibós Coliseum in una bolgia sudamericana. Ci sono bambini che gridano, mamme che sembrano possedute da un demonio pallavolistico e ci sono pure uccelli che volteggiano sul soffitto del palasport, dove hanno nidificato e da dove, incuranti della partita, fanno cadere sul campo (e sulle nostre teste...) il frutto della loro digestione.
«Dovete immaginare di infilare la testa in un acquario...